Un tuffatore e tre narratori, il giallo eterno di un affresco

di MATTEO COSENZA*

Atticus? Bute? Spina? Ma chi è l’autore di questo libro in cui si racconta di un giovane, Bute, che aveva rivaleggiato con Poseidonio quando, complice Eros, gli sottrasse Thalàssia, “occhi azzurri come il nostro mare”, e gli procurò una ferita inguaribile che solo il mare riusciva a mitigare e che Thanatos chiuse per alcune migliaia di anni in una tomba? La Tomba che divenne per sempre quella del Tuffatore nel 1968, quando Mario Napoli la portò alla luce. Atticus pochi anni dopo scriveva corsivi per la “Voce della Campania”. Così si firmava, per scelta di vita, Gigi Spina. E ora, con una diacultura, che comprenderete quando leggerete il suo libro, è diventato l’io narrante Bute-Spina e, sottinteso, Atticus, per portarci con lui nel “cinema” di Calvino a vedere un sorprendente “film della mente” che potrebbe anche intitolarsi “Inchiesta di un poliziotto della cultura” e che potrebbe iniziare con la frase: «A noi, agli antichi, tuffo faceva venire in mente salto, il salto nel vuoto per incontrare la morte».

Scusatemi. Ho una confusione in testa dopo avere letto questo libro di Gigi Spina, piccolissimo solo per numero di pagine, “Il segreto del Tuffatore - Vita e morte nell’antica Paestum”, Liguori editore. Cerco di mettere un po’ d’ordine tra i due libri contenuti in così poco spazio: il racconto vivo e palpitante, con scrittura precisa come si conviene a un filologo classico dagli orizzonti sterminati, e un’appendice ragionata che è di fatto un altro libro e che dà l’dea di quale patrimonio culturale l’autore abbia potuto avvalersi.

In queste pagine si respira a pieni polmoni, soffio leggero e penetrante, l’aura della Magna Grecia cara a una comunità che vive per caso, per scelta, per vocazione in quel territorio salernitano. Lo capisco anche dalla dedica anonima nella premessa quando l’autore scrive che “una cara amica” gli ha chiesto di scrivere. Mi metto sulla sua lunghezza d’onda e come lui scoprirà il segreto del Tuffatore così io mi consolo svelandone uno più piccolo, dicendo che potrebbe essere Luisa Cavaliere, intellettuale e giornalista di lungo corso, che anima da anni “entusiasmanti imprese di diffusione della cultura”.

Dunque, il giallo. Che nasconde quella tomba che sta a Paestum come i Bronzi stanno a Riace? Anche questi ultimi, egregio commissario, meriterebbero un’inchiesta per capire innanzitutto come siano finiti – non dovrebbe essere un caso – in quello scrigno di civiltà che è lo Ionio. Si parte da Bute, l’io narrante, che è, e non poteva essere diversamente, figlio di un grande pittore che volle dargli il nome del mitico figlio di Teleonte. Questo Bute, che era venuto ad Elea, insomma Velia, dall’Attica (e ti pareva!), aveva abbandonato i remi e si era gettato in mare dalla nave degli Argonauti per raggiungere le Sirene e partecipare al loro canto, diversamente da Ulisse che, con i marinai assordati dalla cera ficcata nelle orecchie, si era fatto legare all’albero maestro solo per ascoltarlo, il canto delle Sirene.

Ve la faccio breve, anche se la tentazione di raccontare tutto il libro è forte, per confermarvi che Gigi-Bute-Atticus racconta la sua storia di amore, prima negato, poi conquistato e sottratto all’amico, il futuro Tuffatore, che sarà tale per un’invenzione narrativa (e se poi fosse la verità?).

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Poseidonio, si è detto, soffrì molto per questa perdita e il pensiero di Thalàssia riempiva le sue giornate e le sue notti. Il suicidio sembrò l’unica medicina per guarire dal mal d’amore. Il doloroso rimorso degli amici, soprattutto di Bute, faceva da sottofondo alla preoccupazione dei genitori che la memoria del figlio potesse in qualche modo essere danneggiata. Occorreva una catarsi post mortem, meglio, per stare al passo di Spina, un’espiazione di letteraria memoria: dipingere nella tomba una scena di simposio con tutti i suoi amici. Che è quella raffigurata nelle quattro lastre laterali, la cui bellezza fissa un mondo e una cultura, il gioco, l’amore omosessuale, l’alito di raffinatezza di Sibari che è appena sull’altro mare.

Mancava il dipinto più importante, la lastra superiore, quella che doveva onorare il defunto. Bute approfittò del legame familiare per dare l’idea al pittore, che ovviamente era suo padre, ma non gli rivelò il motivo del suicidio, vale a dire la propria responsabilità, “il tradimento, la cattiveria”: «Padre, Maestro, ci ho pensato a lungo, vorrei che il nostro amico Poseidonio, il migliore di noi, avesse da te qualcosa di più che un simposio. Lo so, tu vuoi che rimanga sempre avvolto dal calore del vino, dei discorsi e dei giochi degli amici. Ma la sua passione era il mare: tuffarsi per trasformarsi nell’altro elemento. Se potesse continuare a tuffarsi, immortalato nella posa più elegante che un tuffatore può assumere, sospeso fra un trampolino e l’acqua, con i muscoli tesi e lo sguardo assorto, e se il mare nel quale si tuffa sovrastasse la terra che lo ricopre, quasi un rovesciamento contro natura, penso che potremmo ricordarlo per sempre nel gesto che lui faceva meglio di tutti noi, come il dio del mare che portava nel nome».

Come le tombe dei faraoni, quel tuffo diventerà patrimonio della cultura universale, ma lo sarà non per una manifestazione sfacciata di potenza e di sfida, bensì di modernità e leggerezza. Spina ci gira attorno e lo ispeziona amorevolmente con richiami al cinema, una passione di cui vuole contagiarci, anche con immagini come quelle del tuffo di Vittorio Gassman in “C’eravamo tanto amati” di Scola, quando i suoi vecchi compagni, irriducibili comunisti, lo scoprono ricco, agiato e insoddisfatto. Nell’attimo in cui si lancia nel vuoto, non si sa se per volare o per affondare, di fatto suggella un fallimento che l’autore lascia intravedere come quello di una generazione sospesa tra un passato eroico, un presente deludente e un domani incerto.

Restano il giallo e il suo segreto, che, per restare al cinema, mi hanno fatto pensare a Montalbano, un commissario a me caro, e spero anche a Spina. Le sue indagini sono poliziesche come si conviene al suo mestiere, ma in lui c’è dell’altro, sicuramente una visione dell’uomo e della vita non manichea, non rigida, non imbalsamata. Montalbano tende alla verità, talvolta anche forzando la legge, ma soprattutto cerca il senso delle cose e il motivo profondo dei comportamenti umani, Spina, con un’invenzione geniale, punta al verosimile e lo fa attraverso una strada, arata nel corso di una vita, che lo conduce all’essenza di un capolavoro d’arte e di cultura. E d’ora in poi noi vedremo il Tuffatore con occhi nuovi, con uno sguardo lungo che dal passato antichissimo ci porterà, se il mondo non impazzisce, ancora molto lontano


*MATTEO COSENZA (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)

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