UNA FINESTRA SULLA NATURA - 4) In cielo e in terra / prima parte

di LUIGI EPOMICENO*

C’è un animale che lascia molti di noi esseri umani a bocca aperta. Per la sua bellezza; per la sua varietà; per la sua conformazione fisica; per i versi che segnalano la sua presenza; per le sue capacità di accudire i suoi piccoli; per come e dove costruisce le sue dimore; e tanti altri motivi ancora.

Più che un animale, pare che nei cieli ce ne siano quasi 20.000 specie diverse, che a loro volta sono due terzi di quelli che si stimano vivere nei nostri mari. (Per non parlare poi di quante specie di piante!).

Oltre a rimanere pensieroso su quali fattori evolutivi abbiano potuto contribuire alla creazione di queste macchine naturali, gli uccelli, non riesco davvero a dare ragione a una trasformazione, questa volta di natura umana, che li riguarda: i loro nomi.

In questi tempi in cui il genere umano sta dando il meglio di sé in fatto di ingegneria, non credo che ci sia algoritmo inventato in grado di districare il mistero di come Cyanocitta cristata e Bubo bubo si possano trasformare in Ghiandaia Azzurra Americana e Gufo Reale, rispettivamente.

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(Blue jay                                   foto da pixabay)

D’altro canto i testi sacri che racchiudono il sapere sugli animali sono pieni di altri esempi che sembrano essere individuati appositamente per fuorviare l’ignaro. Ho persino pensato che per dare un nome a 20.000 specie diverse non si può che ricorrere alla più fantasiosa delle fantasie. Ecco quindi come spiegare il passaggio, direi lineare, da Cardinalis cardinalis in Cardinale rosso, e quello più tortuoso da Poecile atricapillus in La Luisa dal cappuccio nero.

Saprete forse che ho trascorso qualcuno dei miei giorni all’estero. Sono cresciuto a New York, dapprima tra il cemento ma poi nell’Upper Bronx, ai confini della città, compresa tra il fiume Hudson e il Van Cortlandt Park. Quella parte del distretto si chiama North Riverdale e io avevo poco più di dieci anni.

Alternavo i miei giochi di quasi adolescente tra la pallacanestro o il baseball e le avventure dell’esploratore, e insieme al vicino di casa spesso ci addentravamo nel fitto bosco del parco.

Da adulto, oggi, ammetto che azzardavamo parecchio nel fare quel che facevamo. Oltre al rischio insito nel gioco stesso, non abbiamo mai considerato il rischio insito nel luogo dove appositamente cercavamo di infilarci negli angoli più remoti. La natura dell’esploratore, appunto.

E così Patrick ed io partivamo: muniti di macete, ricavato fantasiosamente da un ramo d’albero, e con la corda salvavita indossata a tracolla, che altro non era che uno spago e che di vite ne poteva salvare ben poche, partivamo per la nostra avventura, pronti ad arrampicarci ovunque, a seguire sentieri sconosciuti o tentare di accendere fuochi con metodi preistorici.

Di chilometri ne facevamo, visto che l’appuntamento era per le nove del mattino e di solito tornavamo attorno le quattro del pomeriggio. Con i calli e le cicatrici che ci procuravamo, eravamo entrambi pronti per la raffica di schiaffi che ci spettava al nostro ritorno da parte delle  amorevoli mamme, tormentate dall’ansia (più che giustificata).

Quel giorno le nostre avventure ci portarono in un angolo inesplorato del parco facendoci deviare verso sud e una volta che uscimmo dalla natura ci trovammo in un punto di Broadway da cui per tornare a casa ci volle ancora un’ora di cammino.

Era autunno, e nella zona abbondavano enormi ippocastani che in quella stagione stendevano tappeti di foglie che ogni padrone di casa doveva poi raccogliere. Lungo la strada c'erano mucchi raccolti davanti alle case, pronti per essere asportati dagli operatori del servizio di nettezza urbana, che muniti di grandi aspiratori risucchiavano la natura morta.

Nel passare davanti a uno di questi si sentì il rumore di qualcosa o qualcuno, che sotto le foglie si agitava con energia. Sprovvisto del mio macete, con le mani allargai le foglie e scavando con cautela e titubanza azzardavo sempre più, pronto a scattare appena avessi visto le fauci spalancate di chissà quale minaccia.

Al rumore che provocavo corrispondeva un rumore ancor più forte da parte del misterioso imboscato, palesemente agitato dalla mia intrusione.

Finché tolsi quell’ultima foglia e lo vidi lì disteso su un fianco, che ansimava.

La Cyanocitta cristata a Riverdale si chiama Blue Jay, e ridurre il suo colore a un semplice azzurro è come definire la Cappella Sistina un semplice affresco.

A quel decenne, l’uccello doveva sembrare grande come un’aquila; e vederlo in terra anziché in aria gli scatenò non pochi dubbi su chi dei due fosse nel posto sbagliato.

Tirai indietro le mani per evitare il suo becco nero, che per difesa puntava le mie dita.

Io e l’amico irlandese Patrick ci guardammo increduli e nel contempo, in silenzio, ci interrogammo sul da farsi.

Il piccolo rimaneva disteso sul fianco e notai che le sue due zampine erano piegate a metà, all’indietro. Erano spezzate.

Fu la risposta alle nostre domande.

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(Blue jay                    foto da pixabay)

Allungai di nuovo le braccia verso la creatura nel tentativo di fermare il battito delle sue ali e afferrarla per il corpo. Nonostante le beccate sui dorsi delle mie mani, ero riuscito a prenderla e lentamente mi sollevavo da terra. Evidentemente, vedendosi fuori dal buio dell’improvvisata tana di foglie, si calmò e per qualche minuto rimase immobile.

Dovemmo percorre la lunga strada in fretta per tornare a casa e chiedere aiuto. Mio padre era lì forse pronto per la meritata scarica di schiaffi, che il mio Blue Jay mi evitò.

Incredulo anche lui, non so se per l’uccello o perché ormai ero dato per disperso, si rese subito conto della gravità della situazione e sapendo che c’era ben poco da fare si soffermò per capire. Nel frattempo il sangue rigava le mie mani. Quel becco appuntito continuava a funzionare.

Con la pazienza e mano ferma dell’orologiaio, mio padre prese una cannuccia per bibite e tagliandola a misura e aprendola a metà si inventò delle simil-ingessature da mettere sulle zampe. Ebbi l’illusione che l’intervento fosse riuscito,  e che avremmo salvato il piccolo.

Le zampe erano di nuovo dritte, ma non potevano certamente reggere né il peso del corpo né il suo movimento continuo. Insieme ci inventammo un’imbragatura con una garza che avrebbe tenuto le ali chiuse e cercammo un modo di legare le estremità delle bende sui bordi di una scatola di scarpe, in modo da tenerlo sospeso nel vuoto ed evitare che tentasse di poggiarsi sulle zampine.

Miracolosamente il piccolo catafalco funzionava, e Blue Jay sembrava che stesse galleggiando sull’acqua.

Ora bisognava che rimanesse fermo e in vita.

Servivano acqua e cibo.

Sono cresciuto in una casa dove ci sono sempre stati canarini. Una mia zia aveva anche due piccoli pappagalli Parrocchetto (Myiopsitta monachus – ditemi voi come è possibile una simile trasformazione di nome!). Uno di questi si chiamava Gini, forse perché da piccolo tutti mi chiamavano Gino. Quindi sapevo tutto su come accudire gli uccelli. Almeno così mi vantavo.

Con un po' di semini e con un po' di acqua in un cucchiaino riuscii a dare i primi sostentamenti.

Palesemente più tranquillo, il mio compagno invalido continuava in quel rito tipico degli animali spaesati a guardarsi attorno, a cercare qualcosa. Con scatti veloci si girava ovunque e a intervalli quasi regolari, prima con un occhio e poi con l’altro, fissava i miei, di occhi. Avevo poggiato il volto sul tavolo a una distanza di sicurezza. Quel becco ancora mi turbava.

Come i bambini che non vogliono più la pappa, anche lui si voltava per evitare l’ennesimo semino che gli offrivo. Forse era il caso di lasciarlo tranquillo.

Ormai tardi, spensi la luce e gli augurai la buona notte.

Ma quale notte buona?

Ovviamente non dormii. La fantasia mi portò persino sulle ali di quell’uccello e volai per ore in ogni parte dell’immaginario possibile, come un moderno drone. E a “volo d’uccello” sognai la felicità.

Ancora oggi, di rado, compio questi voli dai significati remoti, ma così gratificanti da rendere il risveglio da un lato dolce e dall’altro come una dispettosa interruzione.

Alle prime luci dell’alba, sentii il primo canto di qualche altro uccello e pensai che fosse ora di compiere il giro che di solito fanno i primari nelle corsie d’ospedale.

Scesi giù le scale che portano al piano “basement” delle case americane e cercai subito al semi buio dell’ora la scatola sul tavolo.

La scatola non c’era.

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(Foto da pixabay)

Come lui il giorno prima, con scatti repentini della testa perlustrai la grande stanza in ogni angolo, sopra e sotto i mobili, per trovare, dopo poco, la scia di scatola, garza e cannucce ed infine lui, di nuovo steso su un fianco.

Immobile.

Triste mi misi il piccolo corpicino sul grembo e seduto sul punto del ritrovamento fissavo ogni dettaglio.

Come un ornitologo e come un coroner iniziai a ispezionare quel corpo leggero.

Spiegai le sue ali per cercare di scoprire ogni suo segreto: cosa gli consentisse di galleggiare nell’aria, di buttarsi in picchiata, di virare all’improvviso.

Il disegno delle piume rivelava una meraviglia inaspettata. Ognuna era diversa: in misura, in forma e in colore. Prima le più piccole, poi le medie ed infine le più lunghe; quelle chiare, quelle miste e poi quelle scure. Quelle sui lati, sulle ali, il ciuffo sul capo, la disposizione sulla coda e quelle più minuscole e morbide sulla pancia. Strati e strati sovrapposti come tegole sui tetti, con un disegno che il migliore degli architetti non avrebbe mai potuto pensare.

E il colore.

L’azzurro lapislazzulo variava di tonalità di continuo a seconda della parte del corpo e delle ali. Un colore davvero celestiale, che forse serviva per confonderlo con il blu del cielo. Una volta ripiegate le ali però l’intero corpo assumeva un insieme di colori in armonia con sfasature di tonalità dal bianco al grigio al nero. E il blu in tutte le sue sfumature.

Pensai al raggio di luce attraverso il prisma: da un lato un unico filo e dall’altro un’apertura a ventaglio con i colori base dell’arcobaleno. E pluribus unum.

Continuando nell’esplorazione notai che le piccole zampe erano a loro volta un mistero e che erano vuote, cave, come le cannucce usate nel tentativo di sanare le ferite. Un'altra ingegnosa trovata che consentiva il volo: la leggerezza.

E così trascorsi una, forse due ore ad ammirare quella meraviglia capitata tra le mie mani per caso.

All’arrivo di mio padre, celebrammo il rito funebre della sepoltura in giardino.

 

***************** 

Mentre ti avvìi verso il bar interno al parco, sul viale principale incontri subito, sulla sinistra, il Bubo bubo, il Gufo reale.

Dire che lo incontri è un eufemismo.

I rapaci, specie quelli notturni, non si incontrano. Sono loro a incontrare te.

Se cinquant’anni fa rimasi senza parole con il mio piccolo Blue jay, con il Gufo sono rimasto anche senza voce.

Mentre passavo ebbi l’impressione che il tronco di quercia, posato per simulare uno degli elementi che caratterizzano l’ambiente in cui naturalmente vive, si fosse mosso, come scosso da una folata improvvisa di vento.


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(Gufo reale     foto di Massimiliano Di Giovanni Archivio Bioparco)

Mi avvicinai alla vetrata, ma non vidi nulla e mi allontanai convinto che l’enorme ambiente fosse vuoto. Nel mentre facevo i primi passi all’indietro, di nuovo vidi un movimento improvviso. Solo con attenzione scoprii che l’immagine simmetrica che spuntava da quel che mi sembrava il tronco dell’albero, altro non era che l’apertura di due grandi ali che parevano attaccate al tronco, che invece era il corpo centrale dell’ospite. Il nostro Gufo reale.

Pochi secondi dopo, con le ali chiuse, riuscii a vedere solo due occhi dal colore di quei perfidi scogli scivolosi su cui le patelle di mare amano attaccarsi, che sembravano incollate, come le patelle, sul tronco dell’albero. Una mimetizzazione perfetta che ti fa domandare se è l’uccello che si è adattato alla vegetazione o vice versa.

Gli animali del Bioparco solitamente hanno un nome. Gli uccelli no. O Almeno non tutti gli uccelli.

Ve n’è una specie che il nome ce l’ha, ma ve ne parlo in un altro momento.

Il perché di questo mistero è che gli uccelli non reagiscono a un richiamo. Per cui pensare che un passerotto si sia posato sulla tua mano perché hai urlato “Cippi Cippi” è un’ingannevole illusione.

Il nostro Gufo, che solo in questa occasione chiamerò Bubo, è un magnifico esemplare giunto da un centro di recupero in seguito a un sequestro da un privato malvagio che per anni l’ha tenuto in gabbia. Ormai inadatto ad essere liberato, ha trovato più di vent’anni fa residenza al Bioparco.

Bubo ha circa quarant’anni, venti in più di quanti ne avrebbe vissuto in Natura.

All’apertura delle sue ali ho rivissuto quei momenti trascorsi con Blue Jay per scoprire la quasi perfetta corrispondenza delle disposizioni delle piume. Quel disegno che scoprii allora era lo stesso di Bubo, il gioco degli strati e dei colori anche. Non potendo avvicinarmi oltre, più non domandai, ma notai che una differenza c’era, e anche importante.

Il sincronismo tra occhi, orecchie e collo rende il Gufo un essere quasi sovrannaturale.

Mentre il gufo ti fissa con lo sguardo penetrante, è capace di sentire il più remoto dei rumori. I suoi ciuffi di piume incanalano le onde sonore nelle orecchie da rapace, che, a differenza di tutti gli altri uccelli, sono posizionate in modo sfalsato sui due lati della testina. Uno più in alto dell’altro. Gli occhi in abbinamento ai ciuffi e le orecchie gli consentono di fatto di vedere il suono.

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(Gufo reale    foto di Massimiliano Di Giovanni Archivio Bioparco)


Il suo campo visivo viene ampliato dalla capacità di rotazione del collo che gli offre una copertura a 360 gradi in tre dimensioni, consentendogli di vedere ogni cosa avanti, di lato, dietro, sopra e sotto di sé. E non finisce qui.

Con un saltello energico, con poche battute delle ali enormi, spicca un volo in assoluto silenzio grazie a una particolarità dell’estremità delle sue ali, che, a frangia, consentono di far scorrere l’aria attraverso di esse interrompendo la frequenza delle onde sonore del vento. Un volo in assoluto silenzio che gli ha reso l’infausto appellativo scaramantico. Eppure oltre a “occhio di falco” dovremmo essere fieri di farci chiamare “orecchio da gufo!”

E così, nel buio ma anche di giorno, a sorpresa, quella macchina perfetta in ogni cosa, dal becco alla coda, da una estremità all’altra delle piume delle ali, il gufo ti colpisce.

Soprattutto il cuore.

                                         ***************

Alla sua vista, rimasi senza parole e senza voce.

In una trattoria di campagna trovai, con mia grande sorpresa, un magnifico Gufo Reale, un Bubo bubo.

Imbalsamato.

“…e più non dimandare.”


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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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