Triora, comprare casa in Liguria nel paesino delle streghe

testo e foto di ROBERTO ORLANDO *

Appena finisce questo pandemonio della pandemia ti invito a Triora, il paese delle streghe, borgo medievale in provincia di Imperia, non lontano da Sanremo. E quand’è ora di pranzo ti offro un brandacujun e poi un minestrone con i bügaeli, oppure un piatto di sugeli al ragù di pecora. E c’è anche una sorpresa per te, dopo il caffè ovviamente. Ti regalo una casa, tanto costa come il caffè: un euro. Scherzo? No. Allora è una stregoneria, considerato il luogo? Nemmeno per sogno.

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E’ che il Comune propone un patto sui generis, un bando pubblico che almeno sulla carta potrebbe garantire una bella svolta per il paese: tu ti compri una casa del centro storico, la paghi simbolicamente un euro, ma in cambio la devi ristrutturare entro quattro anni. L’operazione ha ovviamente lo scopo di rimettere in sesto tutte le case malandate del borgo, che tra parentesi è considerato uno dei più belli d’Italia. Gli ex proprietari delle abitazioni in vendita non avevano i soldi per ristrutturarle e il Comune manco a dirlo... però agevola, semplifica le procedure fin dove può.

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L’obiettivo immediatamente successivo è quello di ridare impulso ai flussi turistici in un paese che nel tempo e con metodo è riuscito a trasformare il riscatto di un’antica tragedia in una risorsa economica oltre che culturale.

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Perché, sai, qui al tempo dell’Inquisizione e dell’Ignoranza non si andava tanto per il sottile. Se stavi antipatico a qualcuno e per giunta eri una donna dovevi sempre stare attenta a quello che facevi e che dicevi: ci voleva poco a diventare una strega, una bàgiua, come si dice qui in dialetto, e a finire sul cavalletto della tortura. Anzi, a volte bastava soltanto essere donne, non importa di quale ceto sociale: perché le accuse di stregoneria colpivano democraticamente tutte, anche se poi le discendenti di nobili lombi venivano rilasciate più facilmente delle concittadine meno titolate.

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Proprio così andò infatti nel periodo tra il 1587 e il 1590. In pratica, qualcuno tra i notabili del paese decise che la colpa della grave carestia che aveva colpito tutta la Valle Argentina fosse stata provocata dai rituali malvagi di una quarantina di donne (e di un uomo, lo stregone?) che si erano pure macchiate dell’orrendo delitto di infanticidio. Quasi tutte ree confesse, certo, ma dopo inenarrabili torture. Ad accusare le donne erano i rappresentanti delle autorità locali tra cui il podestà Stefano Carrega, emanazione diretta della Repubblica di Genova che riteneva Triora luogo altamente strategico, tanto da difenderlo con cinque fortezze (di una di queste ci sono ancora i resti). E poi la zona era il granaio della Liguria. Ora, è vero che nessuna delle presunte bàgiue finì sul rogo, anche se la condanna per alcune fu emessa e annullata solo in seguito, ma nel corso del lungo processo una di loro morì per le terribili violenze subite, un’altra perse la vita dopo un volo dalla finestra, probabilmente nel tentativo di sfuggire ai suoi carnefici, e cinque morirono di stenti.

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La tortura era un test: chi sopravviveva alle brutalità del boia non era una strega e le altre a giudizio. Semplice, tragico. Almeno finché il Consiglio degli Anziani si rese conto che la situazione sarebbe sfuggita rapidamente di mano a tutti e decise di rivolgersi al doge per porre fine alla persecuzione. Iniziativa che peggiorò le cose, perché Genova inviò un funzionario troppo zelante il quale addirittura estese la caccia alle bàgiue in tutto il comprensorio, Sanremo e Porto Maurizio incluse.

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Il caso esplode, le donne sotto accusa diventano duecento, intervengono vescovi e cardinali, una ragazza di tredici anni viene rilasciata, il doge rimpiazza il funzionario troppo zelante, ma la sostanza non cambia: altre due donne sono condannate a morte. La Repubblica allora fa trasferire le accusate nella torre Grimaldina di palazzo Ducale, a Genova, e manda gli atti dei processi a Roma. E’ il cardinale Giulio Santoro, segretario del Sant’Uffizio, a chiudere la vicenda a favore delle “streghe” che nel frattempo avevano ritrattato le confessioni rilasciate sotto tortura: i giudici locali vengono ritenuti responsabili di atti di “inumanità et crudeltà” e il processo per alcune si conclude con condanne molto lievi. Sul destino delle altre si sa decisamente poco, ma gli storici sono orientati a credere che siano state tutte rimesse in libertà.

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In compenso alcune delle “streghe” diventano leggenda e ne troverai tracce, anche stravaganti, in paese, ma soprattutto nel web.

Ma adesso, visto che sei venuto fin quassù a 800 metri sul livello del mare, attratto da un incantesimo, tanto vale che visiti il borgo. In auto non si entra, ovviamente, si va a piedi lungo vicoli ripidi che molto spesso finiscono per perdersi nei boschi, verso la montagna. Montagna vera. Subito qui dietro il monte Saccarello sale fino a 2.200 metri di quota: è la più alta vetta della regione. Alpi vere, di nome e di fatto, e con tanto di parco protetto a cavallo tra Piemonte e Liguria.

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Certo, le streghe son tornate e c’è persino il Museo Etnostorico della Stregoneria, all’inizio del borgo: artigianato, costumi e tradizioni raccolti e raccontati negli ambienti che furono tra l’altro le prigioni delle bàgiue. E poi i ristoranti hanno nomi magici e la strega con la scopa è il souvenir più diffuso, seguito a ruota da civette di tutte le dimensioni. C’è persino un filone artistico, con tanto di atelier dedicati, che prende le mosse da storie e leggende locali per dare origine, ad esempio, a dipinti di un certo pregio che si vedono anche sulle porticine delle case del borgo o sugli sportelli dei contatori di luce e gas. Poi se sali alla Cabotina, che è il punto più alto del paese - proprio dove le streghe vivevano in gran numero e dove celebravano i loro riti - si può godere di un panorama tutt’altro che infernale. Anzi, si può dire che da quassù si può disegnare la mappa per l’esplorazione dei dintorni che sono vastissimi - a dispetto dell’esiguo numero di abitanti, circa 200 - e con ambienti molto diversi tra loro. Anche culturalmente: a Triora c’è una chiesetta del Quattrocento (intitolata al predicatore francescano San Bernardino da Siena, al quale si deve la diffusione del simbolo IHS, abbrevazione del nome di Cristo) che sembra una cattedrale in miniatura, tutta affrescata, con i contrafforti ad arco che si appoggiano alla collina; per contro nella minuscola, pure questa, frazione di Loreto c’è uno dei ponti più alti d’Europa, la cui campata di 119 metri scavalca la valle a 112 metri di altezza.

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Ma poi la chiesa di Sant’Agostino ha una Madonna della Misericordia di forgia ottocentesca che - a proposito di piaghe d’Egitto dopo la succitata carestia cinquecentesca “provocata” dalle bàgiue - viene portata in processione una volta l’anno nel rispetto di un vecchio voto contro l’invasione di cavallette, poi debellate dalla Vergine. E nella chiesa della Collegiata c’è un Battesimo di Cristo, opera di Taddeo di Bartolo, che risale al 1397, e infine ti segnalo l’oratorio secentesco di San Giovanni Battista, tanto per restare in tema.

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Ora però devo convincerti ad accettare la casa da ristrutturare che vorrei darti in dono. Allora ti racconto che magari era abitata da una strega oppure era stata requisita dall’Inquisizione e trasformata in una prigione per bàgiue. Oppure, più realisticamente, ti dico che la ristrutturazione potrebbe essere un modo per salvaguardare un pezzetto della nostra storia prima che un diavolo ci metta la coda. E tu passeresti qualche vacanza in un angolo di paradiso.


*ROBERTO ORLANDO (Nato a Genova in agosto, giornalista professionista dal 1983. Ultimo capocronista del Lavoro. Dopo uno scombinato tour postrisorgimentale che lo conduce in molte redazioni di Repubblica è rientrato tra i moli della Lanterna. Viaggia, fotografa e scrive. Meno di quanto vorrebbe)

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