Scuole d'arte di Cuba, un sogno italiano rapito dalla giungla

di GIORGIO OLDRINI*

Arrivarci è come scoprire un sito archeologico in una sorta di giungla urbana, nel quartiere di Cubanacan, nella parte più occidentale dell’Avana. L’archeologia di un sogno. Gli edifici delle Scuole d’arte appaiono dopo avere superato la vegetazione tropicale che ancora avvolge questo che è stato l’ultimo lembo della capitale che aveva cominciato ad essere urbanizzato prima della Rivoluzione, soprattutto dagli statunitensi. Qui ci sono sparse bellissime ville, ora in gran parte trasformate in Case di protocollo, e c’era il Country Club con un immenso campo da golf.

L’Avana è nata attorno al grande porto naturale, magnifico con il suo ingresso stretto e profondo e quindi facilmente difendibile, che poi si allarga a dismisura, come una enorme foglia di platano. Nei secoli la città aveva continuato ad espandersi verso ovest, prima Centro Habana, poi il Vedado, quindi, superando il fiume Almendares sotto il quale adesso si passa con un tunnel, Miramar con la 5 Avenida, le residenze dei diplomatici, l’orrenda ed ingombrante ambasciata russa (“la torre di controllo” la chiamano i cubani) e finalmente risalendo verso la collina, a sinistra, Cubanacan. 

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Percorrere quella strada è come passare da un centro urbanizzato via via a un verde sempre più rigoglioso. La 5 Avenida con il suo cammino centrale di aiuole, piante, fiori è accompagnata ai lati da alcuni giardini nei quali cresce l’albero del Jaguey, con i rami che diventano radici, o forse radici che diventano rami. Per arrivare alla fine alla foresta di Cubanacan, l’alternativa è percorrere per un lungo tratto la 7 Avenida, più stretta e accompagnata dagli alberi di ibiscus che a tratti formano come un tunnel. “Guarda che meraviglia” avevo detto al mio meccanico Felix un giorno che passavo con lui dalla 7 Avenida. “Non mi piace – aveva ribattuto lui – poi i fiori cadono e sporcano la strada”. “A te, Felix, manca la poesia” gli avevo ribattuto.

A Cubanacan mi aveva portato la prima volta Roberto Gottardi, uno degli architetti che all’inizio della Rivoluzione erano corsi a Cuba per vivere una esperienza nuova e straordinaria. Erano arrivati con lui Vittorio Garatti, Sergio Baroni e da Buenos Aires l’italo argentino Roberto Segre. Gottardi era rimasto a Cuba, innamorato della bellissima moglie ballerina, affascinante come il suo nome, Luz Marina, e del suo lavoro. Un giorno mi aveva portato a vedere le Scuole d’Arte che all’inizio della Rivoluzione aveva progettato insieme al cubano Ricardo Porro e a Garatti. Gottardi aveva disegnato quella di teatro, Garatti quelle di Balletto e di musica, Porro quella di Arti plastiche. Per farlo avevano prima di tutto conquistato il grande spazio del Country Club, sottraendolo ai ricchi statunitensi e cubani. Un simbolo anche questo. Poi avevano occupato uno spazio condiviso con la foresta, su e giù per una serie di collinette con ai lati, proprio dalla parte della Scuola di teatro di Gottardi, il fiume Quibù.

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Vittorio Garatti aveva spiegato:  ”Le scuole sono impregnate delle emozioni e dello spirito della Rivoluzione. Dove si condensa la Rivoluzione? Nelle emozioni che uno ha verso un fatto, nel fatto che la mente è eccitata da quello che succede. Il contesto era Cuba, la sua cultura, i suoi artisti, i suoi scrittori e poi c’era il tema, nel mio caso quello di progettare una scuola per il balletto e per la musica”. E Porro sottolineava: “L’architettura è una cornice poetica alla vita dell’uomo”.

Quella progettazione avvenne con una sorta di rito collettivo, perché accanto e insieme agli architetti parteciparono con un confronto unico Fidel Castro e Che Guevara, scrittori e pittori, musicisti e chiunque avesse qualcosa da dire. Una sorta di assemblea aperta che inseguiva il sogno di realizzare un centro per l’insegnamento e lo sviluppo delle arti aperto a tutti, senza più distinzioni di censo, di sesso o di razza, persino capace di ospitare studenti e docenti di altri Paesi latinoamericani o del mondo. Tanto che due dei progettisti erano italiani, ma rivoluzionari.

L’utopia si vede ancora adesso già a partire dai materiali utilizzati, piccole mattonelle ormai introvabili, soprattutto con un Paese come Cuba povero. E lo si comprende bene dai pezzi caduti o mancanti.

Gottardi mi raccontava delle difficoltà che presto aveva dovuto superare per trovare i materiali, quando già il blocco economico statunitense aveva cominciato a stringere Cuba.

Grandi corridoi sinuosi, capaci di fare circolare liberamente le persone e l’aria, essenziali in un clima tropicale. Linee curve che non frappongono ostacoli, piazze e piazzette che si aprono improvvise, un piccolo canale d’acqua ed una sorta di fontana cisterna a forma di conchiglia, ma che per molti ricorda il sesso femminile, vetrate e finestre che permettono alla luce di entrare insieme alla natura rigogliosa.

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Poi negli anni le scuole sono state abbandonate, anche se hanno continuato a operare in parte. E’ stato costruito un pensionato studentesco, ma in un orrendo prefabbricato jugoslavo, e mi affascinava tornare lì a vedere dalla parte della scuola di Garatti gli studenti di musica che si esercitavano nel prato o ai margini della strada.

La natura ha ripreso il sopravvento e avvolto il tutto in bosco e sottobosco tropicali. Gottardi ha mosso mari e monti, anche università e istituzioni italiane per avere un aiuto indispensabile per riattivare le scuole. Quando Matteo Renzi, allora Presidente del Consiglio, ha visitato Cuba, Roberto lo ha portato a vedere le sue scuole. Ha messo in moto molte energie, ma l’anno scorso è morto, prima di riuscire a vedere le sue creature tornare a realizzare il sogno di un altro mondo.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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