Orinoco - 2)Guarapita a go-go, cacao meravigliao, piranha e altri mostri del fiume

di MANUELA CASSARA' *

Sembrerebbe che non ci siamo fatti mancare nulla, in Venezuela. Dopo l’ennesimo dimenticabile pit stop nella Capitale, così scansadi e disinteressati - non eravamo nemmeno andati a verificare la veridicità della pubblicità del Rum Pampero, quello che vantava di essere bevuto nei peggiori bar di Caracas - eravamo partiti per il Parco Henry Pittier: il più esteso della costa e il primo a essere catalogato come “Nazionale”. Fondato nel 1937, voluto e in seguito dedicato al diligente botanico svizzero che aveva passato la sua vita a classificare oltre 30.000 specie di piante indigene. Se lo meritava.


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(I nostri eroi e il kit Guarapita)


Tre ore e passa di macchina, 160 chilometri, la nostra non più giovane vita nelle mani di un certo Felix, che doveva esserne consapevole perché a ogni tornante si faceva il segno della croce, cosa che non era affatto tranquillizzante. Verso la fine del tragitto, dopo aver incrociato il rottame di un autobus rovesciato, a quel punto, sollevato, Felix ci aveva spiegato che aveva temuto l’incontro con l’autista dell’Avispon Verde, quel medesimo autobus di linea che faceva la tratta Morrocoy/ Puerto Colombia, guidato da un pazzo che ogni volta, alle spalle degli ignari passeggeri, scommetteva con se stesso di riuscire a fare il minor tempo su quei 952 km.

La cittadina di Choroni era una chicca a ridosso della catena montuosa di cui fa parte il Parco. A riguardarla, in rete e in retrospettiva, sembra un posto delizioso, non capisco come abbia fatto a rimuoverla dalla memoria. Avevamo scelto la Posada Henry Pittier, pulita, tranquilla, basica. Per bene. Playa Grande, la più vicina, avrebbe potuto essere un angolo di paradiso, se non fosse che già allora era invasa dalla basura lasciata dai molti surfisti fricchettoni che la frequentavano.


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(Choroni beach)


Per gustare una perfetta Guarapita - che è una bevanda solo apparentemente innocua, a base di rhum o agua ardiente e un succo di frutta fresca a scelta, Cocco, Mango, Ananas,  Guayaba (Guava), Parchita (Frutto della Passione), Lechosa (Papaya) - ci avevano consigliato El Abuelo, un ex pescatore che con l’alcolico ci andava pesante. Senza proferire parola, il vegliardo ci aveva lasciato sul tavolo due bottiglie da un litro, una al Cocco, una all’Ananas. Per par condicio, un sorso a una e uno anche all’altra, c’eravamo scolati mezzo litro a testa, per accompagnare una frittura di pesciolini e platanos, ambedue belli croccanti ma alquanto bisunti. Lo stratagemma aveva funzionato. Non solo avevamo digerito e passato la notte, ma la mattina, freschi come due rose, non avevamo detto di no ad un paio di sostanziose arrepite, a un tegamino di uova Pittier e a una bella caraffa di caffè. Allora ce la potevamo permettere. Rifocillati, avevamo provato a contrattare, senza successo, il passaggio in barca fino a Playa de Chuao. Inutile dire che quel filibustiere di Pippo, il barcaiolo, ci aveva fatto fessi e traghettato a caro prezzo. Arrivati al piccolo molo, sorpresa che non ci voleva, avevamo scoperto che ci attendevano 5 chilometri di camminata fino al paesello omonimo. Era lì che si lavoravano i semi del cacao coltivato nei dintorni.


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(Choroni)


Lo so è cretino, ma non resisto. Mi viene da canticchiarlo ora come allora: “Cacaoooooo meravigliaoo, che meraviglia sto cacao meravigliao”.

Perchè il Cacao di Chuao è davvero meravigliao. E’ rinomato nel mondo.

Solo che, con quella fortuna che talvolta ci perseguita, eravamo arrivati mentre i paesani si davano da fare per sgomberare il piazzale dai cumuli di semi messi ad essiccare, perché, ci avevano detto, potrebbe (e difatti potrà) piovere.

Però su “modico” compenso, erano stati disponibili ad aprire “solo per noi”, anche perché eravamo gli unici, le porte del loro Museo; parolone eccessivo per descrivere  un ambiente fatiscente, un paio di macchinari arrugginiti e  due poveri plastici impolverati; ma ci eravamo consolati comprando un vasetto di crema  spalmabile di  puro cioccolato e un paio di tavolette di quello che viene venduto come“ il miglior cacao al mondo”. Di ritorno a Puerto Choroni, dopo altre ulteriori scarpinate nel pueblo semi deserto, avevamo finito la serata in bellezza con una paella di mariscos dall’Abuelo, che ormai ci accoglieva come suoi parenti.


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(Cacao meravigliao)


Va detto a nostro totale demerito: nel parco Henry Pittier non ci abbiamo nemmeno messo piede. E così, indenni persino da un hangover da guarapita, eravamo ripartiti alla volta di Maturin, luogo che non varrebbe nemmeno la pena di menzionare, da dove ci eravamo fatti portare fino all’imbarcadero di San José de Buja, per proseguire in lancia per Boca de Tigre,  un campamiento nel Delta dell’Orinoco, di cui avremmo visto la punta dell’iceberg, considerati i  suoi 370 km di larghezza.


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(Acampamiento Boca de tigre)

Ricordo che avrei fatto volentieri a meno di scoprire, accanto alla lancia, il corpicino galleggiante di un serpente corallo in decomposizione, ma non sempre si può scegliere. Nostri compagni di viaggio, oltre ad un carico di frutta e verdura, due simpatici cagnolini, Chocolate e Katiuska, traghettatori impavidi e provetti. La lancia avanzava lenta, cercando di aprirsi un varco tra la massa compatta di giacinti d’acqua che si attorcigliavano all’elica, il che era preoccupante oltre che una scocciatura. Sulle sponde la gente si faceva i fatti suoi, chi oziando su un’amaca, chi cucinando, chi lavando i panni: solo i bambini, felici e iperattivi, si godevano il fiume.

L’accampamento, come si poteva immaginare, era rustico abbastanza, confortevole altrettanto. Arrivarci, dopo qualche ora accucciati sulla barca, era stato un sollievo.


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(Delta dell'Orinoco)


La stanza era spartana, ma con tutto il necessario. Incluse le istruzioni per l’uso: la nota appesa dietro la porta era perentoria: “Evitare di fare il bagno, ci sono i piranha. Come se a uno gli venisse in menteNon menzionava invece la molto probabile esistenza anche di un mostro enorme, tipo il nostro pesce siluro, del quale avevo trovato, sul molo, una squama grande come un cucchiaio.

“Guardate dove mettete i piedi. La Tremichera si mimetizza tra le foglie”. Consiglio che mettevo in pratica alla lettera, visto che il fer de lance è una vipera brutta e carogna.

“Spalmarsi abbondantemente di antizanzara”, cosa che mi sembrava alquanto ovvia, visto il nugolo costante.

Ma il meglio era l’ultimo, addirittura in neretto: “Proteggetevi bene dal sole”, le insolazioni, QUI, sono la cosa più pericolosa.”

Pensa te, e io che avrei detto che il sole sarebbe stato il male minore.

Se nel Parco Henry Pittier avevamo battuto la fiacca, sul delta invece, avevamo dato il meglio di noi.


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(La lancia a San Josè)


Iniziando con una seduta di pesca al piranha. Con la sua curaba stretta e scomoda Juan ci aveva portato in un angolino remoto e silenzioso del fiume, intenzionato a farceli pescare. Noi eravamo riusciti solo a farli ingrassare, ma Juan ne aveva preso all’amo sei. Non erano grandissimi. No. Erano molto colorati, sì. Con dei dentini notevoli, che aveva messo alla prova facendogli addentare la radice di un giacinto d’acqua.   Con un bel “chomp” secco l’aveva mozzata in due. Comunque li avevamo liberati in acqua.   Poi, sempre in piroga, ci aveva portato a visitare i villaggi warao che sorgevano sporadici e sonnolenti lungo le rive: detti anche popolo delle canoe,  questi indios vivono su palafitte aperte,  il cui unico arredo erano, al massimo, un paio di amache, qualche bacinella in plastica, degli sdruciti abiti appesi ad un gancio.

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(Piranha)


Si guadagnavano qualche pesos scortando i turisti nella foresta, felici di condividere le loro abitudini. Ci avevano fatto conoscere il moriche, un albero factotum simil palma; dalla corteccia interna, sottile come plastica, si ricava un foglio utilizzato per scrivere; dal cuore del tronco si estrae il famoso palmito, arrivato anche sulle nostre tavole; con le foglie si ricoprono i tetti, e adeguatamente trattate e intrecciate, ci si fanno ceste e amache. Persino il frutto, una specie di dattero bitorzoluto, è commestibile. Non a caso è detto l’albero della vita. Gli indios, sghignazzando, e pregustando il nostro rifiuto, ci avevano sollecitato a provare una loro delicatessen, il caramelo, un bruco cicciotto e oleoso che si poteva consumare,  pare, crudo o fritto. Un esserino bruttino ma benevolo, il suo olio curava persino le ulcerazioni.


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(San Josè de Buia)

Colpo di grazia la mattina seguente. Full immersion nella foresta. E non uso il termine a caso: si erano aggiunti sei ragazzotti italiani, atletici e entusiasti, loro. Si procedeva in fila indiana, in salita, utilizzando le radici degli alberi come gradini, attenti a dove mettere le mani, per non farsi mordere da qualsiasi cosa, insetto, rana, serpente, fosse velenosa e acquattata tra i rami. Si saliva impantanati nel fango, che entrava copioso, risucchiato dai miei stivali di gomma, mentre la pioggia rimbalzava sulla mantella di nylon e le zanzare si abbattevano come stukas in picchiata, per volar via schifate dal Deet, con il quale mi ero cosparsa. Ci saranno stati quaranta gradi. L’aria, dolciastra, odorava di foglie marce.  Un inferno. Il beneamato si era affrettato a documentare il mio volto paonazzo, con gli occhi fuori dalle orbite. Avrei menato a lui e la guida. Sarei schiattata, se non fosse che, per fortuna, a tutto c’è una fine. Arrivati sul cucuzzolo, il cielo solcato da due arcobaleni benevoli si era aperto sopra di noi, mentre un’aquila aveva volteggiato maestosa sopra le nostre teste. Ne valeva la pena? Ne valeva la pena. E’ rimasto uno dei pochi ricordi che non ha avuto bisogno dei miei scarabocchi per tornare a galla.

(2 - continua)

leggi la prima puntata


*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)


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