UNA FINESTRA SULLA NATURA - 7) In cielo e in terra - seconda parte

di LUIGI EPOMICENO*

Nell’inspiegabile cammino dell’Evoluzione, come L.U.C.A. (il nostro “Last Universal Common Ancestor”) sia riuscito a prendere il volo rimane un mistero nel mistero.

Quel mistero nel mistero, a sua volta, è pieno di altri misteri. E non pochi.

Sentite questa. 

Quando si arriva al Bioparco, appena pagato il biglietto, sei accolto dallo schiamazzo che alcuni Pappagalli riservano ai nuovi arrivati. Uno schiamazzo eterogeneo generato dagli ospiti ufficiali e non, dalle nostre Ara ararauna e Ara dalla fronte rossa e dagli intrusi Parrocchetti che furbescamente scroccano un pasto gratuito (ogni giorno).

Ebbene sì!

Vi sarete accorti che da qualche tempo a Roma sono arrivati dei Parrocchetti che probabilmente Romolo e Remo non hanno mai visto.

Come sempre, quando ci sono novità, alcuni gioiscono e altri no.

In questo caso, prima di schierarvi però dovreste meglio conoscere di chi stiamo parlando. Perché di misteri il Pappagallo, dal più comune al più raro, ne racchiude tanti.

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(Ara ararauna         foto di Massimiliano Di Giovanni)

Già attorno ai sei anni ero ben allenato ad accudire Gini, il pappagallino Cocorita di mia zia.

Sapevo infilare l’abbeveratoio di plastica che si incastrava tra le barrette metalliche della gabbia; staccavo i gancetti che trattenevano la vasca inferiore, che, foderata di giornali, raccoglieva i semini masticati e deiezioni varie; posizionavo l’osso di seppia bianco su cui Gini arrotava il suo beccuccio. Ricordo che c’era anche una piccola vaschetta d’acqua in cui quotidianamente la piccola amava giocare con uno sbattimento d’ali che finiva col bagnare persino il telecomando della TV lontano un metro.

Il tocco finale era lo spicchio di mela che posizionavo accanto all’abbeveratoio, ma solo dopo averlo assaggiato. Era il mio compenso per il lavoro fatto.

Sono sicuro che qualcuno di voi, da piccoli, ha fatto altrettanto (forse lo fate ancora?).

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(Cocorita                 foto  da wikipedia)

Finite le operazioni di pulitura e riempimento di cibo e acqua, mi distanziavo di poco e ammiravo il mio operato, così come, una volta imbandita la tavola, la nuora scruta ogni particolare per assicurarsi che tutto sia in ordine per evitare il rimprovero della noiosa suocera.

Poco dopo, Gini era già attiva a spiluccare la mela, bagnarsi nella vaschetta e a sgusciare i semi di girasole.

Mi piaceva guardarla, e, al mio solito, mi ponevo decine di domande.

La più importante e misteriosa all’epoca riguardava l’abbeveratoio: il mistero del perché quando si capovolgeva il bicchierino l’acqua non si versava ovunque.

Imparai molto presto a non effettuare i miei esperimenti di Fisica a tavola, soprattutto da quando, nel tentativo di replicare il gesto del capovolgimento dell’abbeveratoio con il mio bicchiere colmo di acqua, aspettandomi che tutta l’acqua rimanesse nel bicchiere proprio come nella cannella di plastica, finii col bagnare metà della tovaglia di lino ancor prima che si iniziasse il pranzo della domenica.

Lo scappellotto che ricevetti, non so se da mia madre, mio padre o mia sorella, mi mandò il naso nel piatto già servito e così, sulla tovaglia, all’acqua si aggiunse anche la minestra, con cui mi guadagnai il secondo scappellotto. E anche questo, non so da chi.

Ma quando si hanno sei anni sono più le domande che si fanno che le risposte che si hanno, e, come tanti altri miei quesiti, ho dovuto aspettare qualche anno prima di avere le mie meritate spiegazioni.

Per svelare quel mistero dell’abbeveratoio, ero ormai maggiorenne, fui indirizzato a uno scritto della fine del ‘500 di un certo Simon Stevin: il suo De Beghinselen des Waterwichts era un manuale di Idrostatica. Tra formule di Matematica e principi di Fisica, mi limitai a leggere solo la premessa del capitolo iniziale e capii che tutto era dovuto alla differenza della pressione dell’aria presente all’interno della cannella rispetto a quella dell’atmosfera all’esterno: la maggiore forza di questa, di fatto, spingeva l’acqua verso l’interno della cannella, impedendone la fuoriuscita. E più “non dimandai.”

Saltellando sull’altalena, Gini finì per staccarla.

Con determinazione, aprii la portella e infilai la manina per svolgere l’operazione di ripristino. Mentre sfilavo la mano, con un veloce battito di ali, Gini uscì dall’apertura e prima ancora che potessi reagire era già a circa tre metri di altezza, sul bastone delle tende.

Corsi freneticamente a chiudere tutte le finestre di casa, avvertendo mia zia dell’accaduto. Con molta calma, lei si avvicinò alla gabbietta e bloccò la portellina in modo che rimanesse aperta, dicendomi di non agitarmi perché tanto sarebbe rientrata.

Dopo tre ore così fu, e iniziai la ricerca di tutte le deiezioni che nel frattempo Gini aveva lasciato in giro.

Accovacciato e cercando di staccare uno schizzo bianco verdastro su una mia scarpa, sentii chiamarmi “Gino” con una voce insolita. Rialzai la testa aspettandomi di incrociare lo sguardo di mia zia. Ero da solo nella stanza, e momentaneamente confuso ritornai alla mia scarpa.

Non ricordo quante volte vissi questa stessa avventura e quante furono le volte che Gini rientrò nella gabbia. Ricordo però il giorno in cui tornando da scuola la gabbia non c’era più.

Per festeggiare uno dei miei anniversari di matrimonio, mi trovai a Genova. Il tepore del periodo permetteva di tenere le finestre aperte e l’aria di mare aveva invaso la stanza in cui ero, intento a leggere il giornale. In lontananza si sentivano i rumori di un cantiere sul lungomare di Corso Italia.

All’improvviso le onde sonore di uno scoppio arrivarono dalle nostre parti e in una frazione di secondo dal vicino e immenso albero di nespole, nel giardino dell’adiacente convento di suore, si sollevò uno stormo di Pappagalli Parrocchetto, che presero il volo in ogni direzione come gli sciami di vespe in partenza per un attacco difensivo.

Pensai subito a Gini e a quante finestre non erano evidentemente state chiuse in tempo.

Le migrazioni naturali degli animali sono motivate da vari fattori tra cui la ricerca di cibo, la fuga da altre specie, variazioni climatiche che magari rendono ostili le condizioni di vita in certi territori. Trovarsi una creatura tipica di regioni a noi lontane non è il risultato di una migrazione ma di un intervento umano. E così oggi ci troviamo piante ed animali dei tropici nel salotto di casa a Roma, Madrid o Dubai.

Questa scena che mi ricordava Hitchcock avveniva all’incirca agli inizi degli anni novanta dello scorso secolo.

Nel frattempo, nei miei innumerevoli viaggi sia in Italia che all’estero ho incrociato più volte Pappagalli in volo in altrettante località che nulla avevano a che fare con le loro terre di origine.

Di finestre aperte ne sono rimaste davvero parecchie!

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(Ara fronte rossa     foto di Massimiliano Di Giovanni)

La passione travolgente che il collega Marco trasmette nel raccontare quanto gli accade quotidianamente nell’accudire le creature di queste specie, mi ha trascinato ancora di più in quei vicoli oscuri e dogmatici che la Scienza ancora non riesce a spiegare.

Se siamo abituati a sentirci dire che gli Scimpanzé hanno l’intelligenza di un bambino di 3 anni, cascherete dalla sedia nel sapere di cosa sono capaci i Pappagalli.

Tanto per iniziare non stiamo parlando di 4 o 5 specie diverse. Se fosse possibile una passeggiata in Pappagallandia ne scopriremmo uno al giorno, essendo oltre 370 le specie che vanno dal Cocorito, che pesa circa mezz’etto, all’Ara giacinto di quasi un metro di lunghezza.

Per non parlare delle numerose sottospecie.

In Nuova Zelanda ce n’è persino uno, il Cacapo, un pappagallo terricolo, che non vola!

Non solo, ma sentite cosa combina.

E’ la femmina di Cacapo che sceglie con quale esemplare maschio accoppiarsi. Forse perché romantica o forse per qualche bioritmo misterioso, preferisce un rito tutto suo. Si accoppia nelle notti di luna piena.

Quella notte, la femmina si posiziona su un’altura, una collinetta, mentre tutti i maschi, in qualche forma di sottomissione biologica, restano in basso, alla base della collina. Quando lei è pronta, emette un grido di richiamo e rimane in attesa. Il primo maschio che arriva è quello che sarà il prescelto.

Una gara notturna di velocità degna dei migliori film d’avventura!

E’ chiaro che un uccello che non vola, che a quanto pare emana un odore alquanto sgradevole e facilmente riconoscibile, che segue ritmi di riproduzione atipici non può che essere a rischio di estinzione. E il Cacapo lo è.

Anche per mano dell’Uomo.

A guardarlo bene, il Pappagallo non mi ha mai affascinato tanto quanto un Pettirosso o un Picchio. Non ha quell’occhio penetrante di un rapace o quel canto melodioso di un Merlo. Anzi.

Se leggete di Pappagalli, scoprirete un elenco lunghissimo di meraviglie. Una di queste ve l’ho appena raccontata, quando quel giorno di tanti anni fa Gini uscì dalla gabbia.

Quando mi sentii chiamare ed ero solo nella stanza, a chiamarmi non poteva che essere lei, Gini. E difatti lo era!

“Ripetere a pappagallo”, un modo di dire popolare che tutti conosciamo, rispecchia la straordinaria capacità che i Pappagalli hanno di emulare suoni.

Questa capacità, che già di per sé ti lascia interdetto, in realtà è l’evidenza di uno sviluppo cerebrale superiore a qualunque altro volatile (e non solo).

E’ noto come lo sviluppo dell’attività cerebrale dell’Uomo sia stata correlata direttamente allo sviluppo della cavità cranica in cui il cervello è ospitato (o viceversa). Nel Pappagallo assistiamo a uno sviluppo notevole dell’intelligenza nonostante il suo cervello sia racchiuso in un cranio contenuto.

Il numero di connessioni neurali per centimetro cubo è di gran lunga superiore a quello di ogni altro uccello, e dota il Pappagallo di notevole intelligenza che esprime con la sua capacità di raggiungere un obiettivo. Per lui ripetere suoni, nel nostro caso la parola (umana), non è un gesto a casaccio, bensì il mezzo utilizzato per raggiungere un suo scopo.

L’imitazione è il risultato delle relazioni causa-effetto che non tutti gli animali sono in grado di compiere. Lui sa che al ripetere la parola scelta avrà un risultato a lui gradito, una forma di premio. Non solo, ma è anche in grado di evolvere l’uso dei suoni quando scopre di poter raggiungere lo stesso risultato usando altri suoni!

Il bambino che ha fame e pronuncia “…pappa…” sa che presto riceverà qualcosa da mangiare: un biscottino o la sua frutta grattugiata. Il Pappagallo che ripete una parola da lui scelta si aspetta di ricevere qualcosa di preciso, magari un pezzetto di banana. Se gli dai invece l’albicocca, vedrete che la rifiuterà.

Questa considerazione apparentemente banale rivela che il Pappagallo è selettivo nelle parole che usa. Il bambino che pronuncia “…pappa…” vuole mangiare. Bisognerà aspettare qualche mese o anno affinché il bambino perfezioni il suo linguaggio per sentirlo passare da un generico “pappa” a “vorrei mangiare un pezzetto di banana.”

Quando il Pappagallo pronuncia la parola “pappa” non è perché vuole mangiare, ma perché vuole quel mangiare: ciò evidenzia una intelligenza appunto da bambino di tre anni.

Il Pappagallo ha in comune con i rapaci notturni la conformazione delle zampe. Come loro, non sono anisodattili ma zigodattili, cioè non hanno tre dita d’avanti e uno dietro, bensì due davanti e due dietro. Sempre quattro sono, ma la posizione fa una differenza inimmaginabile. Per capirlo, provate ad acchiappare un barattolo senza usare il vostro pollice e scoprirete come l’Evoluzione ci abbia premiati nel posizionare quel dito dov’è! 

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(Cacatua delle Molucche         foto di Massimiliano Di Giovanni)

 Per il pappagallo vuol dire poter manipolare un oggetto, il che gli consente di dominare l’ambiente circostante con un’abilità unica. Se vi fermate ad osservare un esemplare che mangia, noterete che a differenza di un Merlo il pappagallo è in grado di portarsi un frutto, ad esempio una ciliegia al becco usando la zampina, mentre il piccolo merlo è costretto a rincorrerla ad ogni beccata.

Se immaginate un albero con un unico frutto appeso, e uno Storno che becchettando strappa via piccoli pezzi del frutto, arriverà il momento, prima o poi,  che quell’unico frutto cadrà sul terreno costringendo lo Storno ad andare a cercarsi un altro albero. Quel gesto prensile del Pappagallo invece gli consentirà di rosicchiare l’intera polpa del frutto senza sprechi. In termini di sopravvivenza capirete che in caso di penuria di cibo la differenza è sostanziale.

Ora un’altra meraviglia: il becco.

Sebbene possa sembrare amorfo, racchiude una particolarità unica. La ranfoteca (il becco si chiama così in termini scientifici) ha le due parti, quella superiore e inferiore, totalmente indipendenti: si possono muovere liberamente (anche lateralmente), dando loro la capacità di usare il becco per compiere gesti impensabili.

C’è chi lo usa per arrampicarsi, chi per rompere gusci e chi… per girare chiavi e aprire lucchetti!

Avete capito bene. Fanno anche questo!

Abbinare lo spirito di osservazione alla sapienza dell’imitazione consente al Pappagallo di ripetere non solo suoni ma anche gesti. Un Pappagallo che ha assistito alla ripetuta apertura e chiusura di un lucchetto, una volta avuto accesso, girerà la chiave per aprirlo!

E questo non è il motivo per cui le mamme premurose nascondono le chiavi ai proprio piccoli… di tre anni? 

Dalla numerosità degli esemplari in volo che vediamo, avrete capito che il Pappagallo è un animale sociale. Tanto sociale che è capace di progettare residenze equivalenti ai nostri condomìni!

Il Parrocchetto monaco è chiamato così perché a differenza di altre specie, che amano costruirsi il nido nelle cavità degli alberi, costruisce il suo usando la tecnica dell’intreccio di rami.

Come il classico nido dell’immaginario collettivo?

Per niente proprio!

Il Parrocchetto monaco progetta e costruisce una struttura enorme con un unico corridoio centrale da cui poi partono in diramazione altre celle, occupate da altre coppie, esattamente come nei lunghi corridoi dei monasteri si diramano le decine di celle dei frati. (da cui il nome della specie).

Essendo piuttosto longevi (arrivano anche a 40 anni di età), nel classico modo dei nostri abusi edilizi i nuovi condòmini continuano ad aggiungere celle su celle, creando delle strutture mostruose che arrivano anche a 2-300 chili di peso!

Avendo poi grandi capacità di adattamento ed essendo anche molto stanziali, una volta che i Pappagalli si sono insediati e iniziano il ciclo riproduttivo seguono gli stessi comportamenti umani di espansione territoriale. Un po' alla volta, te li trovi dappertutto.

Potrei continuare ancora, ma lascio a voi il piacere della scoperta.

 

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Con curiosità ho notato che le reazioni delle persone che guardano gli animali sono diverse a seconda delle circostanze in cui gli stessi animali si trovano.

Il Gabbiano che vola alto nel cielo al tramonto nella caldera di Santorini gode della nostra romantica simpatia; mentre quello che ha imbrattato il nostro parabrezza è oggetto dei nostri peggiori vituperi!

Non è così?

Ora il Pappagallo, un condensato di meraviglie di cui vi ho elencato solo pochissimi esempi, può essere oggetto di ostilità? Purtroppo sì, e per diversi motivi.

Per assurdo, sono proprie le meraviglie di cui è capace ad essere la maggiore minaccia!

Il Pappagallo purtroppo è considerato un animale di compagnia. Il Cocorito, Gini per intendersi, è frequentemente nei ricordi d’infanzia dei bambini. Ed in una gabbia.

Ci sono adulti abbienti (e spregiudicati) che hanno un Ara ararauna o un Ara giacinto nel proprio salotto.

In entrambi i casi il danno alla Natura è immenso.

Il rilascio (voluto o no) di un esemplare in un territorio a lui alieno ha portato all’attuale invasione dei Pappagalli in molti paesi, Italia compresa.

L’essere stanziale, aggressivo, sociale, longevo, facilmente adattabile e resistente alle variazioni climatiche rende il Pappagallo dominante nella competizione con molte altre specie nostrane.

Lo stormo di Pappagalli che ha preso il volo da quel Nespolo ha cacciato via tante altre creature che prima di loro si alimentavano con quei frutti.

I Passeriformi che un tempo hanno lasciato Roma per migrare verso il caldo africano, si sono trovati sfrattati al loro ritorno nella Capitale da un Parrocchetto dal collare che si è appropriato della cavità dell’albero. Il quale parrocchetto ci resterà fino all’ultimo dei suoi giorni, costringendo il piccolo Passero a conquistarsi una dimora (e cibo) altrove.

Vi sono tante versioni di quale sia stato il fattore scatenante l’invasione dei Pappagalli in Europa. Fatto è che qui ci resteranno per sempre: debellarli è pressoché impossibile. A Barcellona, usando tecniche di cattura particolari, sono riusciti ad apporre loro una targhetta di identificazione, ma non ad allontanarli.

La minaccia quindi è per la biodiversità.

Peggio ancora, la bellezza dell’Ara ararauna o dell’Ara giacinto lo rende vittima di un commercio illegale e del conseguente bracconaggio. Esemplari di questi uccelli sono ancora contrabbandati a prezzi esorbitanti, attorno a €30-40.000. Inutile dire che sono diventate tra le specie seriamente minacciate di estinzione.

Gli esemplari al Bioparco vengono anche loro da sequestri. 

Come per l’Uomo, anche per il Pappagallo la sua Bellezza e Intelligenza sono causa di tanta rovina. Anche della sua.


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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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