Italianuzzi, più grandi ma solo dentro l'Europa
Il primo gennaio del 1999 undici paesi dell’Unione europea fissarono i loro tassi di cambio e adottarono una politica monetaria condivisa sotto il controllo della Banca centrale europea. Quel giorno nacque la moneta comune, l’euro. All’inizio fu la valuta elettronica usata dai mercati finanziari per pagamenti non contanti. Tre anni dopo, il primo gennaio del 2002, entrarono in circolazione e nei portafogli le banconote e gli "spiccioli".
Intorno al denaro continua a addensarsi il grande tema dell’Europa unica, politica, giuridica, culturale, civile: una aspirazione visionaria della quale si discute e si discuterà. Foglieviaggi celebra l’anniversario con questo speciale, "Vent'anni di euro: cosa ci aspettavamo? Cosa è accaduto?".
Racconteremo analisi, fantasie, sogni di futuro, aneddoti… una piccola testimonianza rivolta (anche) alle generazioni successive.
Per loro, andare da Roma a Amsterdam senza fermarsi a tutte le frontiere è la normalità.
Ma non fu sempre così ….
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di ANDREA ALOI*
Tre anni in rodaggio da bitcoin di lusso, da moneta virtuale e poi via, un euro per un caffè. Caruccio, ma ne è valsa la pena alla fine e pure al principio. Perché la moneta unica è stato un altro, ennesimo passo strategico sulla strada spesso accidentata della stretta colleganza europea, a carattere sì spiccatamente economico-finanziario e però con risvolti pienamente politici, come si è visto con la crisi dell’eurozona, le bollenti polemiche tra paesi parsimoniosi e paesi indebitati, il “whatever it takes” salvifico di Draghi presidente della Banca Centrale Europea (era il luglio del 2012) e il Next Generation EU, strutturatissimo piano di risposta alla catastrofe pandemica finanziato dal debito comune: una mossa che è autentico cemento solidale per l’Unione Europea.
Quasi dimenticato il borbottio dei nostalgici della lira, l’euro si è proposto con tutti i crismi simbolici ed effettivi di un cambio d’epoca. E con ricadute perfino sentimentali su tanti di noi italianuzzi, europei inconsapevoli o per istinto o intima vocazione, ben riparati, sia i nolenti che i volenti, dall’ombrellone Nato. Magari figli di quelli che dagli anni Cinquanta salivano a regalare la vita verso il Belgio e il grande Nord tedesco come Gastarbeiter, lavoratori ospiti, o dei beneficati dal boom, con una immensa voglia di andare oltre lo Strapaese, calamitati dal Grand Bleu della Costa azzurra, dalla Costa del Sol, dalle capitali, dalle sante pietre e gli amati ciottoli all’ombra di cattedrali gotiche. E gli ex studenti nelle università d’Europa già battute a guerra appena finita come un’unica prateria del sapere. E gli immancabili alle prime dei film di Wender e Fassbinder, di Truffaut e Loach. Era un comune sentire germinato fin dagli anni dell’immediato dopoguerra in tempi nuovi di operosa ripresa e respiro libero e riattivati scambi culturali, superato l’orrore assoluto. Ed ecco vent’anni fa la moneta unica. Qualcosa di forte, come se la storia ci avesse dato ragione. Ben prima che l’euro arrivasse, da nativi europei ci eravamo allungati su quell’orizzonte, senza bisogno di qualsiasi patto o embrione istituzionale di cooperazione. Con l’euro diventavamo concretamente, nella pratica del quotidiano, europei di fatto, più cittadini di una comunità ad ampio spettro.
Ci sono eventi, sentimenti, che vivono dentro di noi ben prima di esistere davvero nel mondo. Una Europa in via di coesione. L’euro come sigillo. Idee che avevano “partecipato” ai trattati di pace e parlavano inglese, francese, spagnolo, italiano. Anche se poi, pensando alla Gran Bretagna, quanta riottosità a entrare nel club e mai rinunciando, perdipiù, alla sterlina imperiale e che rammarico per quella porcatina della Brexit spacciata da Farage come la panacea di tutti i mali, tanto per confermare il Virgilio delle Bucoliche: Toto divisos orbe Britannos, i Britanni, divisi dal mondo intero. E divisi anche dall’Europa, ovviamente, ma attenzione, sempre europei. I principi democratici rispettati nell’Unione (con qualche criticità a Est) e al di là della Manica sono gli stessi, sigillati dalla forgia dell’ultima guerra. Si parla di euro, di nuove frontiere, ma senza (anche) la British Army scesa a depurarci tra fuoco e fiamme faremmo altri discorsi. Il tempo è divenire e ci appare per ciò che chiamiamo presente anche in virtù di sedimenti storici non labili, ma “geneticamente” inscritti nel nostro agire di continentali dopo Versailles. Con l’euro si dava un’altra mandata di chiave all’archivio dei plurisecolari conflitti dinastici e di potenza intraeuropei.
La moneta unica ha sancito ulteriormente un vissuto già da decenni e decenni naturalmente comunitario tra vicini di casa, corroborato dagli accordi di Schengen di qualche anno precedenti, con la fine delle frontiere fra i Paesi dell’area omonima. Svanivano, senza troppi rimpianti, quei piccoli brividi ai passaggi di frontiera che ci facevano sentire in un altrove anche se si trattava di Mentone o si puntava il Brennero, certo senza paragone col clima di guerra freddissima che percepiva chiunque viaggiava all’Est prima della Caduta del muro. Era proverbiale il puntiglio, ad esempio, dei militi di frontiera nella Cecoslovacchia di Husák, che sempre era Europa, anzi un cuore d’Europa, ma sotto sequestro da parte di un regime con gli anni contati.
L’Unione, una volta caduto il Muro di Berlino e ridimensionato di fatto il “protettorato” americano, era (è) chiamata dagli eventi a distinguersi, autonomizzarsi, agire sempre più in grande (vedi, per venire all’oggi, i rapporti con la Russia, campo che segnala sostanziali differenze di approccio tra Stati Uniti ed Europa: non esiste più solo la bussola di Washington). Unirsi, quasi un destino segnato, mentre fu solo, agli inizi, sognato, da Konrad Adenauer, Robert Schuman, Jean Monnet, Alcide De Gasperi, Altiero Spinelli. Il Continente, la sua parte unita, vent’anni fa batteva moneta: un atto fondativo per qualsiasi Stato o entità di governo, di cogestione.
Si è marciato in modo sufficientemente spedito nell’edificazione della casa comune? Proprio no, ma senza l’euro saremmo ancora più indietro nella condivisione delle politiche, da quella estera (il tasto più dolente di questi tempi, con russi e cinesi che sciamano lietamente tra Africa e Mediterraneo) a quella di bilancio, che con la pandemia e i piani nazionali di ripresa e resilienza ormai ci corresponsabilizza appieno. Molta propaganda sovranista, tra alcune censure legittime del burocratismo talvolta ottuso di Bruxelles e mille discussioni, dal piano di stabilità all’equilibrio tra unione a autonomia, lettera dei trattati e nuove sfide che esigono condivisione e scelte sollecite, continua a sbagliare bersaglio, come se un concerto europeo puntato dritto a una “federazione” (con robuste virgolette, l’Unione a una voce sola convinta verso l’Unione effettiva è un percorso ancora in larga parte da compiere) fosse di per sé lesivo delle prorogative nazionali.
Di sicuro non lo è per l’Italia. Perché - la Storia canta - il nostro Paese puzzle di ducati e signorie ha vagheggiato a lungo l’Imperatore e patito invasioni. Quindi, per divenire Stato unitario ha avuto bisogno dell’intervento di una dinastia, i Savoia, avulsa per mille motivi da almeno metà del Paese, e del supporto strategico della Francia. La guerra civile nella fase terminale del fascismo è stata un’altra feroce disunione sanata dalla Resistenza vittoriosa in virtù del determinante intervento degli Alleati. E oggi? Siamo una Repubblica capace di sentirsi una e forte - ci riusciamo, nei momenti più duri - proprio perché detentrice di azioni privilegiate dell’Unione Europea: siamo grandi perché europei, lungimiranti nell’aver ceduto pezzi di sovranità per stare in una entità potente. L’Europa ci ha un po’ “rieducati” e unificati, confessiamolo, costretti a ripensarci, a migliorarci, a guardare in faccia i nostri classici vizi e arretratezze, le nostre sclerosi amministrative nel tentativo di scalzarle (almeno in parte, siamo realisti),. A operare responsabilmente in nome del bene comune. Pur tra limiti e difetti l’Europa conviene agli Stati nazionali, lo hanno capito molti degli ex sovranisti duri e puri, ed è tutto dire.
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*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro)
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