Roubaix, resterà vuoto il velodromo del paradiso

di MARCO PASTONESI *

L’ inferno del pavè si conclude in un paradiso di cemento. E’ una pista: un anello lungo 499 metri e 75 centimetri e largo sei metri, con un’inclinazione nelle curve fino al 15,4 percento, immaginato dall’architetto parigino Jacques Gréber, che faceva parte del City Beautiful Movement. Custoditi come in una bambola russa, all’interno della pista, una corsia in terra battuta (vi si disputano gare di corsa, triathlon e ciclocross), e all’interno della corsia, il prato e le porte del campo da rugby (qui gioca in casa la prima squadra del RCR, il Rugby Club Roubaix). Sul lato dell’arrivo, una tribuna per duemila spettatori. Nel momento dell’ingresso dei corridori, i duemila si moltiplicano all’ennesima potenza vocale ed esonda un boato da Maracana. Pelle d’oca. Brividi lungo la schiena. Colpo al cuore. Chiedetelo ai corridori: confermeranno che, primo o ultimo, quel boato li ripaga di tutta la fatica fatta. Ma adesso, per il secondo anno consecutivo – una sciagura già nelle due guerre mondiali, 1915-1918 e 1940-1942 – la pandemia Covid-19 ha blindato il paradiso di cemento. E così anche domenica 11 aprile la storia si farà da qualche altra parte.

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Parigi-Roubaix. Stavolta cominciamo dalla fine. Il paradiso di cemento è stato intitolato ad André Pétrieux. Non si sa esattamente chi fosse: se il padre o il figlio. Nel dubbio, tutti e due. André il padre era il titolare di un bar – Chez Pétrieux – aperto all’angolo fra Rue Jules Guesde e Rue de Lannoy, a un paio di chilometri dal velodromo, nonché uno dei fondatori del Vélo club Roubaix. André il figlio fu uno dei responsabili dello sport di Roubaix. Non mi risultano stadi o arene o velodromi dedicati ad altri baristi, anche se osti, cuochi e camerieri, soprattutto all’inizio del Novecento, erano i più qualificati a dare il via alle corse: il primo Tour de France, nel 1903, scattò davanti al ristorante “Au Réveil Matin” di Montgeron, a una ventina di chilometri a sud-est di Parigi, e la prima Milano-Sanremo, nel 1907, partì davanti all’Osteria della Conca Fallata lungo il Naviglio. Speciali targhe celebrano quei pionieristici pronti-via di cerchioni e garretti, baffi a manubrio e tubolari a tracolla.

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La Parigi-Roubaix nacque grazie al velodromo, non l’André Pétrieux, ma il Roubaisien, quello originario. Fu un folle sogno alla Fitzcarraldo, concepito e realizzato da Théo Vienne e Maurice Perez, due ricchi imprenditori locali e appassionati velocipedisti. Il progetto venne affidato all’architetto Auguste Dupire-Deschamps, di Roubaix, che disegnò un anello in cemento lungo 333,33 metri, le curve con un raggio di 21 metri ed elevate di 37 centimetri per metro, una tribuna a sei metri di altezza, una facciata a 15 arcate. L’inaugurazione il 9 giugno 1895 nel parco Barbieux, su un terreno di 46 mila metri quadrati, a cavallo tra le municipalità di Roubaix e di Croix, nelle Fiandre francesi. 

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A quel tempo, Parigi era la capitale del ciclismo francese ed europeo, dunque mondiale: nel 1891 aveva ospitato partenza e arrivo della Parigi-Brest-Parigi (che tuttora esiste) e della Parigi-Dieppe-Parigi (che resistette una sola edizione), così dura ed epica da tenersi solo una volta ogni 10 anni, nel 1892 il via alla Parigi-Clermont Ferrand e della Parigi-Nantes-Caen-Rouen-Parigi, nel 1893 alla Parigi-Bruxelles, nel 1984 della Parigi-Saint Malo e della meno prestigiosa Parigi-Bar Le Duc, nel 1895 della Parigi-Royan, e nello stesso 1896 anche della Parigi-tours, della Parigi-Cabourg e della Parigi-Chateau Thierry. Invece Roubaix era una cittadina industriale, al confine con il Belgio, cresciuta con la produzione tessile (il motto: “Probitas industria”), arrivata a più di 120 mila abitanti (oggi sotto i 100 mila): era chiamata la Ville aux mille chemynées, dei mille camini. Il cielo, raccontavano, era grigio anche d’estate. Nella Parigi-Roubaix ci poteva essere tutto: la strada e la pista, il romanzo di un’avventura sulla strada e il giallo del finale sulla pista. E il ciclismo urbano, metropolitano, capitale, era – non poteva che essere così – quello della pista.

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Per cominciare, ci voleva uno che avesse già cominciato. Vienne e Perez si rivolsero a Paul Rousseau. Era il direttore del quotidiano parigino “Le Vélo”, caratterizzato dalla carta verde. Ed erano i giornali a organizzare, promuovere e raccontare le corse, come sarebbe successo anche per il Tour de France (1903) gestito dal quotidiano “L’Auto-Vélo” che, per distinguersi, aveva scelto la carta gialla, e per il Giro d’Italia (1909), lanciato dalla “Gazzetta dello Sport”, che infine scelse la carta rosa. “Le Vélo” aveva un altro merito: occuparsi della Bordeaux-Parigi, nata nel 1891 e in cui Parigi era stata coraggiosamente scelta come base di partenza e non come punto di arrivo. La proposta trattava una competizione lunga 280 chilometri, dalla capitale al velodromo di Roubaix. Detto, fatto, per sempre, o quasi, guerre militari e virali permettendo. Dal 1943 con l’epilogo spostato dal Vélodrome Roubaisien all’André Pétrieux. E fino al 2019 con i 263,5 chilometri da Compiègne a Roubaix, di cui 55, divisi in 30 settori, terremotati dal pavè, e i 750 metri finali, un giro e mezzo di pista, pedalati sul cemento del velodromo.

In fondo, in fondo alla corsa e anche in fondo al cuore, si potrebbe vivere la Parigi-Roubaix soltanto qui a Roubaix. Perché qui c’è il velodromo. Perché qui ci sono le docce del velodromo: loculi nudi, celle misere, muri scabrosi, arredi inesistenti, ma una targhetta che dedica la doccia a ciascuno dei vincitori della corsa, sposando Fausto Coppi a Peter Sagan, Franco Ballerini a Fabian Cancellara, Eddy Merckx e Roger De Vlaeminck. 

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Perché qui ci sono gli Amici della Parigi-Roubaix, un’associazione che cura – letteralmente: cura fino a guarire – i cubetti di porfido del pavé e preserva le stradine di campagna dall’invasione dell’asfalto, e che gestisce un museo dedicato alla corsa e ai corridori. Perché qui c’è un cartellone con la scritta bibliociclistica e anche biblicociclistica “l’inferno del nord porta al paradiso”. Perché qui in città c’è anche una piscina costruita secondo l’Art Déco e trasformata nel 2001 in un museo di arte e industria. Perché qui, soltanto qui, riecheggia quel boato che accoglie e resuscita i reduci dalla spedizione negli inferi, polverosi o infangati, comunque diversi, comunque migliori.



*MARCO PASTONESI (Ha scritto per ventiquattro anni per la “Gazzetta dello Sport”. Si divide tra due passioni: il rugby e il ciclismo. Su tutti e due ha scritto molti libri - tra cui Gli angeli di Coppi, Il diario del gregario, I diavoli di Bartali, con Fernanda Pessolano Attenzione ciclisti in giro. Ha affiancato Alfredo Martini nella scrittura dell’autobiografia La vita è una ruota)


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