Shiwa Ng’andu, un castello nell’Africa di Livingstone / 2

di ANNAMARIA PASSARO*

Ma torniamo al nostro arrivo a Shiwa Ng’andu. È una notte “buia e tempestosa” quella in cui giungiamo al castello provenendo dal lago Tanganika. Abbiamo solo il tempo di scaricare le valige e di ripararci, ma tra un fulmine e l’altro la sensazione di trovarci in un posto fuori dall’ordinario è “lampante”. Ciò che i fulmini riescono a illuminare, del viale di accesso e dell’ingresso laterale alla proprietà, è semplicemente grandioso.

La nostra stanza da letto si trova in cima a tre rampe di solide scale di legno, in stile “via col vento”. Dopo esserci rinfrescati, scendiamo al piano terreno in cerca della sala da pranzo, ma nonostante le dettagliate indicazioni ci perdiamo nei meandri del castello. È tutto molto buio, con rare lampade a muro che diffondono la luce in tetri corridoi. I giovani padroni di casa, Jo e Charles, vi abitano con la figlioletta. Jo è il boss che dirige la casa. Charles si occupa della tenuta. È il silenzioso e ruvido nipote di Sir Stewart, figlio di Lorna “la terza” e del marito John Harvey. Nei giorni successivi scoprirò la sua storia e l’origine della sua ruvidità.

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Trovata finalmente la sala da pranzo, ci sediamo al grande tavolo con i padroni di casa e con il console inglese in Zambia, giunto a Shiwa Ng’andu con moglie e due figli adottivi per inaugurare una delle tante iniziative sociali che il governo inglese contribuisce a finanziare. Cena sopraffina, composta di vari piatti cucinati con i prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento locali.

Ogni angolo e ogni stanza del castello nasconde una sorpresa. In uno dei mille bagni al piano terreno, vicino all’asciugamani, fa bella mostra di sé una fila di denti di leone perfettamente allineati. Constatato il mio stupore e il mio interesse, Jo mi dice: “Te li regalo. Ne abbiamo tanti, sai... Una volta questa era una riserva di caccia, ma non lo è più da anni...”

 Dopo cena un cameriere ci accompagna in un antro a conoscere la mascotte della casa: una deliziosa civettina, cresciuta in cattività. Quando ci invita a seguirlo non capisco che, dopo aver servito la cena a noi, ora gli tocca servire la cena anche a lei: un topino vivo che la civettina dovrà riuscire a catturare, prima di mangiarselo...

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 Spunta l’alba, ed è tornato il bel tempo. Esco dal portone principale, e mi ritrovo nel cuore della Toscana: davanti a me un viale di cipressi e un giardino all’italiana, e alle spalle un castello in stile anglo-fiorentino, con mura di mattoni a vista e arcate in stile rinascimentale.

 Tre cani seguono il padrone ovunque, e gli obbediscono ciecamente: un simpaticissimo Jack Russell di nome Stompie, e due enormi molossi sudafricani, Tiger e Chipy (forse derivazione dal soprannome Chipembere dato dalle popolazioni locali al fondatore della casa).

 Charles ci conduce a visitare la tenuta, mostrandoci gli allevamenti e parlandoci del suo progetto di reintroduzione della fauna selvatica originaria, impresa nella quale sta investendo enormi energie e cifre astronomiche (rimaniamo a bocca aperta nell’apprendere quanto può venire a costare una dozzina di eland, una delle più grandi antilopi dell’Africa australe). Ci racconta delle ciucche omeriche di molti visitatori, che con la scusa di ammirare il lago spesso gli chiedono di imbandire pantagruelici picnic sulle sue rive. Sulle quali lui si reca invece quando sente il bisogno di meditare e fare piani per il futuro, o quando vuole recuperare il buon umore, dopo essersi alterato per uno dei molti inconvenienti che inevitabilmente si presentano nella gestione di una tenuta di quelle dimensioni, nel bel mezzo del nulla.

 Mentre ci accompagna, ci racconta la storia di Shiwa Ng’andu dopo la morte del nonno.  La gestione della proprietà era passata in mano alla figlia maggiore (Lorna “la terza”) e al marito John, che avevano trasformato il sito in una riserva per cacciatori danarosi. Avevano avuto quattro figli, cresciuti nel castello, il maggiore dei quali era lo stesso Charles, in perenne conflitto con il padre sulla gestione della proprietà. Charles voleva cambiarne il business model e riportarla ai fasti di un tempo, abolendo la caccia. Per tutta risposta, il padre lo aveva diseredato. Per molti anni Charles era andato a vivere altrove, diventando allevatore di successo in una fattoria nei pressi di Lusaka, la capitale del paese.

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 Nel 1991 Lorna e John vennero assassinati mentre si trovavano in casa (dicono da esuli del ANC, African National Congress, anche se l’ANC ha sempre condannato il gesto).

 Lavorando incessantemente per anni, Charles si era molto indurito d’animo, ma si era anche arricchito con la sua attività di allevatore. Venduta la fattoria a Lusaka, con il ricavato era riuscito a rilevare dai fratelli la proprietà della tenuta di Shiwa Ng’andu, che per una pessima gestione stava cadendo in rovina, e ora stava finalmente dando corpo al suo progetto di restaurazione dell’ambiente naturale di un tempo.

 Il giorno successivo, durante una gita a cavallo, Charles ci porta su un’altura a visitare le tombe dei genitori e del nonno, situate in un punto panoramico affacciato sul lago. Non potrò mai dimenticare l’impressione provata alla vista di quelle lapidi: improvvisamente mi scorre davanti agli occhi il film della vita del vecchio Sir Stewart, di Lorna e di John, che avevano dedicato tanti anni della loro esistenza a quel luogo.

 Lungo la via del ritorno, senza preavviso Charles lancia i cavalli in un galoppo sfrenato. Lo imploro di rallentare, ma lui fa finta di non capire, e si mette a ridere come un pazzo. Mi chiama nasty girl, ma è del tutto evidente che gli sono simpatica.

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 Rientrati al castello, dopo essermi accertata di essere ancora sostanzialmente integra, in attesa della cena mi rifugio nella grande stanza adibita a biblioteca, ricca di migliaia di volumi e di decine di annate di riviste (Sir Stewart era abbonato a periodici inglesi tipo Punch e a riviste francesi di cultura e di musica). Mi diverto a mettere un po’ di ordine: pur essendo persone di notevole cultura (Jo sta lavorando alla tesi di dottorato, che spera di poter discutere presto all’Università di Città del Capo), i padroni di casa non conoscono la lingua, e hanno ammucchiato le riviste francesi un po’ a casaccio.

 A distanza di quasi vent’anni da quella straordinaria esperienza mi resta un grande rimpianto: quello di non avere accettato l’offerta di Jo e Charles di tornare per qualche tempo a Shiwa Ng’andu per occuparmi della biblioteca, in cambio dela loro ospitalità, riordinandone e catalogandone il cospicuo materiale. L’ho trovato un segno di grande simpatia e stima da parte loro. Sarebbe stata per me un’occasione unica di vivere un autentico romanzo da “inquilina” in quel luogo paradisiaco.   E non è detto che prima o poi...

 (2 - fine)

leggi qui la prima puntata


*ANNAMARIA PASSARO (nata a Milano nel 1955 da famiglia napoletana. Laureata in Filosofia, illustratrice. "Onirico ironica" è la definizione che amo e che mi diede l' amatissimo agente Marcelo Ravoni (Quipos) ) 


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