Vacanze napoletane

di TINA PANE* 

Tutta la retorica di settembre – la ripresa, i buoni propositi, la celebrazione del capodanno di fatto che scandisce il restart delle nostre vite - nell’Anno Uno della pandemia risulta un po’ appannata. Fare programmi è complicato, domina l’incertezza. L’anno scorso, per dire, dopo pochi giorni dal rientro dalle vacanze volai a Bruxelles a trovare un’amica e quest’anno al massimo penso di andare a Pozzuoli, ad Agerola o a Caserta, sempre con la motivazione-scusa di incontrare persone. Ma un orizzonte vuoto di programmi non è più un orizzonte, è solo sofferenza. Così, visto che vivo a Napoli che è una città molteplice, ho deciso di esplorarla con occhi curiosi e non solo feriti. Magari, mi sono detta, è l’occasione per farci pace, o almeno stipulare un armistizio.

E siccome già mi manca il mare, ho iniziato con il Lungomare. L’ho percorso a piedi e di prima mattina, in tutta la sua estensione da ovest a est. Una passeggiata di poco più di tre chilometri che inizia sotto l’egida di Ottaviano Augusto

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che in posa imperiale domina da una piccola terrazza su cui finisce via Cesario Console, la bella strada che unisce piazza del Plebiscito con via Nazario Sauro, cui è dedicato il primo tratto del lungomare. Con il braccio sollevato e lo sguardo all’orizzonte l’imperatore pare dirmi “Vide ‘o mare quanto è bello!” - e anche  “non guardare alle mie spalle le aiuole piene di immondizia”.

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 Infatti guardo il Vesuvio, che appare vicino e brillante, e tiro avanti.

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A quest’ora gli unici esseri umani sono i runner e i ciclisti, oltre a un paio di pattuglie di polizia municipale ancora in stand-by. La luce bassa del sole rende il mare veramente azzurro e mi suscita un’immediata invidia per quelli che in queste acque si sono sempre fiduciosamente bagnati e che anche oggi stanno conquistando, sul presto, i meglio posti sulla scogliera

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o alla Rotonda di via Nazario Sauro, dove è già aperto il chioschetto dei taralle cavere

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e da dove partono giri in barca da mezz’ora al modico prezzo di 5 euro a persona. Qui ci venivo da bambina con mio padre e mio nonno, che fittavano la barchetta e facevano le cozze, e ce le davano da mangiare crude, a me e a un mio cugino, ma era un segreto da non raccontare a mamma.

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Ancora pochi passi e sono a Castel dell’Ovo, la culla della città.

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Qui, sull’isolotto di Megaride dove la leggenda narra che Virgilio avrebbe nascosto l’ovo da tenere al sicuro, resistono ristoranti che furono famosi (‘A Bersagliera, Zi’ Teresa, il Transatlantico) e più recentemente sono comparsi baretti e localini che di sera si riempiono di movida e di turisti. L’accesso al Castello è sempre gratuito, e bella la vista della costa dalle sue terrazze, ma in questo periodo bisogna prenotare.

Nel frattempo la strada si è animata di instancabili sportivi

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e in fondo già compare l’avvisaglia della collina del Vomero, massacrata dal cemento. Alla mia destra scorrono regolari le facciate dei grandi alberghi,

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l’Excelsior, il Vesuvio, il Continental, quelli dove scendono le star e i calciatori. Siamo in via Partenope ora, e proprio sopra di noi c’è il Monte Echia, meglio noto come Pizzofalcone, soprattutto dopo la fortunata serie di libri e tv dedicata agli omonimi Bastardi.

Ma io continuo a volgere lo sguardo verso il mare, osservo il quieto dondolio delle barchette,

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 le pinne di un sub e di nuovo la collina che splende di edifici fino a Capo Posillipo. Mi avvicino a Piazza Vittoria, quella che introduce a Piazza dei Martiri e a Chiaia, la Napoli-bene per antonomasia.

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Però dal lato mare il popolino non molla, e si prende quello che è suo, il sole.

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Continuo, da qui il Lungomare si chiama via Francesco Caracciolo, non è libberato dalle auto, e quel silenzio che mi aveva accompagnato finora non c’è più. A destra scorrono i cancelli e gli alberi che proteggono la Villa Comunale,

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sormontati dalle possenti mura di Castel Sant’Elmo (il posto più magico di Napoli)

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e la bella facciata dell’Acquario,

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ma io punto a Mappatella Beach – così anche su Google Maps - la spiaggetta più figa del mondo, l’unica dalla quale ti fai il bagno avendo di fronte il Vesuvio e Castel dell’Ovo.

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Siamo alla Rotonda Diaz ormai, grande e desolata sotto questo sole

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 come quest’uomo curvo, con le spaselle ancora vuote di pesce. 

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Da qui al porticciolo di Mergellina è forse il tratto meno bello, c’è il Circolo del Tennis, l’inaccessibile Consolato americano

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e una sequenza di severi palazzi di inizio secolo i cui appartamenti, quando compaiono nelle pagine web delle agenzie immobiliari, sono sempre a trattativa riservata.

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Ma Mergellina è ancora un altro mondo, dove compaiono i turisti che scendono dagli aliscafi e che forse compreranno le conchiglie giganti, 

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gli ormeggi affollati di barche e gommoni, i posti dove comprare il pesce del golfo, gli chalet più trash e pretenziosi della città, che la sera si affollano soprattutto del passeggio chiassoso che viene in auto dalla provincia o con gli scooter dai Quartieri Spagnoli, determinando ingorghi senza fine.

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Però per fortuna sono solo le 10 del mattino, allo Chalet da Ciro ci sono pochi ciclisti in pausa e il caffè al banco è buono e veloce. Il fermo immagine di questa passeggiata, mentre aspetto l’autobus – sono stanca - è su quest’uomo con la mascherina sulle 23, mi fa pensare a un gagà, un nullafacente. 

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Ma alle sue spalle si intravede un improvvisato antiquario-rigattiere chino a completare l’allestimento dell’esposizione. La giornata potrà cominciare alla prima vendita, quando con i soldi in mano si farà il segno della croce. Un buon augurio per la ripresa. 


* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)

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