Spider monkeys e formiche di fuoco, scoprire l'Orinoco nel Venezuela pre Chavez

di MANUELA CASSARA'*

Voglio considerarlo un segnale rincuorante, il fatto che di quel viaggio in Venezuela, nel lontano Agosto del 2000, non ricordi quasi nulla.  Segno, mi dico, che la memoria remota non ha ancora preso possesso dei miei storicamente selettivi ricordi e che quindi sarò anche anziana, ma non sono ancora completamente rimbambita.

Il provvidenziale libronejpg


A sopperire alle lacune, a parte qualche flashback onirico su certi episodi, quasi fossero dei fotogrammi mentali che arrivano improvvisi, c’è però il ritrovamento di un altro album di viaggio, un quadernone pesante e malconcio sul quale avevo annotato, appiccicato, incollato, scritto le mie impressioni e trascritto pedantemente il programma di un viaggio che sarebbe durato un mese, dal confine della Colombia al Santo Angel, alle foci dell’Orinoco, e che si sarebbe concluso con un dulcis in fundo molto italico e sibaritico a Los Roques, con Caracas come fulcro di una serie di andirivieni in aereo.  Soggiorni brevi quelli di Caracas, e rimossi, salvo, come unico ricordo, l’inquietante visione, dal finestrino, delle fatiscenti favelas arroccate sul Cerro omonimo. Già allora, quando il Venezuela era un paese in pieno boom economico. Non oso pensare oggi, in pieno sfacelo.



Amazonas e Orinocojpeg


All’epoca il cellulare, che era un Nokia basico, aveva solo, come funzione, il telefono. E già mi sembrava un miracolo riuscire a chiamare la mia ignara mammetta ultra ottuagenaria che, povera, non aveva idea di quello che stava combinando la sua unica figliola. Certo avrebbe preferito saperla in spiaggia a Fregene.

Ma torniamo al quadernone e alla sua funzione pre-smart-phone. Pre-Facebook, quel luogo virtuale dove ho imparato a pubblicare tutte le mie impressioni, le mie emozioni, la quotidianità. Al posto dei futuri selfie imbarazzanti, ho ritrovato dei disegnini elementari, al posto dei foto reportage estemporanei ci sono schizzi approssimati, illeggibili raccontini scarabocchiati che mi hanno trasportato in quei posti lontani e dimenticati.

al confine con la Colombiajjpeg

Se io mi ero accollata il quadernone, Gianni era zavorrato dalla sua Canon ammiraglia, un kit professional corredato di zoom, grand’angolari, teleobbiettivi e aggeggi vari che avrà pesato una decina di chili, ma che lui si portava dietro stoicamente. All’epoca, poi, scattava su pellicola. Quindi c’era anche quell’ ingombro. Certo è che costi e disagi non limitavano il suo entusiasmo.

A documentarlo le migliaia di diapositive, catalogate in raccoglitori, oggi coperti di polvere, stipati nel deposito di un amico. Se ci avessero sequestrato i Narcos, so per certo che il beneamato mi avrebbe barattato e lasciato al mio trucido destino, piuttosto che dar via il suo prezioso equipaggiamento. D’altronde scadeva il fatidico Settimo Anno e si sa quello che succede ai matrimoni, dopo sette anni.

Anti Piri Pirijpeg

Eravamo atterrati a Caracas il 29 Luglio, il giorno prima delle elezioni che davano Hugo Chavez come vincente. Il resto, come sappiamo, è storia, anche recente. Tutto il Venezuela era in “Seca”. A secco. Per evitare, o quanto meno per limitare eventuali zuffe e tafferugli, per qualche giorno non si sarebbe trovato un goccio d’alcool in tutto il Paese. Il nostro hotel Avila, scelto per motivi di budget, aveva un che di coloniale male in arnese. Non era stata una scelta felice, ma già l’indomani avevamo il volo Air Venezuelas per Puerto Ayachuco, capitale dello stato di Amazonas: un traballante bielica di cinquanta posti, che viaggiava con temperatura di crociera di 35°, stando a quanto dicono i miei appunti, dei quali mi fido ciecamente perché contrariamente alla sacre scritture sono stati scritti in tempo reale.


Catarajpeg


Le hostess, stuccate e truccate come Nefertiti, erano, come molte altre loro connazionali, piuttosto bellocce e decisamente sexy. Non a caso si dice che il Venezuela sia “la Fabbrica delle Miss Universo”. Primato che si gioca con il Brasile. A colpi di ritocchini, aggiungo malignamente.

Ci aspettavano tre notti all’Orinoquia Camp, sulle sponde del fiume Orinoco, dove ci avevano accolto con un fresco mix di Frutto della Passione e Aqua Ardiente, alla faccia della Seca. Le accomodation erano in stile Churuatas, sulla falsa riga delle capanne degli Indios Piaroa. S’incominciava a ragionare. Avventura con ambience. Come piace a me. C’è chi dice che io sia avventurosa. Mica vero, io sono una molto comodosa. La capanna, termine riduttivo, era aperta su ogni lato, forse perché di lati non ce n’erano, essendo circolare. A livello fiume, un salottino in midollino si apriva sulle rapide non troppo baldanzose; il letto, nel soppalco, era avvolto nel bozzolo di una finissima zanzariera a prova di Puri Puri, ingordi microinsetti assetati di sangue. Noi, per andare sul sicuro, ci spalmavamo con il Deet 100, un antizanzare  ad ampio spettro pensato forse per i Berretti Verdi. Il bagno era en suite, con acqua a temperatura nature, ma di quella calda non si sentiva la mancanza.


La Guayavajpeg


In cucina c’era Jenny e sapeva il fatto suo; sul campo il suo compagno Emmanuel. Avevano un cognome olandese, si erano trasferiti li e credo che lì siano rimasti. Il posto è identico a come lo ricordo.

La mattina dopo, con un trekking di due ore, la nostra guida Ruben ci aveva condotto nella foresta, dove avevamo fatto conoscenza con una timidissima scimmietta  lunga di gambe e di coda, la Spider Monkey. Nonostante l’aria feroce, si era rivelata affabile e ben disposta. Nel tragitto avevo anche scavalcato quello che ricordava uno zampirone al pireto: un piccolo crotalo semi mimetizzato con una testolina triangolare che la diceva lunga sulla sua carognaggine. Tranquilla, mi aveva rassicurato il buon Ruben: oh sì è letale, ma gli indigeni ne curano il morso con la corteccia bollita di una pianta. A volte funziona. Peccato che non si ricordasse quale. E’ in momenti come questo che rimpiango lo Sean Connery col codino, ricercatore di piante  curative nel film "Mato Grosso"Lui l’avrebbe saputo.


La Spider Monkeyjpeg


Tra gli altri incontri “peligrosi” anche quello con la Hormigas de Fuego, o formica proiettile, o formica 24 ore, perché se ti morde le passi ululando dal dolore. Comunque c’è una giustizia, perché le loro capoccette, pestate con qualche spicchio d’aglio, condite con non so quale altro intruglio, diventano la Catara,  un condimento peperino che immagino faccia impallidire l’Habanero.

Dopo un sostanzioso breakfast all’inglese, accompagnato da una generosa caraffa di succo di Guayava appena spremuto,  eravamo saliti sulla traballante jeep del buon Ruben, che affrontava le buche con piglio determinato e assertivo. Arrivati alla Tienda Huarime, che in retrospettiva, doveva essere una specie di Rinascente di manufatti amazzonici, non ci eravamo fatti pregare e avevamo generosamente contribuito al PIL Locale, comprando nell’ordine: una collana con scaglie di caimano, un’arma rituale dall’uso non meglio identificato attribuita alla tribù Maquiritare detta anche Yekewana se preferite. Poi è venuta via con quasi niente una coroncina di azzurre piume di Guacamaya, pappagallino indigeno multicolor, già copricapo personale dello sciamano della tribù Piaroa, che spero  sia stato consenziente; poi due ceste Shote, di fattura Yanomana; poi una cerbottana Sanema  con relative freccette e faretra di corteccia, detta Carcaj.

Le accomodationsjpeg


 Orelis, l’indio responsabile della tienda, non credeva ai suoi occhi, mentre tirava le somme.  Non contenti, dopo una breve visita alla locale comunità di indio Guayabo, a Coromoto, siamo riusciti a farci appioppare anche un paio di marracas e un flauto, poi elargiti come souvenir agli amici rimasti a casa, accompagnati dagli allegri schiamazzi di un numero imprecisato di ragazzini, mentre un tizio si dava da fare per mostrarci come fossero riusciti a trasformare la manioca, da infestante schifosa e velenosa, nel loro alimento principale. Immagino ci siano stati danni collaterali prima di mettere a punto la ricetta. Il risultato era una specie di segatura insapore, che a mio avviso non giustificava né il rischio nè il lavoro. Ma se quello passa il convento…Le diverse etnie Indiosjpeg

C’eravamo dati tre giorni, all’Orinoquia Camp. Tre giorni zeppi d’impegni, stando agli appunti. I nostri ospiti erano più zelanti di Alpitour. Tra le attrazioni il più che perdibile Tabogan de La Selva, Joyas de Venezuela, dice Trip Advisor, ameno parco ricreativo che andava per la maggiore con i locali. Dopodiché l’infaticabile Ruben ci aveva trascinato a Puerto Ayachuco, per assaggiare dei fantastici sorbetti confezionati da un immigrato ungherese con le bacche della selva. Come resistere. L’ungherese, un vecchietto malconcio e sucio, ci aveva laconicamente accolto nel suo squallido antro, davanti ad un freezer mai sbrinato e abbastanza putrido. Nelle vaschette, sucie anche loro, delle poltiglie non meglio identificabili. Avremmo dovuto desistere, lo so, ma siamo gente di buon cuore; persino il beneamato, notoriamente schizzinoso, si era fatto tentare da ben due palline, una di pallido cocco, una di putrescente guayava rosata, che io avevo assaggiato in punta di cucchiaino, con la scusa della dieta. Siamo sopravvissuti. Strano.


LOrinoco davanti al campjpeg


Puerto Ayachuco, città di frontiera, che già di suo aveva un’aria malsana e strana, ad un giorno dalle elezioni sembrava sotto assedio. C’era odore di brogli, ci aveva spiegato il buon Ruben; anche solo trovare una pompa di benzina aperta aveva richiesto giri tra labirintiche stradine deserte, che facevano presagire cecchini sui tetti, come in ogni  buon film sul Sudamerica che si rispetti. Tornare in quel paradiso del nostro camp, cenare al lume di candela davanti ad un ottimo pollo al curry, ad una zuppetta di peperoni e a delle platanas fritte croccanti, il tutto accompagnato da dell’ottimo rhum, previa doccetta fresca, ci aveva rimesso in sesto.

Il giorno dopo, l’ultimo, gita in canoa a motore sull’Orinoco, con destinazione Isla Ghahibo. Al timone, Miguel, ci aveva intrattenuto elencandoci, con dovizia di particolari quanto fossero alte le possibilità di venir rapiti dai guerriglieri colombiani, che in quella zona isolata questo facevano per campare. Intorno a noi la jungla ci sovrastava, lussureggiante, di un verde impenetrabile e fluorescente, che con il nero delle pietre vulcaniche, il rosso sangue del terreno, l’azzurro del cielo sul quale si addensavano nuvoloni antracite, faceva la sua fotogenica figura. Il fiume sembrava largo e calmo come il lago Maggiore, deserto e silenzioso. Unico segno di vita, a parte i probabili malviventi acquattati in attesa di sopraffarci, un’altra canoa di sparuti pescatori. Sul lato Colombiano, sempre per rassicurarci, Miguel ci aveva indicato le mura del Carcere Minorile, una specie di Cayenna per adolescenti.


Maschera Piaroa Huarimejpeg


Arrivati all’isolotto, solo poche capanne circondate da cumuli di spazzatura. Unica cosa tirata a lucido, una batteria da cucina sulla quale una Indios in maglietta stava cuocendo la manioca, mentre un’altra ribaltava con destrezza tre pescioni su una griglia. Ci saranno stati in tutto una ventina d’individui: le donne più schive e affaccendate, gli uomini più cordiali e nullafacenti, i bambini come sempre curiosi e rumorosi. Campavano intrecciando ceste, ma non ce n’erano. Se no ci saremmo portate via, di sicuro, anche quelle. Avevano finito la materia prima, ci avevano detto. Ma la prendevano filosoficamente. Il commercio non doveva essere nelle loro corde. Risaliti in barca Miguel ci aveva dato un cauto assaggio delle rapide, evitando, con mio  sommo dispiacere, quelle dall’aria più baldanzosa e interessante.


Orinoquia Campjpeg

Pomeriggio ancora a Puerto Ayachuco, con visita al Museo Etnologico de Amazonas, fondato da Padre Enzo Ciccarelli, un excursus ben documentato e rispettoso tra i diversi stili di vita delle tribù, accumunate da un unico concetto: l’indivisibilità tra anima e corpo, l’unità con la natura.  E poi saremmo noi, i civilizzati, quelli con qualcosa da insegnare.

La mattina dopo partenza presto per Caracas. Come bicchiere della staffa, per brindare alla parentesi amazonica il dovuto rispetto, ci eravamo fatti una doppia Margarita cadauno, che ci aveva accompagnato in un sonno senza sogni, cullati dall’Orinoco.

(1 - continua)


*MANUELA CASSARA’  (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto)


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