Sai cos'era, era l'isola di Wight

di GIANNI MARSILLI*

Quell’estate io stavo a Worthing, lei stava a Brighton. Io di anni ne avevo venti, lei diciotto. Io in una famiglia, lei in un college. Il capo della mia famiglia era il signor Duprey. Ero arrivato fin lì in treno, i figli dei ferrovieri viaggiavano gratis in Italia e pagavano la metà negli altri cinque paesi comunitari. Per me si trattava di far pratica d’inglese, l’unica materia, a parte italiano e storia, verso la quale negli anni del liceo avevo nutrito un sicuro trasporto. Due giorni di viaggio, da Trieste a Londra. Poi un trenino, se non sbaglio da Victoria, e finalmente Worthing, dove però alla stazione, contrariamente alle attese,  non mi aspettava nessuno. Mi rigirai l’indirizzo tra le mani, comprai una mappa, cercai, trovai  e mi avviai a piedi.

Mr Duprey mi aspettava a casa con la moglie. Era un tipo sulla cinquantina, alto e segaligno: “Hello, you’re late”. A me non pareva, ma stetti zitto. Mi mostrò il mio alloggio, una stanzetta ricavata nel sottotetto con una finestra che dava sul piccolo giardino nel retro. Sistemai le mie cose e scesi per due chiacchiere di presentazione e uno spuntino. “Ah, dunque sei italiano. Il mio giardiniere era italiano, simpatica persona”. Aggiunse che tra il ’44 e il ’45 era stato soldato a Roma e dintorni: “Mi ricordo di una cameriera italiana, simpatica ragazza”. Era passata un’ora dal mio arrivo, e il signor Duprey mi stava già sommamente sulle scatole. Sgranocchiai un toast con formaggio e cipolle, e mi ritirai nella mia stanza. Cercai un posacenere, ma non ce n’erano. Mi misi in finestra a fumare la mia marlboro, poi con una lunga e calibrata parabola schizzai il mozzicone in strada, oltre il giardino. I signori Duprey erano dentro davanti alla tivù, che mandava riflessi bluastri attraverso le tende del salotto.

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(Wight '70, foto di Malcolm George da www.ukrockfestivals.com)

Seguivo qualche ora di corso la mattina, e poi ero libero. Feci una puntata a Brighton, con lei  ci mettemmo d’accordo per vederci nei giorni successivi e farci un weekend insieme. Naturalmente l’idea era di concludere, finalmente  indisturbati. In attesa del prodigioso evento, a Worthing trovai un pub che mi parve accogliente. Mi piacque la half bitter che spillavano e mi scoprii un insospettato talento per le freccette, il che mi valse qualche wow di ammirazione e qualche scambio di cordialità con gli avventori. La sera tornavo a cena a casa. E’ passato mezzo secolo, e di quelle cene ricordo solo gli strani sapori dolciastri, la quasi assenza di carne, l’agonia putrefatta di cavoli e broccoli. Dopo fumavo la mia marlboro in finestra, esercitavo la mia sapienza balistica con il mozzicone e via a letto assai presto, che comunque alle 9 di sera il portone veniva chiuso.

C’era lei, ma c’era anche Londra. Londra, capite? Londra nel ’70, Londra viva e colorata, Londra fatta di musica straordinaria e di ragazze piene di gambe e di capelli. Decisi di non negarmi alcunché. Avrei passato un weekend con lei, ma avrei anche visto Londra. Mi direte che l’ideale sarebbe stato di farsi un weekend a Londra con lei, in una magica sintesi di obiettivi. Non so più perché, ma non fu possibile. Così toccò prima a Londra in solitaria.

 Ci andai in autostop. Ci camminai per due giorni senza sosta. Dapprima mi sembrò grigia e monumentale, ma poi quel color ocra di Westminster, e la gente in Sloane Square, e la vastità di Hyde Park, e l’animazione in Leicester Square... Tornai con il treno, perché non sapevo su quale highway mettermi ad agitare il pollice. Arrivai per l’ora di cena, ma di cena non ci fu nemmeno l’ombra. Misi la testa nel salotto, dove Mr e Mrs Duprey guardavano la tv. Dissi good evening, ma non ottenni risposta. Dopo un minuto di silenzio Mr Duprey mi invitò seccamente a salire nella mia stanza e constatare l’accaduto. Andai, e non vidi nulla di strano. Tornai giù, e chiesi lumi. Lui salì con me, e con il dito indicò una macchia scura sul comò: “Questa è la tua sigaretta, che hai dimenticato accesa qui ieri mattina. Scriverò all’organizzazione, questa cosa non può passare sotto silenzio. Ancora un pò e mi bruciavi la casa. Questa sera niente cena”.

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(Wight '70, foto da  www.ukrockfestivals.com)

Accusai il colpo, anche se la traccia sul como’ bisognava, per vederla, sapere che c’era. Masticai qualche parola di scusa  che cadde nel vuoto. Mr Duprey torno’ impettito alla sua poltrona e io restai li’ impalato e desolato, ma soprattutto affamato. A Londra avevo ingurgitato solo un paio di panini. Ricordo un hot dog, caldo e pieno di senape, delizioso. Mrs Duprey subodoro’ qualcosa, forse uno svenimento per fame, o una reprimenda dell’organizzazione che ogni estate gli procurava qualche studente da alloggiare. Mi disse che in cucina potevo mangiare qualcosa, che c’era un piatto pronto anche se freddo. Era riso con banane fritte. Il gusto era indefinibile, la consistenza era quella del letame. Lo divorai voracemente, e non presi sonno fino all’alba.

I rapporti in casa si erano fatti difficili. Ci si ignorava, e il non detto era che prima avessi levato le tende meglio sarebbe stato per tutti. Così non ci furono domande né obiezioni quando dissi che tornavo a Londra, e che mi ci sarei fermato per qualche giorno. Avevo un piano: il mondo intero stava andando all’assalto dell’isola di Wight, io volevo esserci e lei anche. Volevo evitare discussioni con Mr Duprey sui giovani debosciati e sulla pericolosità delle droghe, per questo m’inventai Londra come destinazione. Mi pareva più accettabile della satanica Wight. Funzionò.

Il traghetto da Portsmouth puzzava di birra di vomito e di urina, effluvi che mi sembrarono di grande fascino esotico  e che più tardi avrei ritrovato, con rinnovato interesse, anche sui traghetti tra Danimarca e Svezia, o negli orinatoi delle birrerie praghesi. E’ un lezzo che sa di Europa. I viaggiatori mi somigliavano, o così mi pareva. Capelli fin sulle spalle, maglietta sdrucita, occhio a palla, o semichiuso ad aspirare il fumo. Nel mio caso di trattava di innocenti marlboro, oppure senior service, delle quali avevo scoperto la bella rugosità in gola. Tutto intorno le nuvolette di fumo avevano un odore diverso, più dolciastro, e anche il colore delle volute era più denso, meno azzurrino. Lei si asteneva, da brava ragazza. Io annusavo e aspiravo, la senior service e le nuvolette dei vicini. Avevo letto che si sarebbero esibiti Bob Dylan e Joan Baez, gli Who e i Ten Years After, Cat Stevens e Joe Cocker...insomma, il meglio. Ero al posto giusto al momento giusto, e lei portava una minigonna rossa.

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I tre o quattro giorni che seguirono non li ho ancora decifrati. Ricordo che trovammo alloggio presso un’anziana signora gallese che aveva un piccolo pollaio alla periferia di Cowes. Che finalmente consumammo con giovanile entusiasmo. Che io mi presi un raffreddore, e poi la febbre. Che la signora gallese pensò di curarmi con frittate di almeno sei uova, o forse aveva altre finalità ricostituenti, non so. Che davanti al palco con i suoi vertiginosi altoparlanti non ci si arrivava. Che ci si perdeva in una marea di corpi e di piccole tende da campeggio, con fornelletti e sacchi a pelo. Che i Ten Years After erano duri e ti trapanavano la testa. Che Donovan era più rock del previsto. Che ad un certo punto arrivarono un paio di vecchie fascinosissime berline Jaguar e ne scesero  sei o sette fascinosissimi individui, con stivali ai piedi e bandane sulla testa a tener fermi cespugli di capelli fascinosamente unti. Che ne scese uno più fascinoso degli altri, con una camicia bianca e pantaloni che parevano di pelle nera e lucida, ed era visibilmente il capo, e si chiamava Jim Morrison. Ne fui geloso, perché lei lo guardava e si era fatta di pietra. Per fortuna lui girò sui tacchi e sparì nella folla con il suo piccolo corteo.

Altro non ricordo. La musica era lontana, e io avevo la febbre. Del resto non ricordo neanche perché racconto questa storiella di cinquant’anni fa. Beh, perché c’ero, ovvio, e non è da tutti, ne convengo. Per l’amoretto che si consumò felicemente, certo. Per quella strana commistione di odori di erba maria, di puzzo birroso, di stato febbricitante e infoiato nel quale versai in quei giorni di fine agosto, anche. Una decina d’anni dopo tornai a Cowes, dove vivevano i genitori di un amico, e vidi Wight per quel che era: un posto per pensionati inglesi, assai piacevole e tranquillo, con i suoi sentieri sulla costa, i prati per i cani, le falesie e un clima assai benevolo. L’agosto del ’70 mi parve allora un magnifico impazzimento, il colpo di genio di un pittore altrimenti  mediocre. Irripetibile, anche se il pop festival hanno ripreso a farlo da una ventina d’anni. Ma credo sia cosa da imprenditori più che da rockettari ruspanti.isle-of-wight-5138549_960_720jpg

(L'isola di Wight, foto da Pixabay)

Un giorno mangiavo qualcosa in un pub a Chelsea, sarà stato vent’anni fa, e guardando fuori vidi Bob Geldhof fermo all’angolo, elegante come un damerino mentre parlava al cellulare, e mi parve l’esatto contrario di quel Jim Morrison che avevo visto sbucare da una Jaguar scassata. Con la mente scattai una foto che immortalava il mutamento d’epoca. La Jaguar aveva il cruscotto in legno, e Morrison lo sguardo magnetico e il passo felino, per quanto fumato che fosse. Geldhof mi sembrò un venditore di elettrodomestici, o un addetto stampa, con rispetto parlando per gli uni e per gli altri. Se fate un salto a Wight (ci fanno una magnifica regata, vale la pena) sappiate che quell’isola non è come sembra. E’ capace di ogni nefandezza, malgrado i giardini curati, le siepi geometricamente potate, le rose e tutto quanto l’armamentario british. Io ne so qualcosa: non fidatevi delle apparenze.


*GIANNI MARSILLI (nacque sul Carso, a cavallo tra oriente e occidente, e vive tra Trieste e la Francia, a cavallo delle Alpi. Malgrado la scomodità e l'età venerabile non ha intenzione di scendere. Tale schizofrenia non poteva che portarlo al giornalismo, lavoro che ha svolto a Trieste, Milano, Roma, Parigi, Bruxelles e un po' in giro per il mondo, soprattutto europeo. Al momento pensionato inattivo)

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