Camogli, piccola patria di mare e di vento  

di ANDREA ALOI* 

Che la focaccia sia con voi.

Di sera a Camogli cominciate a capire perché chiamano Golfo Paradiso quest’ampia cornice di mare e di monti. È quando, tramontato il sole in infiniti colori marziani d’arancio e scarlatto, si accendono le luci del presepe più grande del mondo. Guardi verso Ponente e la costa snocciola Recco, Sori, Bogliasco, Pieve, Nervi e poi, laggiù a Genova, due lampi. La Lanterna pulsa e si prende pensieri di viaggio, di vento, di navi. O mä, in genovese vuol dire il mare e il male, pane e dolore, brezza e tramontana scura, talvolta pure un libeccio di quelli bastardi e Camogli si trova l’acqua nei magazzini, nei bar. I muri sfregiati della penisola, dove comandano il castello della Dragonara e la Chiesa di Santa Maria Assunta, fanno da promemoria. Una mareggiata brutta e la spiaggia di sassi è ridotta a metà, perché qui è mare di scoglio duro e vero, subito profondo, adatto ai bambini-pesce autoctoni che si tuffano dal molo Giorgio e a quei rari, strani italiani che, se vedono il blu, ci nuotano.


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camogli-4138818_960_720jpg(Camogli      foto Pixabay)

Per quasi tutto l’Ottocento questo piccolo borgo ligure era diventato capitale della marineria, si armavano centinaia e centinaia di velieri mercantili, fiorivano commerci e ci si imbarcava a frotte. Oggi per vivere ci sono l’emigrazione (come prima), il pendolarismo locale e un turismo galoppante, sempre se la suerte lo concede. I camoglini hanno acuta coscienza di ciò che si può perdere e trasformare in rimpianto o addolcirsi in nostalgia. Amano i grandi fuochi di maggio in spiaggia per San Fortunato, patrono di pescatori e naviganti, vivono con stupore eterno la festa della Stella Maris la prima domenica d’agosto, che è - pur tra caterve di visitatori e turisti più o meno stanziali - preghiera laica di popolo, una dedica all’acqua - da cui siamo nati e di cui siamo fatti - di mille e mille lumini galleggianti: vibrano nel piccolo golfo racchiuso tra il Cenobio dei Dogi e la penisola, presto la corrente se li porta ma è tutto così bello e fragile. Amano violentemente le loro radici, la festa li rivuole, residenti e migrati, sui ciottoli, per intiepidirsi al ricordo dei giorni felici passati nel borgo prima di valicare la linea d’ombra.

Nino abitava a Ruta, frazione di collina scontrosa, prediletta da Nietzsche per accendere falò notturni sul monte Esuli. L’ho conosciuto che era già vecchio e di meridiani il placido Nino, marittimo di mestiere, ne aveva attraversati tanti, compresa una tempesta in Sudamerica. Stanco di uragani e di cuccette, si era riconvertito in operaio al Porto di Genova, smontava navi e d’inverno tirava così freddo dalla Val Polcevera, il famoso “vento bagascio”, che dovevano accendere il fuoco per smuovere un’elica, un ingranaggio. Nei giorni di festa Nino annusava basilico e non l'amianto che l'avrebbe ucciso, a Natale adornava con grazia un bel ramo secco e fiero e appena poteva scendeva per le crêuze (sono viottoli di campagna che precipitano dal cielo al mare) fino a Punta Chiappa per pescare. Uno dei tanti uomini verticali che ho conosciuto qui. Ti guardano, ti “pesano”. Se non vuoi sembrare quello che non sei, è fatta, ti accettano.  

camogli-4716355_960_720jpg(Camogli         foto Pixabay)

Camogli è una quintessenza di Liguria: ti ospita - e bene - per necessità, non per vocazione. Gli “altri” più o meno restano sempre foresti. Conta una diffidenza, un tratto di insularità psicologica che li induce a pensarci due volte prima di aprire la porta: è il retaggio di antiche invasioni saracine, dei tanti eserciti di passo, dalle legioni romane in poi, della fatica bestia per rendere casa una linguetta di terra intris0a di rocce, per strapparle frutti e verdure, è la storia dei muri a secco liguri, delle fasce, i terrazzamenti da coltivo creati scavando nei declivi più ingrati. Mi raccontava il concierge di un albergo camoglino: “In confronto a noi, i genovesi hanno le mani bucate”. Un modo per prendersi il primato della parsimonia, che è uno stile, non un limite caratteriale come la banale avarizia, proverbialmente impersonata dal Felice Pastorino di “Pignasecca e pignaverde”, un classico della commedia dialettale genovese dipinto al meglio da Gilberto Govi. Una battuta sola: «In questa casa si mangia troppo, quasi tutti i giorni». La pigna, si sa, tiene stretti i pinoli, non te li regala.

Camogli attira il mondo da “must” universale e si rianima passato il semideserto invernale, si affolla e si svuota, rimanendo un indomito gioiello. Negli ultimi venti-trent'anni il miele ha preso a scorrere e, pandemia permettendo, tornerà a farlo, impetuoso come il rio Gentile dopo un acquazzone. Ma le stigmate di un passato ruvido rimangono e si fanno raccontare da un luogo insospettabile, il Monte di Portofino, quinta levantina al paese, il bosco di querce e lecci proteso nel Mediterraneo a contaminarsi di erica, corbezzolo, ulivi, pini marittimi. È storia vicina, basta tornare agli anni tra Otto e Novecento e su su fino ai Cinquanta. Non era epoca da trekking tra i sentieri, di nordic walking con i bastoncini. Ci si difendeva da un mondo grande, terribile e ingiusto chinando la testa e rispettando il piccolo mondo che toccava in sorte. Incatenati, quei contadini poveri, alla santa zolla e alla loro comunità. Da Camogli, se imboccate la strada che costeggia inizialmente il rio Gentile, passo passo salite a San Rocco. Prendete fiato, l’ultimo tratto è impegnativo, l’hanno soprannominato l’ “Agonia”. La piazzetta della Chiesa, la frazione di Mortola, le case di Galletti. Ora è un parco protetto, abitato - a parte San Rocco - da pochi, è diventato dimora eletta per volpi, tassi, faine, ricci, gli onnipresenti cinghiali. Ai tempi ci vivevano Manenìn, Marinìn, Nìn, Fràn. Lasciamoli parlare.

camogli-4808850_960_720jpg(Camogli     foto Pixabay)

“Dei nostri vecchi quando erano bambini pochi avevano le scarpe, i fortunati mica se le mettevano per scendere alla scuola a Camogli, andavano giù scalzi e le tenevano in mano per non rovinarle e ci infilavano i piedi solo per entrare a scuola. Si usavano tanto gli zoccoli di legno, c’erano quelli e li facevano bastare. Qualcuno dei bambini alle cinque era sveglio e faceva i fascetti con le ramaglie, le portavano ai forni di Camogli e in cambio gli davano il pane. Su a Galletti si curava bene il grano, si tenevano puliti i boschi, le foglie di castagno si usavano per fare i letti alle mucche d’inverno perché assorbono bene l’umidità. C’erano due frantoi per le olive alla Mortola e uno a San Rocco, la macina era grande, veniva fatta girare da un uomo che tirava con la cinghia di cuoio sul petto e una stanga di legno, dietro altri spingevano. Se non eri proprietario del fondo di tre litri te ne tenevi uno e due andavano al padrone. Nella stagione della spremitura le mamme e le nonne con la polpa delle olive e la farina cuocevano delle focaccette. Ci conoscevamo tutti, mancava qualcosa a uno e un altro gliela dava e avanti così, ma era dura, i vecchi raccontavano che i loro nonni scendevano da San Rocco a Camogli al massimo una o due volte l’anno. Sul monte un modo per guadagnare qualcosa era la fabbricazione del carbone di legna. Facevano anche il sale: serviva una lastra di zinco o una tettoia da baracche ben spianata, gli facevano dei bordi e riempivano d’acqua di mare, poi si accendeva sotto il fuoco, se il mare era stato mosso il sale veniva un po’ scuro e ti pagavano meno. I pescatori di mestiere a primavera andavano nel Tirreno per le acciughe, che sono il pane del mare. Un po’ tutti pescavano sotto il monte, di notte. Saraghi, occhiate, leccie e pesci piccoli, come le boghe. Quelle se le mangiavano, i pesci belli li vendevano alla pescheria di Praìn a Camogli”.

san-fruttoso-4196357_960_720jpg(San Fruttuoso         foto Pixabay)

Giusto sotto il monte, poco prima di punta Chiappa, la tonnarella in uso alla Cooperativa Pescatori non ha perso l’aura romantica delle perle rare, ci tirano su tonni, palamite (il 2 giugno scorso levata ottima: ne son finiti in rete 8 quintali), bonitti e se capita una ricciola mica la buttano via. Le storie vere di mare, però, si raccontano a bassa voce. Sono passati otto anni, era notte piena, d’agosto e un amico era seduto in pace con Dio sul suo gozzo, sotto uno sciame di stelle, a catturare totanasse. Davanti (non dentro) a Cala dell’Oro, che è diventata una riserva marina integrale, un Santo Graal inavvicinabile del pescatore. Lui non se l’aspettava ma come in “Amarcord” stava per incontrare il suo nero e immenso Rex. “Thud”, un urto a dritta e come uno struscio al gozzo che prende a ballare. Una gobba scura oblunga lucida passa e va: era la carezza di una balena. Belìn che péscio. E che spavento.    

Post scriptum  Una volta nella vita, per favore, salite in battello direzione monte e arrivate dal mare all’abbazia di san Fruttuoso. Pareti verdi che scorrono, sotto un’acqua blunera e - superata Punta Torretta - l’incanto dell’apparizione: pietre di civiltà incastonate nella pura Natura. Lì, in una baia appena discosta, ho visto un sub tornare a riva sopraffatto e stordito. Coralli, pesci luna, una cernia che spuntava dalla tana. Troppa grazia, una fluttuante sindrome di Stendhal.

 Grazie a Roberto e Mario Tedesco e a Roberto Massone che sanno riconoscere capinera, fringuello, ghiandaia e i versi che fanno, e la differenza tra luì piccolo e luì verde e come volano. Sono stati bambini su questi monti e quando rievocano mi vengono in mente le avventure di Tom Sawyer.

Grazie a Andrea Brignole per la memoria coltivata.


*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 


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