Guida turistica al Purgatorio / 9 Gli ultimi padri

di PAOLO BIROLINI*

Finora vi ho illustrato la parte esotica del quartiere, quella che pure noi dovevamo spostarci per visitare. Avete fotografato quello che pure io avrei fotografato. Ma un attimo prima di portarvi nei luoghi che non si possono fotografare, perché i prossimi non potrete fotografarli, voglio parlarvi del posto in cui siete seduti, del biscotto amarena che avete mangiato, del caffè che avete preso.

Il bar De Rosa è il posto dei padri perduti. Per tutta la nostalgia che film e libri e versi portano in questi giorni ai padri, nessuno dei luoghi che il racconto del quotidiano vi porta a visitare è emblematico della perdita del padre, come questo posto piccolo e odoroso di segatura e anice.

Che di segatura ed anice sono fatti i padri, dell'ardore irritante del legno di noce, della grappa arrivata da Bergamo, del torpore invernale.

Si affrontavano ai due angoli della foce di cupa Principe, l'Havana Bill dei senza mestiere, dei contrabbandieri, dei piccoli guappi preindustriali, (e vorrò illustrarvene qualche biografia più avanti), dei giocatori perduti, e il bar De Rosa degli ebanisti, dei carrozzieri, dei primi telefonisti. Che ogni nome di mestiere è una storia di profumi e figli col volto lavato dalla domenica mattina e donne che leggevano Grand Hotel.

Il bar De Rosa si esaltava il sabato pomeriggio prima di cena e la domenica mattina dopo la partita, dopo la messa, prima del rituale del sugo e del pane. Le schedine avevano tagliandi che si incollavano e ricevute e mancate esplosioni. Avevano il sapore del Napoli e preannunciavano la radio della domenica e i segni e le sconfitte ovunque, tra i segni e sui campi. Il silenzio del riepilogo. Erano gli ultimi padri, neanche i nomi sono rimasti, neanche i vestiti del sabato.

Quando ci sono tornato, parte della routine che il padre aveva adottato, unica ed invidiabile, estranea al luogo perché reminescenza di storie cresciute più a nord di quanto si potesse immaginare, fatta di risvegli tardivi a risarcire decenni di albe disgustose, e zuppe di latte e caffè e passeggiate a costeggiare la messa estranea e il popolo sciocco, e approdi al bar e di nuovo caffè e prima sigaretta e ricordi col padrone superstite. (Le fabbriche, le donne, le gite, i pellegrinaggi). Quando ci sono tornato il padre era assente ed io non ero il padre necessario. Nessuno si ricordava di me. Passavano massaie e meccanici tristi, mi conoscevano estraneo e distante e così conoscevo loro.

Avrei voluto raccontare loro dei padri e della loro sparizione. Avrei voluto parlare di quella giovinezza ignota, colorata e selvaggia, di quella sopravvivenza ottenuta a rincorrere camion alleati, a tagliarsi le dita sacrificandole ad un macchinario. Che era un sacrificio sensato, che il macchinario era il mondo ed era il figlio. Ma nessuno si ricordava di me.

Li hanno perduti tutti, i padri, e pure io. Che questo è un quartiere di orfani, di nostalgia tribale. Si sentono le cose, si avverte il pianto, la povertà dell'essere e la messa domenicale. Il dio fuggito un attimo dopo lo schiaffo, dopo il sacrificio,

Ora attraversiamo la strada e tocchiamo l'origine, il carbonaio e la stalla, la loggia e la ringhiera, la mia casa natale.

 (9 - continua)


1) Il prologo
2) Strada o fiume?
3) Praticamente il West
4)Una casa di certo
5)Un tremore, forse
6)Una fabbrica è il fuoco
7) Una lapide e un sasso
8)Entracte


* PAOLO BIROLINI (Napoli, 1959; in lui convivono un fratello furbo e un fratello scemo. Quello scemo fa il Dirigente d'azienda e mantiene quello furbo, che prova a fare il poeta) 


clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram