Vuk di Pristina

 di FLAVIO FUSI*

Conoscete Pristina, il capoluogo-capitale del Kossovo? Dopo venti anni mi dicono che è molto cambiata, irriconoscibile: super-moderna e insieme super-misera, come succede per tutti gli Stati falliti. Ma in quei mesi del 1999 – un secolo fa – era un borgo miserabile, polveroso d’estate e gelido d’inverno, una retrovia di guerra cenciosa e piena di angoscia.  In quel gennaio i corvi ci accompagnavano (kos corvo, Kossovo terra dei corvi) in volo tra alberi stecchiti e mucchi di neve sporca. Stavamo allora – dico: noi giornalisti – nell’unico albergo della città, con le stanze fredde e le luci fioche. Puro sovietismo balcanico: scale buie, la colazione nel ristorante a piano terra che sembrava una spelonca, dalla cucina odore di brodo e rumor di stoviglie. Nell’incrocio davanti all’albergo transitavano in corsa i fuoristrada inzaccherati della milizia serba. Di notte passavano sgommando nelle pozze gelate anche auto misteriose che si perdevano verso i quartieri della collina, appena illuminati da luci di presepio.

Nei villaggi albanesi ci andavi a tuo rischio e pericolo. I combattenti dell’Uck potevano essere nascosti nelle cantine e da un momento all’altro i serbi potevano decidere di fare tiro al bersaglio sulle case e le moschee di campagna. Giornalista? il sergente di Milosevic ti sputava sui piedi. Giornalista? donne e bambini albanesi ti strattonavano tra pianti e maledizioni. E tutti – tutti - si ingegnavano a dire bugie: senza ritegno, senza vergogna. Diventavi matto, a forza di ascoltare bugie, ti arrovellavi nello sforzo di decifrare una notizia, una testimonianza, se non autentica almeno degna di fede.

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(Pristina)

Era gennaio, e poi venne febbraio. Cominciarono le piogge e le gelate, nei fossi ti portavano a vedere cadaveri: ma uccisi lì, o ammucchiati dopo uno scontro a fuoco, a simulare una esecuzione di massa? La menzogna era sempre in agguato, le donne piangevano, i militari serbi mostravano facce di pietra e maniere sbrigative. L’auto dei giornalisti ballava sui campi incolti, arati dai cingoli dei blindati: solo i morti dicevano la verità.

La sera – compiuta la corvée quotidiana, montato il pezzo, trasmesso, telefonato e bestemmiato in redazione – bisognava pur mangiare. Un po’ fuori città, arrampicata sulla collina, qualcuno aveva scoperto un’osteria decente. Si cenava con una birra e un piatto di ciorba: una zuppa calda di carne e verdura, e intorno al tavolo di legno si poteva parlare, raccontare e a volte scherzare, mentre dai quartieri sotto di noi si sgranava  qualche raffica di mitra o il lampo di un tracciante attraversava il cielo senza stelle.

Il padrone del ristorante era un serbo corpulento e affabile. Un serbo vero, che gli albanesi li avrebbe messi tutti al muro. Sotto il bancone teneva una pistolaccia che ogni tanto mostrava – facendo finta di niente – a noi pavidi giornalisti. Non ricordo il suo nome, nè il nome dell’osteria,ma ricordo bene l’attrazione del luogo: un vecchio lupo spelacchiato e ghignante che se ne stava chiuso in una gabbia di legno sotto la tettoia.

Vuk si chiamava la povera bestia, che in serbo-croato significa appunto lupo, e con questo nome noi clienti fedeli avevamo battezzato l’osteria, il nostro rifugio serale quando la situazione in città era abbastanza calma da permetterci il lusso di una gita fuori porta: “Stasera si va da Vuk.” Così è la memoria: dopo più di venti anni quelle soste, quelle serate, quelle cucchiaiate di ciorba le ricordo ancora una per una. E ricordo le battute, le discussioni, i commensali – alcuni dei quali non ci sono più – e il ringhio sommesso e famigliare che arrivava dalla gabbia di Vuk. Così erano quelle serate, e così trascorse quell’inverno, l’ultimo inverno della guerra del Kossovo.

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(Un monastero nel Kossovo)

Ad aprile Pristina ci accolse con i pochi alberi in fiore lungo le vie disselciate della città. I serbi sempre più nervosi, gli albanesi sempre più audaci. Il concerto rauco dei corvi ci accompagnava, come sempre. Dunque: andiamo da Vuk, stasera? Ma non lo sai che Vuk non c’è più? E’ vero, il nostro rifugio non c’era più. Una notte il serbo aveva caricato il suo fuoristrada e abbandonato baracca e burattini senza dire niente a nessuno.   E anche il nostro lupo era sparito. Restava - mi dissero - la gabbia spalancata sotto la tettoia. Era tornata nei suoi boschi, la povera bestia? Quando ricordo i miei mesi in Kossovo, mi piace pensare a questo piccolo lieto fine. Si vive a volte di segni, di impressioni: per me la fine della guerra in Kossovo fu annunciata dalla liberazione e dalla fuga del lupo. Di lì a pochi mesi i bombardamenti della Nato avrebbero piegato la resistenza di Milosevic. I serbi avevano perso la guerra, e Vuk lo sapeva.


*FLAVIO FUSI (Ha imparato il mestiere alla vecchia scuola de L’Unità e per la Rai ha consumato le suole dietro ogni crisi internazionale del Secolo breve e oltre. Non ha mai vinto premi giornalistici e non ha mai ricevuto aumenti ad personam. Ha scritto “Cronache infedeli” - Edizioni Voland - e “Campi di fragole per sempre” - Edizioni Effigi -. Medita e scrive in Maremma)


 

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