UNA FINESTRA SULLA NATURA - 8) Melissa e la danza della vita

di LUIGI EPOMICENO*

Sono tante le storie che ricordi per i più svariati motivi. Ognuno di noi ne ha. Qualcuna ci riempie di gioia; altre ci fanno sprofondare nel buio.

Il viaggio che mia moglie ed io decidemmo di fare nel lontano 1996 più che impresso è stato inciso nella mia, di memoria.

Il primo viaggio in Grecia.

Il primo viaggio in moto.

Erano gli anni della pellicola di Gabriele Salvatores. Quella che ha portato più italiani in Grecia delle campagne militari del ventennio.

Peccato che per arrivare in moto all’isola in questione non sarebbero bastati sei giorni di viaggio. Troppi per chi ha i giorni di ferie contati.

Erano gli anni in cui le agenzie turistiche avevano un senso. Quando ci entravi, ne uscivi con decine di depliant e brochure colme di pacchetti viaggio di ogni tipo.

C’erano persino uffici dedicati per “Informazioni Turistiche.”

Per mia pigrizia, o forse per una mia inconscia volontà, ancora conservo la documentazione che raccolsi per quel viaggio, insieme alle centinaia di foto e al diario che da quell’anno decisi di tenere dei miei (e nostri) viaggi. Un Chatwin de’ Noantri.

Le meravigliose foto delle isole del Dodecaneso ci stordirono. Acque trasparenti, spiagge libere e deserte unite all’avventura della scoperta in moto crearono in noi aspettative di una vacanza idilliaca. Dopo anni di intenso lavoro che ci hanno spremuti come panni nella centrifuga, ci siamo convinti dell’impresa e sul nostro “Mulo” (così abbiamo battezzato la moto 750 cc acquistata appositamente) partimmo a fine luglio.

Il viaggio, dal casello di partenza dell’autostrada da Roma fino a Bari, del tragitto Bari-Brindisi, della tratta Igoumenitsa-Patrasso ed infine la traversata dell’Egeo dal porto del Pireo fino all’isola di Patmos e ritorno, merita un articolo tutto suo.

Della minuscola isola lessi quasi tutto fosse disponibile. Dalle guide De Agostini alle riviste in edicola; dalle pubblicazioni dell’Ente Nazionale Turistico Greco alle brochure del Club Med. 

E’ impossibile non fare amicizia con i greci. Durante la nostra traversata conoscemmo un vecchietto forse di una ottantina d’anni, di Rodi. Il tipico greco della nostra immaginazione, barba e berretto da marinaio compresi. Con la solita “una faccia una razza” iniziammo a parlare di tutto: dall’ultima Guerra alla cucina, passando per l’alfabeto e l’introduzione alle buone maniere elleniche. “Kalimera” “Kalispera” “Kalinikta” e così via.

I greci hanno la manìa di volerti spiegare l’etimologia delle parole delle altre lingue. Un riconoscimento che anche noi italiani vantiamo con il latino.

“Mia figlia si chiama Melissa e sapete da dove viene il nome Melissa?” ci domandò.

Mia moglie, la più socievole della nostra coppia, prontamente rispose con espressione di curiosità. Io d’altro canto iniziai le mie peripezie inquisitorie cercando di ricordare la festività di Santa Melissa nel nostro calendario di Frate Indovino. Non che io fossi un esperto di santi o di calendari, ma partii inconsapevolmente per questo sentiero, che risultò comunque senza esito.

“Viene dalla parola mèli che vuol dire miele, e la Grecia è famosa per il suo miele!”

Non poteva che essere così, pensai.

Ognuno è convinto della bellezza del proprio scarafone, ma cercai di ricordare dove avessi letto della bontà del miele greco rispetto ad altri. Mi vennero in mente il miele di castagno, di eucalipto, quello calabrese, toscano e sardo. Non trovai traccia nella mia memoria del perché il miele greco abbia nutrito Zeus meglio di quanto il miele romano abbia nutrito Giove.

Se non in Grecia.

Così come non vi è traccia di un nome nostrano che includa la parola miele, se non Melissa, che comunque è di importazione.

Il corso accelerato di cultura greca terminò con l’entrata nel porto di Patmos. Il nostro tutor ci salutò con un cordiale abbraccio, e finalmente toccammo terra.

Nei giri avventurosi compiuti sull’isola, potendoci inoltrare per sentieri sperduti, notai una (sana) abitudine di disporre arnie un po' dappertutto. File di scatole di legno, di vario colore, disposte anche a terrazza, segno evidente di una tradizione antica. Molto antica.


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(Arnie in Grecia)

Dovevo sapere qualcosa di più.

L’isola di Patmos è nota, più che per il suo miele, per l’Apocalisse. Quella di San Giovanni.

Visitammo la caverna dove l’evangelista la compose. Cercai invano il punto che immaginavo potesse essere il preferito dal Santo per la composizione. Finché non mi posizionai a un’estremità della bocca di apertura della caverna e sentii il ronzìo di insetti in volo.

Senza esitazione né agitazione mi distanziai dalla parete e, guardando in su, notai una lunga fila di scatole di legno colorate.

Una ventina di arnie disposte ordinatamente, con le aperture in asse Est-Ovest.

Partii subito con le mie elucubrazioni.

Il misticismo assente nella caverna riaffiorò. Pensai alla magnifica Cattedrale di Trani, sapientemente disposta anch’essa sull’asse del sole Est-Ovest, in modo che le preghiere mattutine di buon auspicio dei fedeli siano illuminate dalla luce pura dell’alba, mentre le richieste di perdono della sera sono permeate dalla luce impura, entrante dal rosone centrale della facciata d’ingresso.

Mi domandai se le arnie fossero state disposte seguendo lo stesso ordine, non casuale.

Oggi sorrido quando ci si lamenta della mancanza di collegamento ad internet, quando a Patmos, nel 1996, internet non c’era nemmeno! 

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(La grotta sacra dell'Apocalisse)

E così l’unico modo per sapere qualcosa di più delle api, del miele e di Melissa era di consultare  dei testi oppure parlare con qualche vecchio saggio. Di testi in greco non sapevo che farmene. Molto più divertente sarebbe stato colloquiare con un divulgatore omerico, magari sorseggiando dell’Ouzo.

Iannis (non poteva che chiamarsi così) aveva all’incirca un centinaio di arnie sparse sui suoi terreni aridi. Almeno così disse. Di sicuro sapeva di api, al punto da dare alla loro esistenza una dimensione mistica.

Ecco l’uomo che cerco! E pensai anche che il mio viaggio a Patmos era parte di un disegno più nobile.

Iannis poteva avere all’incirca una settantina d’anni, quindi nato negli anni venti del ‘900. Anche lui parlava un italiano elementare, insegnatogli dai nostri militari che giravano per il Dodecaneso in quel tempo.

Nei suoi racconti faceva spesso riferimento ai numeri 3, 6 e 12, e nel farlo risvegliò in me l’interesse che anni prima, durante il liceo, avevo per la Kabbalah, per l’esoterismo e per Dante Alighieri.

Iniziavo a credere sempre più alla natura teosofica del mio viaggio.

Quello che ora vi racconto potrebbe essere una mia fantasia coltivata nella tradizione epica greca, oppure una verità nascosta.

Scegliete voi.


Partiamo dal sigillo di Salomone, ovvero quella figura conosciuta come stella a 6 punte, tipica della cultura ebraica, tanto che è al centro della bandiera d’Israele. La Stella di David.

E’ composta da due triangoli equilateri sovrapposti (cioè con 3 lati uguali), uno con il vertice in su e uno all’ingiù, formando così 6 piccoli triangoli, altrettanto equilateri.

Nel simbolismo, il numero 6 e il Sigillo di Salomone rappresentano la mediazione. Nei testi cristiani del secolo il triangolo rivolto verso l’alto è la natura divina di Cristo; quello verso il basso, la sua natura umana. Questa ambivalenza è il segno della grande prova dell’Uomo; il conflitto tra positivo e negativo, il bene e il male. Il numero 6 quindi rappresenta il macrocosmo.

Si possono aggiungere tanti altri significati al numero 6: le 6 direzioni (i punti cardinali a cui aggiungere lo Zenit e il Nadir); i 6 giorni della creazione; nella teologia Indù sono le 6 interpretazioni dei Veda.

Sono anche 6 i lati delle celle dell’alveare, che a sua volta, per cosa vi accade, andrebbe visto come un microcosmo.

Iannis mi spiegava che le api esistono in quanto gruppo. I 3 attori dell’esistenza delle api, la regina, l’operaia e il fuco, non sarebbero in grado di sopravvivere individualmente. Hanno motivo di esistere solo se sono in 3. Il numero mistico del cristianesimo!

Così come sono 3 le sostanze che grazie alle api saldano il mondo vegetale a quello animale:

·         Il nettare che raccolgono dai fiori e che poi trasformano nella sostanza per loro vitale: il miele;

·         Il polline, essenza della vita sulla Terra, e ricco di proteine;

·         Il propoli, una sostanza resinosa e grassa che, impedendo attacchi esogeni, malattie o estranei, svolge la funzione di conservazione.

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(Impollinazione)

Ai primi raggi di sole dell’alba, provenienti ovviamente da Est, le api partono come frecce verso la luce pura del Sole, verso l’esterno del loro microcosmo, per incontrare la pianta e raccogliere quei 3 doni che la Natura offre: nettare, polline, e resina (strana la coincidenza con altri 3 doni: oro, incenso e mirra!)

Al loro ritorno con le ore di luce impura, con il sole a Ovest e nel buio del microcosmo dell’alveare, avviene la più magnifica delle trasformazioni, alla base dell’intera esistenza della Vita sul pianeta!

Nello scambio dei rispettivi ruoli, regina, operaia e fuco interagiscono per la loro sopravvivenza, ed è proprio questo risultato che consente alle api di saltare di fiore in fiore e garantire così la riproduzione di quasi tutte le piante esistenti, ovvero la vita di quasi tutto il regno animale del pianeta.

Davvero una trinità misteriosa.

Altrettanto misterioso è il perché di tutto ciò.

La vita breve del fuco che dopo l’accoppiamento, si lascia morire. L’accoppiamento stesso che avviene a chilometri di distanza dal favo per garantire una varietà genetica, e a mezz’aria.

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(Api operaie)

L’operosità delle operaie e il potere di vita o di morte che a loro è demandato.

Infine la protagonista della specie, la regina. Una vita trascorsa al buio dell’alveare salvo poi compiere un volo nuziale per accoppiarsi alla luce del Sole; e che con la sua vitalità riproduttiva è garante della continuità esistenziale di anno in anno dell’intera comunità, esattamente come la continuità della forma geometrica della sua cella: non esaedrica ma circolare.

Per questi misteri (o dogmi?) questo piccolo insetto non può che essere elevato al rango di divinità.

Pensai che un essere dal peso di pochi milligrammi, capace di una magica trasformazione della materia, avvolto dal mistero esoterico del simbolismo, la cui vita è regolata da norme comportamentali uniche, che vive in un microcosmo proprio ma strumentale per l’esistenza stessa del macrocosmo della Natura che lo circonda, non poteva essere il frutto dell’Evoluzione.

Il rapporto dell’ape con la Vita e la Morte la posiziona d’autorità al centro del Creato, come la bolla della livella. 

Voglio credere che la scoperta di questa meraviglia avvenuta a Patmos, l’isola dove (a quanto pare) nell’anno 96 d.c. l’Apostolo Giovanni scrisse la sua visione; nel Dodecaneso (dodici isole, dodici ore e mesi o anche dodici apostoli, dodici come 3+3+3+3); nel 1996 (ancora 3 con i suoi multipli); quando io avevo 39 anni ( sempre 3 e un suo multiplo) non sia stata una strana coincidenza.

O forse si.

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L’ape è la regina degli impollinatori, ovvero quegli insetti o altri animali distributori di polline da pianta a pianta e che rappresentano la scintilla, l’innesco della riproduzione vegetale.

La moltitudine di fiori di varia forma, colore e profumo che le api incrociano nei loro voli frenetici vengono captati dai loro occhi sfaccettati in modo scomposto, come tanti tasselli di un mosaico, che poi vengono elaborati e ricomposti dal cervello.

Queste vere riprese aeree vengono memorizzate e al momento opportuno, nell’alveare, vengono condivise tra le api con una comunicazione unica: una danza.

Con un rapidissimo scodinzolamento dell'addome, l’ape è in grado di indicare alle altre api la distanza dall’alveare dei fiori fonte di nettare. La danza, proseguendo nel formare la figura del numero otto (l’infinito - un altro segnale mistico!) indica alle altre api anche la direzione rispetto al favo.

Pur avendo una vita continuamente alternata tra la luce del sole e il buio dell’alveare, questo piccolo ed essenziale essere ha conquistato una eccezionale percezione della luce polarizzata che le ha sviluppato un senso dell’orientamento senza pari. Con il sole o con le nuvole, con la luce o il buio, l’ape non è mai persa.

Ed è il caso di dire però che non sono tutte rose e fiori.

Circa il 75-80% della produzione agricola mondiale dipende dall’attività degli impollinatori. Senza trascurare il loro ruolo nei processi di impollinazione di tipo locale, fuori dai circuiti globali e da cui dipendono numerose collettività in tutto il pianeta.

Il lavoro delle api contribuisce anche alla produzione di una varietà di prodotti farmaceutici, cosmetici ed alimentari. Per secoli abbiamo vissuto a lume di candela.

Sono tanti i fattori introdotti dall’Uomo che impattano l’esistenza degli impollinatori. L’urbanizzazione, l’inquinamento, l’agricoltura intensiva, anche l’abbandono di terreni, l’uso di erbicidi e pesticidi, riducono ed alterano, se non distruggono, gli habitat naturali degli impollinatori.

Non sono quindi a rischio solo le api e l’ecosistema in cui vivono ma la biodiversità che contribuiscono a tenere in vita. Pensate solo ai numerosi uccelli, insetti e altri animali che si nutrono di piante e frutti e che trovano riparo nella vegetazione.

Il miracolo che le api compiono ogni giorno rischia di essere bruscamente sopraffatta anche dal peso di un male esogeno e procurato, sebbene naturale.

La presenza da alcuni anni di un predatore crudele, proveniente dal Sud-Est asiatico, la Vespa velutina, e che lentamente si sta diffondendo nel sud europeo, rappresenta una minaccia che potrebbe anch’essa mutare il normale svolgersi dei ritmi naturali.

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La Vespa velutina, un calabrone aggressivo, posizionandosi all’ingresso dell’alveare, aggredisce le api di ritorno dal loro peregrinare, che ne diventano facili prede. Là dove sono state notate, si è verificato una maggiore moria stagionale nei mesi invernali delle comunità di api.

Il peggiore rischio però proviene dall’indifferenza dello stesso essere che nel tempo è riuscito nella altrettanta miracolosa scoperta del meccanismo magico delle api.

E’ un caso che Dante abbia collocato gli ignavi nel canto dell’Inferno?


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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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