UNA FINESTRA SULLA NATURA - 6) The Fish – Schindleria praematurus

di LUIGI EPOMICENO*

Vorrei raccontarvi una storia strana (ma vera) che mi ha fatto scoprire ancora un’altra meraviglia della Natura. Partendo dalla Schindleria mi sono trovato nel mezzo delle teorie dell’evoluzione, e non so come.

Spero vi diverta questo racconto che parte da molto lontano. Vi chiedo la pazienza di arrivare fino in fondo.

“In quel tempo” quando internet era ancora agli stadi primordiali di sviluppo e trattato ancora come un segreto, probabilmente custodito in qualche fortezza sotterranea nel deserto del Nevada, fui casualmente costretto a tentare una ricerca per sapere qualcosa della Schindleria praematurus (pron. – scindleria prematurus).

Quel tempo lontano era appena il 1974 (magari qualcuno di voi non era ancora nato) e a pensarci bene era davvero un altro mondo rispetto ad oggi.

Grazie a un film di successo, il mondo conobbe un certo O. Schindler, ma ce n’è anche un altro di O. Schindler da ricordare. Oscar il primo e Otto il secondo. Chissà se casualmente entrambi vissero nello stesso periodo. Entrambi tedeschi.

Se Oscar ha trovato un posto altolocato nella storia per la sua impresa eroica, Otto ha trovato invece rifugio in un anfratto degli oceani. E anche lontano dalla sua Germania.

La Schindleria praematurus (che nulla ha a che fare con la prematurata del Mascetti) non si incontra per caso e neanche per strada.

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(Schindleria praematurus foto di Abu El-Regal, M.A.)

Io l’ho incontrata nel 1974 nel Palazzo dello Sport all’EUR durante il concerto italiano tenuto a Roma del noto gruppo rock dei YES.

Furtivamente, io e tre compagni di avventura riuscimmo a intrufolarci negli spogliatoi sotterranei del Palazzo dello Sport attorno alle 14. Con la presunta intelligenza degli adolescenti pensammo che nascondendoci in qualche camerino lontano dal palco nessuno si sarebbe accorto di noi. Il piano era di uscire dal nascondiglio poco prima dell’inizio del concerto, programmato per le 20.

E così fu.

A parte qualche curioso che si inoltrò nel corridoio circolare a una cert’ora e tentò di aprire la nostra porta saldamente serrata, nessuno si accorse di noi. Perdemmo il nostro tempo giocando a carte, dormendo e leggendo una rivista di musica di quei tempi, “Muzak,” trovata per caso nello stanzino.

Il silenzio veniva interrotto ogni tanto dai musicisti che ancora provavano le accordature degli strumenti. Brevi tratti dei brani che però ci facevano venire l’acquolina in bocca, facendoci assaporare quanto avremmo presto ascoltato.

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(Foto di Luigi Epomiceno)

Alle 19:45 i rumori erano tali che immaginavamo già il pienone e ci domandammo se mai avremmo trovato posto da dove assistere al concerto.

Come i pallavolisti, a inizio di partita, si radunano in cerchio per incoraggiarsi a vicenda, anche noi con un approssimativo “ tutti per uno… e si salvi chi può” ci radunammo e uscimmo dal nascondiglio con la determinazione dei buttafuori dei servizi d’ordine e percorrendo metà del cerchio del Palazzo ci fermammo a una lunga rampa di scale da cui, guardando all’insù, vedemmo il soffitto arcuato della struttura. Dovevamo salire per forza.

Salimmo un piano e vedemmo un gran via vai di tecnici che si incrociavano freneticamente. Chi aveva una chitarra in ogni mano, chi una pila di giacche scintillanti di ogni colore in stile Elvis, chi cavi e spine elettriche. Tutti rigorosamente inglesi.

Immedesimato nella parte, chiesi a uno che passava “Where’s the band?” nel mio inglese americano, e modestamente perfetto.

Il tecnico, scambiandomi forse per qualche collega, mi puntò la direzione di una stanza dove erano raggruppati i miei idoli di allora. Erano tutti lì meno che uno: Chris Squire, il bassista.

 

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(Chris Squire)

Tirai fuori in fretta la rivista che mi ero portato via dallo stanzino e con nonchalance pretesi il loro autografo. Scambiandosi vicendevolmente la penna, posero quattro firme su una pagina del libretto. Mentre Jon Anderson, il leader della band, stava per ultimare la sua, di firma, chiese agli altri “Where’s the Fish?” Ma nessuno rispose. Per un attimo credetti che mi stesse per arrivare in regalo un’aringa affumicata scozzese.

Prima che arrivasse un vero buttafuori, uscii di fretta dal camerino, salii la seconda rampa di scale e raggiungendo gli altri tre compagni ci trovammo nel mezzo del palcoscenico, accerchiati dagli innumerevoli strumenti e davanti a 20.000 scalmanati capelloni.

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(Autografi del gruppo rock Yes - Foto di Luigi Epomiceno)

Ci sedemmo in prima fila, sotto le casse acustiche da migliaia di Watt, da dove ascoltammo ogni nota del concerto.

Intossicati dai fumi scenografici del ghiaccio secco nonché dai fumi vari che respirammo nelle due ore di musica, nelle ore piccole del mattino seguente entrai nella mia camera da letto, e, sospettando l’inizio di un acufene, caddi tra le braccia di Morfeo. (Le mie orecchie continuarono a fischiare per altri nove giorni.)

Uno dei brani che il gruppo suonò era “The Fish – Schindleria praematurus.” Un titolo arcano, come del resto lo sono molti titoli di canzoni.

All’indomani, rivivendo ogni istante del giorno precedente, memore della domanda di Jon, capii che “The Fish” era un soprannome dalle origini ignote. Il titolo del brano, più che una domanda, era invece un mistero.

Una mia affrettata ricerca non mi portò a nulla e nei seguenti quarant’anni non mi proposi mai più di risolvere i due quesiti.

Finchè pochi anni fa venni a sapere che “The Fish” era venuto a mancare, e quel dilemma irrisolto riaffiorò di soppiatto.

Riprendendo la sospesa ricerca ho incamerato nozioni di ittiologia, potendo ora disquisire durante un aperitivo della Schindleria praematurus. Il perché Chris Squire fosse stato soprannominato “The Fish” resterà comunque un segreto.

La Schindleria è davvero un fish, un pesce.

Otto Schindler viaggiò per mari e per monti. Uno zoologo che ha dato importanti contributi alla Scienza e a cui è dedicato un genere di pesci marini ossei che amano gironzolare tra le barriere coralline di vari oceani.

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(foto Oleh  Amang)

Io non ho mai incontrato ”The Fish”, ma neanche una Schindleria.

Del resto vederne una è alquanto difficile: stiamo parlando di uno dei vertebrati più piccoli del mondo.

Tanto per farlo apposta, anche questo minuscolo essere, che vive pochi mesi, racchiude domande e risposte evoluzionistiche che neanche la più contorta delle menti avrebbe potuto concepire.

E’ pedomòrfico.

Per noi comuni mortali, la sola lettura della definizione della pedomorfòsi richiede un corso di dizione e la pronta consultazione di un’enciclopedia per decifrare ogni parola della spiegazione. Ci vogliono un buon 35 minuti e almeno 7-8 riletture prima di capire che non si è capito niente.

Non ho alcuna pretesa di spiegarvi cosa voglia dire pedomorfòsi. Io ho capito che la nostra Schindleria da adulto conserva le caratteristiche degli esemplari non ancora maturi. Come se un cane Pastore tedesco a sette anni continuasse ad avere le sembianze di un cucciolo anziché progredire verso la forma adulta, per assomigliare sempre più al suo capostipite, il lupo.

Non mi inoltro di certo nella neotenìa, eterocronìa o altre “ ìe.”

Pedomorfòsi a parte, vi domanderete però qual è la meraviglia che ho scoperto nella Schindleria.

Il suo perché.

E per capire cosa intendo, devo chiamare in causa Luca. Più precisamente L.U.C.A.

Quel “Last Universal Common Ancestor.” La madre di tutte le madri. L’antenato da cui tutto è disceso (vi prego -non è blasfemìa.)

Ora fissate davanti ai vostri occhi quel cammino darwiniano dello scimpanzè che poi diventa Homo.

Ecco!

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Ebbene, l’evoluzione NON è questa.

L’immagine inganna!

L’evoluzione NON è una progressione lineare e pacifica, ma più una costante lotta alla sopravvivenza, che inesorabilmente decreta quale è il vincitore.

Il percorso di trasformazione durato miliardi di anni, partito L.U.C.A., non assomiglia affatto a una curva continua ma più a una struttura ad albero dove ogni ramo e rametto rappresentano una specie vincente.

L’immagine della scimmia che diventa Homo non va intesa come la derivazione dell’Uomo dalla scimmia, bensì come la condivisione del patrimonio genetico. Sia la scimmia a sinistra della foto in alto che l’uomo a destra sono partiti nel tempo dallo stesso essere. La scimmia ha progredito in un senso e l’uomo in un altro, ognuno adattandosi alle proprie circostanze. E così le prime sono diventate le numerose specie che abbiamo (dai Tamarini ai Gorilla Silver Back), e l’uomo è diventato alto, basso, biondo, occhi a mandorla, pelle scura o chiara e così via. Le scimmie si sono adattate ad arrampicarsi sugli alberi, mentre l’uomo si è avventurato nello spazio. Ognuno dei due ha seguito un percorso proprio e non sequenziale.

Ora trasportatevi nel tempo e cercate di fare lo sforzo (impossibile!) per immaginare come il primo organismo monocellulare (quella madre di tutte le madri) sia diventata una Schindleria, un pesciolino di massimo 2 centimetri di lunghezza (come una nostra falange), dal peso ridicolo (si parla di milligrammi), che vive quanto una fioritura di un geranio (3-4 mesi), che si nutre di plancton (una specie di “schiuma di mare” microscopica) e vive solo in particolari zone del pianeta (le barriere coralline).

Le innumerevoli mutazioni avvenute nel tempo, oltre alle nostre piccole Schindlerie hanno dato origine a enormi cernie e piccole triglie, ad alici e tonni, al pesce pagliaccio e squali. Ma continuando per altri rami del cammino evolutivo si arriva anche all’Homo (erectus).

E’ per questo che abbiamo in comune il 99% del DNA degli scimpanzè ma condividiamo anche il 56% del patrimonio genetico della… banana!

Forse ora capite la meraviglia di cui parlo. La meraviglia che si prova quando più che all’essere vivente in sé che abbiamo sotto i nostri occhi, si guarda a come esso si inserisce in un quadro più ampio; quello della Natura.

Se provate a guardare ogni espressione di vita come un minuscolo ingranaggio che svolge un ruolo essenziale in una macchina dalle infinite ruote, che include colibrì, orche marine, l’orso bruno, il geranio, il polpo o l’elefante, capirete che anche la Schindleria , tra i più piccoli animali vertebrati esistenti, ha svolto e svolge un suo di ruolo, insostituibile.

 

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Io non mi sono mai imbattuto in una barriera corallina, sebbene abbia letto parecchio su di essa, visto il lavoro che da qualche anno svolgo e che mi ha “avviato” sul percorso di conoscenza della Natura.

Guarda caso, anche le barriere coralline sono a rischio di estinzione (forse è meglio dire distruzione). Badate bene che non si sta parlando di barriera in senso difensivo. La barriera in realtà è viva. Sono organismi viventi, che crescono, nutrono e si nutrono, filtrano e muoiono.

Ha dato i natali alla nostra Schindleria!

La coral reef, la barriera corallina, non è roccia. Quel rametto rossastro che per secoli è stato usato per motivi ornamentali, è (anzi era) un essere vivente che ha anch’esso percorso un cammino evoluzionistico di milioni, o miliardi, di anni.

La barriera è vita e dà vita. Il suo agglomerarsi a pochi metri di profondità e solo in certe acque intiepidite dalla luce calda del sole, costruisce una vera barriera e crea un ambiente ideale per un’infinità di specie marine che vi trovano riparo. E’ qui che Otto Schindler vide negli anni venti del ‘900 per la prima volta il suo pescetto che gli avrebbe dato la gloria nel mondo degli scienziati biologi.

Tuttavia, rispetto a quanto sappiamo della Natura fuori acqua, si sa quasi nulla del “mondo sommerso.”

Nell’esercizio continuo di tentare di dare una spiegazione a tutto, si stima che dovrebbero esistere oltre 8,5 milioni di specie sulla Terra. Avendo catalogato 1,5 milioni di queste, rimangono almeno 7 milioni ancora da scoprire. Pare che conosciamo appena il 10% delle forme di vita nei mari. E’ molto probabile che nel buio degli oceani esistano esseri che forse mai vedremo, o perché non saremo in grado di arrivarci, o perché sono invisibili, oppure, ahimè, perché le stiamo già uccidendo.

La fragilità delle barriere coralline non è metaforica.

Tutti, e dico tutti, i fattori che stanno contribuendo alla sua distruzione sono di origine umana. Dalla pesca a strascico al saccheggio dei coralli, passando per l’innalzamento della temperatura dei mari e al mortale inquinamento. E che dire delle trivellazioni subacquee per la ricerca di giacimenti di idrocarburi?

Ci sono due curiosità che voglio raccontarvi. Una brutta, e una bella.

La bella l’ho vista di persona guardando una ripresa di pochi minuti insieme all’amica Donatella e l’esperto biologo marino dell’ISPRA, Franco Andaloro. Ricordo bene l’entusiasmo che Franco trasmetteva quando descriveva i risultati di alcune ricerche effettuate nei mari attorno la nostra Sicilia, dove si sono trovati numerosi “banchi” di vita marina tipica delle barriere.

Quasi delle oasi che creano una discontinuità naturale nella monotonia dei fondali e fanno da attrazione per tante specie diverse. Un ritrovo in mare aperto della biodiversità che accoglie, e raccoglie, fauna e flora diversa creando un rifugio per adulti di molte specie marine, che riescono così a continuare un’attività riproduttiva a sostegno della propria specie, e quindi della vita del sistema dei mari.

Una barriera corallina nostrana, che lascia tanto spazio alle fantasie di come poteva essere una volta questo pianeta.

Quella brutta invece l’ho letta e vissuta. Come probabilmente la vivete anche voi quando andate al mare.

Non tutte le sostanze naturali fanno bene alla Natura. Il petrolio è un esempio.

Dal petrolio derivano migliaia di prodotti di uso comune e quotidiano, uno dei quali molto diffuso e che serve per abbellirci, dandoci quella tintarella estiva che bene si abbina agli abiti di lino chiaro.

Quella crema ricca di SPF che ci spalmiamo in abbondanza e che ci consente di rimanere ore sotto i perfidi raggi ultra-violetti, per le barriere coralline sono come la candeggina su un tessuto blu: sbiancante.

E mortale.

Come quella bottiglia contenente il messaggio di speranza viene trasportata con il moto ondoso dalle Lofoten a Sydney, così la spalmatura protettiva e bianca, nel liquefarsi, si scompone e le sue molecole lentamente ed inesorabilmente si trasferiscono e vanno a spalmarsi invece sulle superfici di quelle forme di vita della coral reef, la barriera corallina.

Evidentemente l’effetto sui coralli degli SPF è lo stesso che sulla nostra pelle: bloccando i raggi solari e la fotosintesi, il corallo lentamente espelle un’alga particolare che sbianca il corallo stesso; lo uccide, finendo per alterare l’equilibrio della biodiversità dell’ecosistema della barriera.

Con grande disappunto della Schindleria, di Otto Schindler, del bassista dei YES, e di tutti noi…


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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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