Trump, dal Messico al Cile il sollievo e l'ironia

di GIORGIO OLDRINI*

Non era il titolo principale sui giornali latinoamericani quello sull’assalto a Capitol Hill la mattina dopo, ma il dramma inarrestabile del covid e le misure che inutilmente sembrano adottare i governi del subcontinente, a monopolizzare l’attenzione di quotidiani e lettori. Alla pandemia spettano titoli principali e articoli in tutta l’America latina. Gli Stati Uniti vengono dopo, a volte nemmeno nella prima pagina.

Il Presidente del grande vicino del sud, il Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, ha manifestato grande prudenza. Lamenta la “perdita di vite umane", dice "abbiamo sempre pensato, in politica interna e in politica estera, che i conflitti si devono risolvere con il dialogo e per via pacifica". "Ma noi non interveniamo negli affari interni di un altro Paese - specifica - e questo lo stabilisce la Costituzione messicana”. Una prudente lezione al grande vicino del Nord che con Trump ha causato mille problemi a Lopez Obrador, a cominciare dalla costruzione del muro al confine che ha ammassato nel nord del Messico migliaia di profughi nella vana attesa di entrare negli Usa. Le ingerenze statunitensi nella vita messicana sono state antiche, se un vecchio presidente come Porfirio Diaz coniò uno slogan che viene ancora spesso ripetuto “Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”.

Se Amlo, come viene chiamato il Presidente messicano, si è limitato a una stoccata per intenditori, La Jornada, il quotidiano di sinistra della capitale, si è concesso qualche ironia più esplicita. Parla di autogolpe di Trump, finito per ora in nulla. E spiega: “Quando in America Latina, dove gli Stati Uniti hanno appoggiato infiniti golpe, ci si domandava perché non ci sono mai golpe nel Paese del Nord, la risposta è sempre stata la stessa: perché a Washington non c’è un’ambasciata statunitense. Ora l’occupazione del Campidoglio ha emozionato il Paese e il mondo intero. E ha proposto una domanda inedita: sarebbe possibile oggi un golpe anche a Washington?”capitol-32309_1280png

Il fondo del giornale messicano finiva con una seconda domanda: “Con quale morale gli Stati Uniti potranno ora mettere in discussione la democrazia in qualsiasi altro Paese del mondo?”

Il primo Paese interessato a quel che succede negli Usa oggi è probabilmente il Venezuela. Il caso ha voluto che proprio martedì si sia insediato a Caracas il nuovo Parlamento eletto nelle scorse settimane. Il Paese vive da anni una situazione complessa, con un Presidente, Nicolàs Maduro, succeduto a Hugo Chavez, che nel 2015 aveva perso le elezioni per la Camera, ma che poi nel 2018 aveva vinto quelle presidenziali. Così gli Stati Uniti e l’Unione europea avevano accettato di riconoscere come Presidente il leader del Congresso Juan Guaidò e le interferenze, soprattutto di Trump, a favore di quest’ultimo sono state molto violente. Agli inizi di dicembre si è votato per il nuovo Parlamento e Guaidò si è rifiutato di partecipare alle elezioni, mentre una parte della opposizione a Maduro ha scelto invece di prendere parte alle votazioni. Risultato, i chavisti hanno vinto nettamente, ma la partecipazione al voto è stata solo del 30 per cento dell’elettorato.

Ora Guaidò non è più Presidente del Parlamento, quindi è difficile continuare a riconoscerlo come Presidente della Repubblica e il campo sembra libero per Maduro. Per adesso i giudizi su quel che succede a Washington solo solo il silenzio, Ma non c’è dubbio che vale qui la domanda de La Jornada: come potranno ora gli Usa parlare di democrazia? Tanto più che l’insediamento del Parlamento a Caracas è stato tranquillo. Nessun vichingo si è seduto sul seggio del Presidente della Camera.

Forse l’analisi più irriverente è stata quella di El Mostrador, cileno, il più antico giornale on line dell’America Latina. Il fondo di José Gabriel Palma si intitolava esplicitamente “Benvenuti nel Terzo Mondo”. In particolare ricordava che nei decenni scorsi i teorici neoliberisti avevano affermato che l’aumento della ricchezza prodotta dalla globalizzazione avrebbe portato ad un avvicinamento successivo e alla fine alla saldatura della breccia tra Paesi sviluppati e del Terzo mondo. “Effettivamente si è generato un grande processo di convergenza tra il Nord e il Sud del mondo. Ma al contrario. I nostri Paesi non si sono americanizzati o europeizzati. Ma quelli sviluppati si sono latinoamericanizzati. E questo è avvenuto tanto nella forma del funzionamento delle loro economie, delle istituzioni e nell’ampliarsi delle diseguaglianze”. I fatti di Washington sono appunto una prova della latinoamericanizzazione degli Usa.

Infine un salto al nord, a Miami, dove El Nuevo Herald è il quotidiano per i latinoamericani che vivono in Florida e non solo. Un giornale di frontiera, conservatore come si conviene ad un giornale che parla agli antichi esuli cubani e ai nuovi venezuelani, ma nello stesso tempo difensore d’ufficio dei diritti dei latinoamericani. Nell’articolo di un suo collaboratore ha fatto un paragone tra lo schieramento di polizia e l’aggressività degli agenti durante le proteste dei Black Lives Matter e quella dell’altro ieri. “La grande differenza tra questi due episodi? Nel primo erano protagoniste persone di razza nera o loro simpatizzanti. Il secondo era composto quasi esclusivamente da bianchi che appoggiano le denunce senza fondamento di Trump”.

Un parere coraggioso in un giornale che parla a molti degli elettori di Trump in Florida.

 *GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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