Scene da un matrimonio, a Alessandria d'Egitto

di BIANCA DI GIOVANNI*

Il giallo caldo come pane abbrustolito al fuoco e il blu profondo e  baluginante. Sono i due colori del mio matrimonio, quelli che mi sono rimasti dentro dopo decenni, che rivedo brillanti e nitidi  appena chiudo gli occhi e con la mente ritorno a quel giorno. Sarà questo il mal d’Africa – mi   ripeto spesso – sarà quella luce perduta, quel sole ostinato, fermo, senza scampo, che da noi in Europa impallidisce e si fa tenero.

La corniche di Alessandria d’Egitto ritaglia un arco allungato e poi si inoltra nell’acqua fino al promontorio della cittadella. Un torrione di sabbia e pietra affacciato sul Mediterraneo che a un europeo accende subito nell’immaginazione quel faro mitologico, andato distrutto e sommerso dalle acque. Un braccio sabbioso e desertico che si addentra nell’azzurro del mare. Questo vedevo dalle finestre del mio albergo; con uno sguardo inquadravo mare, terra e cielo, con la brezza marina che ingrossava le tende di lino e arieggiava tutta la stanza.

Il Windsor Palace era polveroso e decadente. Non aveva nulla del lusso contemporaneo: niente aria condizionata (in realtà non serviva), niente marmo in bagno, niente cassetta di sicurezza, niente tappeti o guide rosse. Eppure, era bellissimo. Dai corridoi si vedeva la corte interna, ombreggiata da palme e punteggiata di fichi d’india. Nella penombra l’aria fresca faceva svolazzare i lunghi tendaggi chiari e leggeri che così animavano gli androni squadrati. Le stanze si affacciavano tutte sul mare, con finestroni alti fino al soffitto, balconi con parapetti in ferro battuto che proseguivano anche nei bagni, tutti di un bianco quasi accecante. Freschi pavimenti piastrellati, semplici scrittoi in legno, copriletto in lino grezzo: tutto nella sobrietà assoluta e del vecchio stile coloniale. Il receptionist ci aveva informato, all’arrivo, che in una delle stanze aveva soggiornato Winston Churchill. E io, passeggiando tra la hall e i salottini interni, fantasticavo di incontrare, magari davanti all’ascensore, qualche ufficiale in divisa kaki dell’esercito britannico, in stivali e frustino.alessandria 1jpg(Foto Pixabay)

In realtà l’hotel era quasi deserto, e l’albergatore era molto contento di ospitare me, mio fratello appena arrivato da Roma e quello che sarebbe diventato mio marito. Era lui che aveva scelto il Windsor, alla maniera araba, che allora io mal sopportavo. Nessun ufficio turistico, nessuna informazione chiara, solo domande, accenni, telefonate a qualche amico, indicazioni di passanti, voci passate di bocca in bocca. Così mio marito raccoglieva le informazioni nel suo paese in cui anche lui si sentiva un estraneo, essendo nato e vissuto per molto tempo in Francia.

Avevamo raggiunto Alessandria dal Cairo in una mattina infuocata di luglio. Il giorno dopo avevamo appuntamento con l’interprete del consolato italiano, Marco Di Pasquale, per recarci poi al Comune a celebrare il matrimonio. Ma la giornata si preannunciava faticosa e stressante, come sempre quando si hanno impegni in un paese mediorientale. Era un venerdì, giorno di festa, e quando il treno entrò in stazione dai finestrini vedemmo due ali di pellegrini inginocchiati a terra per la preghiera di metà giornata. Era il segnale che tutto sarebbe stato rallentato. Io ero ansiosa di sistemarci al più presto e correre di filato al consolato (che seguiva le festività italiane) per far modificare un documento: bisognava cambiare il numero del mio passaporto sul nulla osta rilasciato dall’Italia, perché avevo dovuto rinnovarlo. Qualsiasi adempimento burocratico a quel tempo mi sembrava una sfida gigantesca: c’era sempre una virgola che poteva allungare i tempi in modo imprevedibile.

E non solo. C’erano traduzioni da fare (e da pagare), attestati, timbri, dichiarazioni giurate, certificati, atti notori: una sfilza di pratiche che l’Italia chiedeva e l’Egitto produceva a modo suo. Erano sei mesi che stavamo avanzando nelle sabbie mobili della doppia burocrazia. Alla miope meticolosità degli uffici si era aggiunta la foga allarmistica del consolato italiano, che imponeva ai suoi cittadini corsi terrificanti sugli svantaggi che si sarebbero incontrati sposando un egiziano: niente diritto di successione per le donne, e comunque diritti di serie B per cittadini non musulmani e stranieri, invito pressante a dichiarare la separazione dei beni al momento dell’atto matrimoniale, cosa che facemmo, senza sapere bene cosa significasse, pur di uscire dal vortice di documenti richiesti. L’Egitto, al contrario, non chiedeva nulla di più del nulla osta dell’Italia tradotto in arabo. Sembrava una bella notizia, ma a pensarci bene forse era il segno inconfondibile della subalternità di una donna straniera rispetto al marito egiziano.

Grazie a qualche conoscenza in Campidoglio ero riuscita ad accorciare i tempi di un paio di settimane, ma non di più. L’Italia pretendeva le pubblicazioni dell’annuncio del matrimonio per due domeniche presso il consolato di Alessandria: come se davvero qualcuno passando avesse potuto leggere il mio nome e magari segnalare, che so, che avevo già un marito. Ma tant’è: l’inutile procedura doveva essere identica all’Italia.  Ora finalmente eravamo al traguardo, mancava solo quella piccola, insignificante correzione, che la cancelliera di Alessandria doveva farci (conoscendoci già troppo bene, viste le innumerevoli volte che ci eravamo presentati lì), ma io tremavo all’idea di dover magari ricominciare tutto da capo.

alessandria stanley bridgejpg(Foto Pixabay)

Proprio per evitare di tornare nel labirinto della burocrazia, avevamo deciso di sposarci anche senza familiari né amici. La famiglia di mio marito aveva subito due gravi lutti a distanza di poche settimane, e la festa immaginata sul Nilo, la cena all’Hilton del Cairo, i vestiti, gli inviti, tutto era stato cancellato. Ma quel castello di carte che a fatica avevamo costruito rischiava di scadere a ogni settimana che passava. Se avessimo dovuto rispettare l’anno di lutto richiesto dagli usi egiziani, avremmo dovuto davvero ricominciare tutto. Allora decidemmo di sposarci e di rinviare all’anno dopo la festa. In realtà il primo festeggiamento arrivò solo 10 anni dopo, ma questa è un’altra storia.

Passai le prime due ore ad Alessandria sulle spine, per la caccia al tesoro di mio marito alla ricerca dell’albergo. Ci decidemmo per il Windsor anche per la vicinanza al consolato italiano, una bella villa circondata da un giardino rigoglioso, in piazza Sa’d Zaghlul, sul lungomare. Il sole picchiava ma ci precipitammo prima che chiudessero gli uffici. La cancelliera era infastidita da questa ennesima procedura da eseguire. Correzione in italiano, poi traduzione in arabo. Ci volle un po’, e si fecero sentire pure le lamentazioni degli impiegati (ma è ora di pranzo, torni domani, la solita solfa). Ma alla fine agguantammo il documento corretto. Salutammo Di Pasquale, l’interprete, che insistette ancora: mi raccomando, domani venite presto. Io continuavo a non capire come mai si dovesse arrivare presto, se si era decisa l’ora e il giorno del matrimonio. Se lo chiedevo a mio marito, lui svicolava, sorrideva, passava ad altro (come faceva spesso, quando si rendeva conto che c’erano cose che non si potevano spiegare). Allora anche stavolta dissi: ok, faremo presto.egypt-1289497_960_720castello Keitbeyjpg(Foto Pixabay)

Eravamo stravolti di stanchezza, mangiammo pochissimo e andammo a riposare. Nel tardo pomeriggio ci affacciamo al balcone e vedemmo mio fratello che si faceva largo tra la folla: era troppo curioso di visitare la città e così nonostante il caldo affrontò le strade di Alessandria, ma rischiò davvero un’insolazione. Con il fresco della sera andammo a cena in un locale tipico, a mangiare kofta e kebab, poi tornammo al Windsor.

La mattina dopo, appena sveglia, mi fermai a guardare la città e il mare dalla finestra. Fu lì che seppi che non avrei mai dimenticato quei colori e quella luce. Indossai il vestito che avevo scelto con attenzione, abbastanza leggero ma con spalle coperte come richiedevano gli usi locali, andai a fare colazione e finalmente ci avviammo verso il comune, ancora inconsapevoli di quello che ci aspettava.

Il municipio di Alessandria è un palazzone grigio del cui aspetto esterno non ricordo quasi nulla. Mi è rimasto impresso, invece, il caos brulicante che lo circondava e che proseguiva nella hall interna. Addossate alle pareti esterne c’erano delle tettoie in legno che ombreggiavano lunghe scrivanie occupate da decine di uomini che copiavano, chi a mano, chi a macchina, ogni tipo di documento. Sulle scrivanie arrivavano di continuo bicchieri di tè caldissimi, portati da ragazzini delle caffetterie vicine. Nella hall si moltiplicavano capannelli di gente che confabulava di tutto: uomini che litigavano per la compravendita di un bar, donne che urlavano e applaudivano perché magari la figlia di qualcuna si era laureata, impiegati che spiegavano procedure ai visitatori. Io riuscii a capire qualcosa solo con l’aiuto di Di Pasquale, in quella confusione ritmata e continua, come un’onda del mare, che si placò solo all’ora di pranzo.

mosque-5321231_960_720jpg(Foto Pixabay)

I testimoni (dovevano essere per forza egiziani perché l’autorità celebrante era egiziana) scelti da mio marito all’inizio erano suoi cugini, che erano stati colpiti dalla perdita del padre e quindi non potevano più venire. Così decise di chiedere aiuto a un suo collega che lavorava ad Alessandria, il quale gli assicurò che gli avrebbe mandato in comune due ragazzi che lavoravano per lui. Li trovammo ad aspettarci all’ingresso. Individuato l’ufficio per i matrimoni misti, finalmente capii perché era importante arrivare presto. Non c’era nessun appuntamento, nessun orario prestabilito: chiunque poteva arrivare e mettersi in fila per sposarsi. L’importante era che avesse tutti i documenti. Davanti a noi ricordo una cerimonia con la sposa americana, un’altra con la sposa dell’Africa subsahariana, con un vestito e una sorta di turbante dai colori brillanti, un omone alto e muscoloso che veniva dalla Libia e distribuiva mance a piene mani per ottenere subito i documenti. Consegnammo le nostre carte alla funzionaria, una donna velata seduta alla scrivania. Lei studiò il nulla osta del consolato italiano, tradotto da Di Pasquale. Poi passò ai documenti dei testimoni, e si accorse che uno dei due ancora non aveva compiuto 18 anni.

 Mancavano pochi giorni, non poteva accettarlo. Grandi discussioni in arabo, di cui non capii niente. A un certo punto vidi mio fratello e Di Pasquale che uscivano insieme, mentre mio marito continuava a discutere. All’esterno, oltre alle bancarelle degli “scriba” si erano aggiunte bancarelle di ambulanti. Mio fratello ne fermò uno e con l’aiuto di Di Pasquale chiese se era disposto, in cambio di una bella mancia, a farci da testimone. Lui accettò (anzi, non credeva ai suoi occhi quando vide la mancia) e entrò a depositare i documenti (non so come, ma il funzionario del consolato italiano che trascrisse il matrimonio più tardi capì dal nome che si trattava di un ambulante. Misteri mediorientali).

Sembrava tutto risolto, anche se io ero agitata, un po’ per il matrimonio, un po’ per queste sorprese dell’ultimo minuto. Comunque a quel punto non ci restava che attendere la fila. Sicuramente non ci annoiammo: osservare l’androne del comune era come stare al cinema ad assistere a una commedia all’italiana. Mio fratello era così stupefatto di quel caos che si rammaricò di non aver portato una telecamera. Io ero più abituata: nelle mie visite al Cairo passavo ore sul balcone a guardare quello che accadeva in strada. E non mi sono mai stancata.

alessandriajpg(Foto Pixabay)

Il tempo passava, e il nostro turno non arrivava. Avevo detto ai miei genitori che li avrei chiamati a cerimonia conclusa. Ma la mattina trascorse tutta nell’attesa. Verso le 14, improvvisamente, senza nessun segnale apparente, la hall si svuotò, la funzionaria disse che era arrivata la pausa pranzo. Un altro stop. Temetti davvero che ci rinviassero al giorno dopo. Per noi non sarebbe stato facile restare ancora ad Alessandria, visto che avevamo già disdetto il Windsor e avevamo lasciato tutti i nostri bagagli al Cairo, dove pagavamo due stanze al Pyramiza. Per fortuna la funzionaria ci disse di presentarci alle 15, poi tornò alla scrivania. Tutte le altre impiegate fecero come lei: incrociarono le braccia e appoggiarono il capo per fare un pisolino. Mio fratello scattò loro una foto che le impensierì. “È la pausa signore” disse una di loro, preoccupata che potessimo usare quella foto per accusarle di non lavorare. Chiarito che non avevamo quell’intenzione, uscimmo nella canicola della controra.

Anche le bancarelle si erano svuotate. Il sole era accecante. Ci guardammo attorno non sapendo bene dove andare (l’ambulante intanto andò al suo banco assicurandoci che sarebbe tornato). In una traversa trovammo un McDonald: ci rifugiammo lì, a mangiare hamburger e patatine assieme ai due testimoni e al traduttore. Il quale aveva passato tutta la mattinata a tentare di farmi ripetere la frase in arabo che avrei dovuto dire davanti alla funzionaria: “Sono venuta qui liberamente, senza costrizioni…”. Di Pasquale era un ragazzo sveglio, molto vivace. Veniva da una famiglia napoletana che si era trasferita ad Alessandria. Mio marito gli chiese perché non si trasferisse a Napoli, dove aveva parenti. “E che vado a fare? Il disoccupato? – disse – Almeno qua lavoro al consolato”.

Io non mangiai quasi nulla: mi guardavo attorno e mi sembrava impossibile che stessimo facendo il pranzo di matrimonio da McDonald. Mi veniva un po’ da sorridere, pensando a quello che avrebbero detto i miei. Decisi di non chiamarli: allora fare una telefonata dall’Egitto significava spendere un patrimonio. Verso le 15 tornammo al comune. Eravamo i primi e stavolta in pochi minuti celebrammo il matrimonio. Io ripetei parola per parola la frase che stavo imparando dalla mattina. La funzionaria scriveva a mano, in una bella calligrafia araba, l’atto che poi rilesse. Finalmente firmammo, firmarono pure i testimoni, e era fatta!

A questo punto eravamo sposati, ma non era ancora finita. Il consolato italiano chiedeva una copia scritta, non fotocopiata. E un’altra copia dovevamo depositarla in comune. Di corsa ci precipitammo fuori ai banchi dei copisti. Scegliemmo un vecchietto che era libero: lui si mise a battere a macchina con una lentezza esasperante. I minuti passavano, si avvicinava l’ora di chiusura e l’orario di partenza del nostro treno per il Cairo. Ogni tanto chiedevamo al vecchietto di sbrigarsi, e lui rispondeva stizzito: scccc, non mi fate sbagliare! Bene o male, arrivò alla fine delle due copie. Facemmo un’altra fila per depositarne una in comune, e demmo la seconda a Di Pasquale che l’avrebbe portata in consolato. Ci salutammo e corremmo verso il Windsor a recuperare i bagagli: festeggiammo in una pasticceria sulla corniche con paste e cappuccini.

old-tram-2265506_960_720jpg(Foto Pixabay)

Sul taxi verso la stazione chiamai i miei genitori, a quel punto preoccupati che fosse successo qualcosa di grave. Ma vai a spiegare la fila, l’ambulante, McDonald, le copie… Non era possibile. Feci come mio marito: svicolai. Alla stazione un facchino si offrì di portare il mio pacchetto di dolci appena comprati, lasciando mio marito e mio fratello carichi di bagagli (robe egiziane!). Al Cairo ci aspettava un’altra impresa: trasferirci dal nostro albergo arabo (l’Arabic Hotel, dove potevamo soggiornare in una stanza pur non essendo sposati grazie alla compiacenza del proprietario, un amico di mio marito), all’internazionale Pyramiza, che finalmente potevamo permetterci avendo una carta di matrimonio. Ma quella sera non ce la facemmo: eravamo spossati dalla tensione e la stanchezza. Passammo la nostra ultima notte all’Arabic, un hotel “sgarrupato”, al cui ingresso un gigantesco pappagallo bianco salutava gli ospiti con un “Salam aleikum!”, adagiato sulla riva del Nilo di fronte a una moschea da cui di notte sentivamo il richiamo del muezzin.

Anche l’Arabic, in effetti, meriterebbe un lungo racconto, come ogni angolo di quella città affollata, disordinata, caotica, disorientante e folle che è il Cairo. Con l’addio all’hotel e l’arrivo al Pyramiza, la mattina dopo, cominciammo la vita “normale” di due coniugi europei al Cairo. Per molto tempo mi ha rattristato l’idea di essermi sposata senza una festa, senza amici e parenti. Ma con il passare degli anni, a poco a poco, ho cominciato ad amare quella giornata, quei contrattempi, quegli impiegati e la città di Alessandria, quasi mitica per ogni cittadino nato su una sponda del Mediterraneo. Oggi sorrido quando sento i wedding planners inventarsi espedienti improbabili per offrire cerimonie originali. E tra me e me penso: nessuno avrà mai un matrimonio come il mio.

 

*BIANCA DI GIOVANNI (Ha frequentato per 30 anni i Palazzi del potere economico per seguire i numeri della finanza pubblica per l’Unita’. Oggi si dedica alla natura estrema e incontaminata e alla lotta al riscaldamento climatico seguendo un progetto di sviluppo sostenibile su arte e natura nell’Abruzzo interno, Regione in cui è nata)


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