Viaggio parallelo d'un dito e un capitone / 2
di ARTURO CIOFFI*
Ai primi commenti sul
sesto dito, nella pre-adolescenza, presi coscienza della mia diversità. Al
fiume, tra i sassi bianchi e panciuti, dopo il rituale confronto tra speranzosi
cazzetti, c’era sempre qualcuno che sentenziava che quella strana appendice ce
l’avevo perché mio padre aveva dato a mia madre “una botta in più”, e io
pensavo a qualcosa di artistico, di geniale, alla martellata di Michelangelo.
Poco alla volta, associai quel Segno al sesso e ai suoi imperscrutabili
misteri. Misteri che ancor oggi mi trascino, assieme all’inseparabile ditino.
Il capitone lo sistemai in veranda, ancora racchiuso nella triplice custodia, alla quale avevo praticato delle prudenti prese d’aria. Me lo riportò, con un cenno di complicità, il militare del terrazzino accanto, dove l’anfibia creatura era arrivata, a forza di distensioni e contrazioni, utilizzando il varco tra il pavimento e la tramezza che separava le due proprietà. Considerata la provenienza dei vicini, forse la bestia desiderava morire di cucina salentina.
Finì in una bacinella di plastica che per prudenza adagiai nella vasca da bagno, sotto un filo d’acqua corrente. Così la Consorte avrebbe potuto agevolmente toglierlo, se avesse desiderato un bagno alle alghe di Bretagna e melma del Mar Morto. Una situazione che il capitone stesso avrebbe gradito, ma non considerava l’innata avversione delle donne, Madonna in testa, per gli esseri striscianti.
Ma torniamo alla mia sensibile appendice. Col mio trasferimento nel Grande Nord perse tutta la sua selvatica innocenza. Cosa avrebbero detto, alla sua vista, i miei coetanei del Nord-est, che già da vestito mi consideravano un diverso? Pochi anni dopo, quando i miei ormoni iniziarono a prendere a spallate le porte della percezione, assunsi la decisione che avrebbe condizionato tutta la mia vita: mi sarei concesso solo grandi amori, sublimi, segnati da affinità spirituali altissime, tali da ridurre a trascurabile particolare quel mio nervo scoperto. Ma una cosa è dirlo e un’altra presentarsi in tenuta adamitica e con una foglia di fico psicologica provvidenzialmente posatasi sul mio piede esadattilo. Ignoravo che molti santi e mitici giganti, misteriosamente, con sei dita erano ritratti.
Col passar degli anni, presi in considerazione anche l’esatto opposto: amori frettolosi consumati in Volkswagen con l’occhio in allarme per il serial killer, amori ancillari in posizione eretta tra una porta e un armadio, amori lampo con le braghe a mezz’asta nell’ascensore fermo tra due piani, amori manageriali con la complicità di una scrivania di mogano. Amori normali, di quelli che fanno numero e statistica, tracce...
Di notte, il capitone scivolò dalla bacinella di plastica e con un rumore sordo si mise a fare il giro della morte nella vasca. Mia moglie non l’aveva ancora notato e, riavutasi dallo spavento mi disse fermamente: “Accoppalo!”. Rinviai l’esecuzione all’indomani, vigilia di Natale.
Un pestello di legno, acquistato da un vecchio artigiano nei pressi della Grotta di San Michele Arcangelo (provincia di Padre Pio) fu l’arma prescelta. Miravo alla testa, come Maria Vergine col calcagno, ma la bestia sfuggiva, viscida persino in punto di morte. Ecco, viscida. Le versai addosso un pacco da un chilo di farina gialla da polenta, indossai dei guanti di lattice e la trasferii in cucina, lasciandomi dietro una immonda scia gialla di bava e farina.
Le troncai la testa con un colpo di mannaia e appesi il resto ad un gancio. L’acefala creatura continuò ad agitarsi, sfuggendo alla presa, ed inducendomi a seria riflessione su tante cose che nella vita avevo fatto senza il concorso della testa e del cervello. Poi, tolta la pelle, su un tagliere la ridussi a tronchetti: pronta per esser marinata, però da defunta. La misi in un coccio ed iniziai con gli unguenti funebri. Olio, aglio, foglie d’alloro e altri sapori.
L’ultima l’avevo mangiata a Comacchio, il 25 aprile di quell’anno. E ci avevo ben bevuto sopra un rosso fresco e leggermente asprigno, di quelli che sgrassano la bocca. Uscito dal ristorante per fare quattro passi incontrai la banda cittadina in alta uniforme che suonava “Fischia il vento”. Discretamente commosso mi infilai nella Sala Civica dove c’era una mostra sulla civiltà dei pescatori di anguille delle Valli di Comacchio, o Cmacc, come dicono loro. In una sala, a ciclo continuo, proiettavano il sesto episodio di “Paisà”, di Roberto Rossellini, che lì era stato ambientato e girato. Alle pareti le foto di scena. Pescatori di anguille, poverissimi, che aiutavano partigiani ed alleati discesi dietro le linee col paracadute. E davano loro da mangiare i bisatti, le anguille, privandosi del magro guadagno. Alla scena in cui un cadavere scendeva sulla lenta corrente, verso il mare, sorretto da una camera d’aria, con appeso al collo il cartello “Partigiano” scoppiai a piangere, e i miei singhiozzi produssero echi nelle sale semideserte, talché la gentile custode mi chiese se desideravo un bicchier d’acqua. Mi trattenni a fatica dal dire: “Con un’ Alka Seltzer, grazie!”. Da allora ogni volta che rivedo quello spezzone di “Paisà” ho la stessa reazione. E sempre, affrontando un capitone, mi ricordo di Comacchio e del film e piango. Sono fatto così.
Quando cosparsi di pepe e sale i tronchetti, questi ripresero ad agitarsi all’unisono. Mai morti: era la loro personale Resistenza, e ne ebbi rispetto. Coprii il recipiente con un panno immacolato. Poi, prudentemente, vi sovrapposi una pesante pietra lavica da cucina, la stessa precauzione degli Apostoli con Gesù.
Il giorno dopo, mentre mi portavano dai suoceri, stringevo a me il coccio come se fosse stato un’urna cineraria. Ripetutamente, arrivato a destinazione, tentai di arrostire il capitone con un grill elettrico e puntualmente saltava la corrente. E ogni volta che la stanza piombava nel buio mi diffondevo in ulteriori riflessioni sul motivo per cui la bestia rifiutava di farsi fare. In conclusione, spazientito, sgocciolai i resti, li infarinai e li passai in olio bollente. Ottimi, non c’era che dire. Alla fine del pranzo, dopo il caffè e ripetuti resentìn, cioè la pulitura della tazza con grappa bianca di origine illegale, buttai un occhio nel coccio, nel quale era rimasto il liquido della marinata. Celata tra le foglie di alloro, gli spicchi d’aglio e l’olio reso torbido dal pepe c’era lei, la Coda, scampata alla frittura. L’ultima sopravvissuta! Riconobbi in lei ancora una volta il Segno del Diavolo, il mio sesto dito. Non potevano capire, i suoceri - che già si erano cibati con sospetto di quello che definivano un serpente - il perché della mia richiesta di una zappa. Già mi avevano interrogato sulla natura vegetale o animale delle vongole che accompagnavano gli spaghetti. Andai in giardino e scavai una profonda buca. Seppellii l’Indomabile e vi posi a guardia un vaso di gerani morti dal freddo onde evitare che potessero raspare nel terreno i gatti, questi stupidi, sacrileghi sciacalli domestici che già sopraggiungevano, e che scalciai con allegra, inaudita ferocia.
Da allora, il mio piede destro prima accentuò la sua callosità tendente al cheratinoso, poi le dita presero a saldarsi fra di loro ed infine toccò al calcagno inspessirsi, ricoprirsi di peli neri e trasformarsi infine in zoccolo caprino. Così era scritto. La Consorte prese a chiedermi cosa facessi mai per sfondare i calzini sempre sullo stesso punto. Fui evasivo, ma da allora, in luogo riservato, di pedalini ne ho una scorta industriale: neri, tutti uguali, uno vale uno.
(2 - Fine) Leggi la prima parte
* ARTURO CIOFFI
(Longevo
Consulente Finanziario, nasce nel 1944 sul fronte della Quinta Armata nel
Sannio ma mezzo napoletano e poi mezzo veronese nell'era ginnasiale. Mancato
professore in lingue morte, approda
nella finanza laica della Banca Commerciale. Completa il profilo diventando
pure mezzo slavo, attratto dagli eccessi terribili e meravigliosi di quella
cultura. Tra nuvole e numeri, scrive per rinfrescare l'ortografia)
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