UNA FINESTRA SULLA NATURA / 16) Un osso duro

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di LUIGI EPOMICENO*

Chi avrebbe mai detto che un animale così pacifico come la tartaruga avrebbe tenuto in scacco pensatori di ogni genere. Eppure sin dall’inseguimento senza fine di Achille ai giorni nostri la tartaruga divide nella teoria e viene sconfessata nella pratica.

La prima volta che presi una chitarra in mano era a undici anni, in piena rivoluzione hippy del ’68. Io però con quella rivoluzione non c’entravo niente. Avevo solo 11 anni.

Frequentavo una scuola pubblica allora, la PS81. Il nostro maestro, ricordo, assomigliava molto a Dustin Hoffman dei tempi de Il Laureato. Lui vivendo davvero il ’68, decise di inserire la chitarra tra gli strumenti da procurarsi per le lezioni di musica, sperando, forse, di scoprire dei piccoli Segovia.

Non ho mai capito come facessero (e fanno ancora) i bambini-prodigio a dedicarsi allo studio di uno strumento qualunque a soli 4 anni. A undici anni io non avevo la capa per suonare né la chitarra e nemmeno il flauto.

Ho dovuto aspettare altri 5 anni per farmi venire la voglia: si sa che con l’età la capa cambia.

Nel frattempo la mia famiglia si era trasferita a Roma e tra gli amici di allora alcuni suonavano la chitarra. Ed erano anche bravi!

Qualcuno aveva studiato; altri, come me, andavano ad orecchio, e più che Bob Dylan (per motivi di pronuncia, immagino) a quei tempi si saliva tutti sulla Locomotiva di Guccini.

Io no.

Anzi lo detestavo!

Ero più incline al Country e al Progressive Rock e ai ritmi ricercati. Preferivo i virtuosismi di alcuni nomi celebri del momento, e per questo avevo bisogno di una chitarra con una sonorità profonda.


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(Le violon d’Ingres, Man Ray)            



I miei idoli impugnavano chitarre (molto) fuori dalla mia portata di tasca, ma il suono che veniva generato dalla loro cassa acustica era strabiliante e decisi che ne dovevo avere una più vicina possibile alle loro!

Quella che cercavo aveva una cassa acustica che assomigliava a Le violon d'Ingres di Man Ray.  Grande cassa acustica e suono profondo. (Per gli appassionati la Gibson J200, ma mi dovetti “accontentare” di una Ibanez Concord.)


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(Ibanez Concord, foto di Luigi Epomiceno)

 

Da autodidatta mi esercitavo per ore per dare agilità alle dita, per farle scorrere velocemente su e giù per i tasti del manico. Finché uno dei miei amici virtuosi mi disse che il segreto non era la velocità delle dita sulle corde bensì la velocita con cui si pizzicano. Cioè non era la mia mano sinistra la più importante, ma la destra.

E così mi buttai sugli esercizi di arpeggio e finger-picking ma c’era qualcosa che mi frenava: la penna, il plettro.

Il mio fornitore di corde si trovava in Via della Rotonda, a Roma. Un vecchio signore del mestiere, forse un musicista mancato, forse figlio di musicisti. Il negozio c’è ancora, ma probabilmente lui no.

Durante una mia visita mi svelò un suo segreto e ammettendo che la velocità dipende anche dal materiale con cui è fatta la penna, tirò fuori dalla sua tasca una scatoletta portapillole. L’aprì e quasi con riverenza tirò fuori un plettro scuro.

Al tocco era liscia come nessuna delle mie.

“Questo materiale è indistruttibile, anzi più la usi e più diventa liscia. Si consuma ma non si sfilaccia come quelle di plastica,” mi confidò. “Tiè, ora è tua!”

Lo guardai incredulo per la sua generosità, ma non capivo.

“E’ di tartaruga” aggiunse, notando la mia confusione.

E aveva ragione!

La usai per ore e ore al giorno, strimpellando virtuosismi di noti professionisti e lo feci finché mi durò la passione, e non giunsi ai numerosi bivi delle scelte obbligate della vita.

Entrando nel Rettilario del Bioparco, attraversi un’area amichevolmente chiamata “L’Aereo.” Una stanza quadrata con pareti bianche su due delle quali si trovano degli oblò simili ai finestrini degli aerei. Una progettata scelta architettonica fatta per dare l’impressione di salire su un Boeing 747 con destinazione una foresta tropicale.

Attraversando la porta, si entra in una prima zona dove trovi una scenografia tipica della foresta umida e una trentina di Ibis rossi (Eudocimus ruber) poggiati su rami disposti in ogni dove. Il rumore delle loro ali un po' ti distrae mentre cammini, e guardando dove mettere i piedi ti accorgi delle finte rocce costruite proprio per accompagnarti verso un habitat immaginario. Magari in un parco giochi sarebbero stati installati sistemi sonori che replicano i rumori delle foreste: uccelli in lontananza, cascate, ruggiti e chissà quale altra messa in scena.

Non al Bioparco.

Superati gli Ibis, per quanto lentamente cammini, ci sono loro che camminano ancora più lentamente: alcune tartarughe della specie Astrochelys radiata e poi un magnifico esemplare di Aldabra (Aldabrachelys gigantea), una gigantesca testuggine di circa 50 anni arrivata al parco nel 1990.

I rettili sono una classe di animali che riescono a dividere l’opinione pubblica. Un po' come i canditi nel panettone.

C’è chi li adora, li alleva, ci gioca e chi invece al solo pensiero salta in punta di piedi e trema. Eppure, presenti sulla Terra da ben oltre 300 milioni di anni (avete letto bene!), rappresentano una tappa dell’evoluzione di fondamentale importanza: troppa per essere scansati per ribrezzo!

Tuttavia le tartarughe sembrano esenti da questa forma di antipatia, forse per due motivi: la lentezza dei loro movimenti e per la loro corazza, il carapace, che incuriosisce tutti.

Quando si parla di tartarughe, per forza di cose, le associamo al tempo: ne parliamo in termini di velocità ma anche nel senso dell' età. La tartaruga è lenta nei movimenti ma è anche lenta nella vita. Pensate che il più anziano animale oggi vivente (della specie Aldabrachelys gigantea hololissa) si stima abbia quasi 190 anni e si trova sull’isola di Sant’Elena, dove arrivò già (sempre una stima) cinquantenne nel 1882. In quell’anno a New York si inaugurava il primo tram tirato da cavalli, a Torino si pubblicava “Le mie prigioni” di Silvio Pellico. Alle Seychelles invece si schiudeva l’uovo da cui sarebbe fuoriuscito Jonathan, chiamato così senza un perché.

Oltre che all’Aldabra, al Bioparco sono presenti anche due giganteschi esemplari di tartarughe Centrochelys sulcata, di origine africana, arrivate a Roma negli anni novanta, una in seguito a un sequestro ed una da donazione dell’Acquario di Genova.

Per qualche motivo, a differenza di altri animali, all’Aldabra e alle due Sulcata, non sono stati dati dei nomi propri.

Come forse anche per voi, ciò che mi intriga di più delle tartarughe è la loro corazza, su cui gli studiosi ancora dibattono. Non si riesce a stabilire quando nel percorso evolutivo sia partito quel ramo di specie che ha sviluppato il carapace, trasformando un essere della fattezza di una lucertola in una lucertola blindata.

Non fraintendetemi! La tartaruga non è una lucertola infilata in un carapace, a mo' di paguro.

Le tartarughe sono rettili che hanno subìto modifiche anatomiche importanti per cui, pur appartenendo alla stessa classe di animali, sono molto diverse dai cugini.

Con analisi sofisticate realizzate grazie alla disposizione di strumenti una volta inimmaginabili, si è acceso un interessante dibattito sulle origini delle tartarughe. Qui si entra nella paleontologia.

Mi diverto molto a leggere studi di paleontologi per la naturalezza con cui attribuiscono date ipotetiche agli eventi. Quando, ad esempio, si parla del periodo Permiano si risale a 250-300 milioni di anni fa.

Spiattellando milioni di anni con tanta facilità, mi vengono in mente i versi della Genesi dove si narra di Arpacsad, che visse quattrocento tre anni o di Nacor, che morì, infante, a centodiciannove. Per noi non specialisti, dare un peso a un intervallo temporale di tale entità non può che essere uno sforzo di grande immaginazione (o fantasia).

In uno di questi studi si legge che forse (il dibattito è acceso) si è riusciti a trovare l’antenato delle tartarughe o comunque un loro parente prossimo. Si chiama Eunotosaurus africanus, un rettile (estinto) che presenta alcune caratteristiche che poi sono diventate tipiche delle tartarughe: pare infatti che abbia avuto una gabbia toracica semirigida.



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(ricostruzione di Eunotosaurus africanus,  foto da Wikipedia)

 

La ricerca non è per puro sfizio. L’enigma dell’origine del carapace è tutt’altro che risolto e spiegato.

E il problema non è di poco conto.

I rettili rappresentano un passaggio cruciale nell’evoluzione che ha portato poi allo sviluppo di numerose altre specie dagli uccelli ai mammiferi. Quando immaginiamo un rettile lo figuriamo come una lucertola, un serpente, una tartaruga oppure un coccodrillo. Proprio per questa varietà risulta difficile definire cosa fa di un animale un rettile, avendo ad esempio tutte queste specie abitudini diverse di diete, di movimenti o anche di dimensioni.

Depongono uova, hanno una pelle a scaglie o placche, non hanno peli o piume, respirano con polmoni.

Tutte caratteristiche che però non appartengono solo ai rettili.

Le tartarughe risalgono al periodo geologico del Triassico, un periodo compreso tra 200 e 250 milioni di anni fa.

Con loro non si sta parlando di un animale qualunque.

Innanzitutto gli zoologi suddividono le tartarughe per come ritraggono il collo nel loro guscio; un gruppo lo ritrae all’interno del carapace compiendo una curva a “S,” l’altro lo ritrae ripiegandolo su di un lato. Già da questi due raggruppamenti non si capisce se la meraviglia è la mobilità del collo o la presenza della loro corazza.

Su quale fu la specie poi da cui si iniziò a sviluppare la corazza, poi diventato carapace, si apre un mondo.

Serpenti e tartarughe sono entrambi Rettili. I primi però sono senza arti, mentre le seconde hanno arti e sono munite di corazza. Un alligatore è un altro rettile, con arti e ricoperto da placche ossee.

Se guardate lo scheletro di un serpente vedrete una lunga fila di vertebre e di costole: in sostanza una lunghissima gabbia toracica.


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(Scheletro di serpente)


Ora guardate lo scheletro dell’Heloderma suspectum o Mostro di Gila, una lucertola velenosa di circa 50 cm. tuttora presente nel Nord America.


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(Mostro di Gila,  foto di A. Laube)


Nei due scheletri noterete di sicuro qualche similitudine ma anche qualche significativa differenza.

Non solo nelle zampe ma anche nella coda. E all’evoluzione della colonna vertebrale necessariamente si è intrecciato lo sviluppo degli organi e delle strutture ossee.

Nel caso della tartaruga, la flessibilità della gabbia toracica, in seguito all’azione del sistema respiratorio, viene meno in quanto il carapace impedisce il movimento delle costole. Infatti, se guardate al suo interno, noterete che le costole sono letteralmente fuse con il carapace. La respirazione avviene quindi esercitata dal movimento di muscoli addominali contrapposti.       


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(Interno di un carapace. Notate la “fusione” delle costole e delle vertebre con la parte ossea del carapace.    Foto di Luigi Epomiceno) 


E’ difficile rendere l’idea di cosa tutto ciò possa volere dire da un punto di vista fisico. Immaginate di applicarvi addosso due scudi rigidi legati tra loro, uno sulla schiena e uno sull’addome, in modo simile alla tartaruga.

Molti nostri movimenti verrebbero impediti dalla rigidità degli scudi, costringendoci a farne altri. Così come il venire meno dell’elasticità della gabbia toracica o la flessibilità della colonna vertebrale impone agli organi interni di trovare altri modi per funzionare.

Ecco come, milioni di anni fa, è apparso sulla Terra un animale con carapace (la parte superiore) e piastrone (quella inferiore) e come l’evoluzione ha portato a nuove specie.

E che dire delle modificazioni significative della colonna vertebrale? Da un lato la coda si accorcia ma dall’altra, a causa della presenza del carapace, si allunga la parte cervicale con l’aggiunta di più vertebre. E’ come se la presenza del carapace abbia “costretto” l’allungamento del collo per consentire flessibilità nel movimento e la fuoriuscita della testa.

Immaginate gli effetti sulla possibilità di nutrirsi o difendersi?

Il miracolo e il mistero dell’evoluzione.

Come sapete ci sono tartarughe sia terrestri che marine. Non vi è certezza sull’origine marina o terrestre del gruppo. Lo studio delle falangi sembra attribuire maggiore probabilità che si sia sviluppata sulla terra e che la capacità di sopravvivenza in zone paludose abbia poi favorito un adattamento marino.

Sebbene sia impossibile datare con esattezza l’arrivo, modificazione o estinzione delle specie, i paleontologi stimano che i passaggi evolutivi che hanno portato alla presenza delle tartarughe sulla Terra siano avvenuti attorno a 220 milioni di anni fa. (Che volete che siano!)

Come vedete il cammino evolutivo di questo fossile vivente è partito molto tempo fa ed è davvero il caso di dire che chi va piano va lontano.



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Il periodo estivo ci regala sovente belle notizie riguardanti la schiusa di uova di tartarughe Caretta caretta e la corsa frenetica degli esemplari appena nati verso l’acqua.

Se confrontate la forma del carapace delle tartarughe marine con quelle terrestri noterete una grande differenza. Le tartarughe marine hanno una forma più “slanciata” e quindi più idrodinamica per consentire loro meno resistenza all’acqua, frutto anche questo di modificazioni evolutive costrette dall’ambiente. Ovviamente fattori ambientali hanno portato alla modifica anche della forma delle zampe, del colore e quant’altro.

Le tartarughe marine inoltre hanno particolarità tanto affascinanti quanto misteriose. Tutt’oggi non si conosce cosa guidi, dopo la schiusa in riva al mare, le piccole tartarughe nelle acque profonde dove si nascondono e si nutrono finché non raggiungono le dimensioni sufficienti per non essere predate con facilità; né si conosce il meccanismo per cui ritornano, da grandi, alla stessa località dove sono nate per deporre nuove uova.

Come potete immaginare, l’uomo è riuscito ad accanirsi anche su questa meraviglia della natura. Sin dall’antichità, il carapace è stato usato in vario modo sia per le caratteristiche di durezza che di bellezza.


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Anche per questa specie incombe un rischio esistenziale sottile.

E’ noto che per i rettili la temperatura di incubazione delle uova influenza la determinazione del sesso del nascituro: ovvero la proporzione tra maschi e femmine. Pertanto, se da un lato, in modo artificiale con l’intervento umano, si può favorire piani di conservazione, dall’altro gli effetti del riscaldamento globale possono avere effetti distruttivi sulla sopravvivenza delle circa 300 diverse specie di tartarughe. Il sovrannumero di un sesso sull’altro creerebbe squilibri tali che nel lungo periodo porterebbero alla scomparsa di uno dei sessi e, di conseguenza, della specie stessa.

Questa è una delle ipotesi che potrebbe aver portato all’estinzione dei dinosauri (anche essi rettili) sulla Terra.

Il riscaldamento globale trascina con sé tanti altri rischi per l’ambiente, che ben conosciamo. Modifica gli equilibri della flora e della fauna, favorendo alcune specie su altre con conseguenze sugli habitat in cui per millenni (ovvero migliaia di millenni) i nostri amici corazzati hanno vissuto.

Se è vero che la tartaruga, una dei pochi fossili viventi ancora presenti sulla Terra, è riuscita a superare ciò che ha portato all’estinzione dei dinosauri, non è detto che riesca a sopravvivere in un mondo antropocentrico. 

Ogni tanto mi capita di prendere in mano quel plettro che il liutaio mi regalò.

Una scheggia di un percorso evolutivo di milioni di anni.



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*LUIGI EPOMICENO (Nato nel 1957. Sono mezzo americano e mezzo italiano, pugliese di origine, forse greco di stirpe, romano di adozione, con soste prolungate a Firenze, Milano, Genova, Chicago e Londra e continue a Parigi, Marsiglia, Madrid, New York, Amsterdam, Eindhoven, Dusseldorf, Monaco di Baviera, Praga, Amburgo, Bruxelles e Lisbona. Ho girato tutta la Grecia, l’Albania, la Francia, la Spagna, la Turchia e gli USA e ho messo piede in tanti altri posti che neanche ricordo, da Seul a Iguazù, dal Canada al Marocco passando per le isole Lofoten. Ora sono in un altro mondo. Un mondo nel Mondo. Da quasi un anno e mezzo sono il Direttore Generale del Bioparco di Roma. Prima ho fatto tante altre cose. Alcune divertenti, altre meno)


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