Rondonia, la gomma e il sogno di Chico Mendes
di MARIA SERENA PALIERI*
Il brasiliano Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais - in sigla Inpa – dal 2015 fotografa dallo spazio la foresta amazzonica e ne misura il “desmatamento”, migliaia di ettari di vegetazione che ogni anno vanno in fumo, letteralmente grazie alla “queimada”, gli incendi, o metaforicamente perché gli alberi vengono abbattuti e se ne fa “madeira”, legname.
Da gennaio a maggio 2020 questo polmone della Terra ha perso 2.032 kmq, cioè una volta e mezza quanto aveva perso nello stesso arco di tempo negli anni precedenti. Ecco la cura Bolsonaro. Ma proviamo a stringere man mano di più l’immagine ripresa dal satellite. E concentriamoci sul pezzo di foresta ospitato dalla Rondonia, piccolo stato brasiliano che confina con la Bolivia. Stringiamo ancora, ecco un fiume, l’Ouro Preto, di dimensioni ridotte in rapporto al gigantismo della natura da queste parti. E’un rio che nelle sue acque torbide e fangose ospita caimani, anaconde e piranha e sulle cui sponde volano e si posano a stormi centinaia di farfalle gialle.
(Rondonia, tra Brasile e Bolivia)
Qui, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta del Novecento, prese corpo un progetto di sviluppo sostenibile che coinvolgeva i “seringueiros”, cioè i lavoratori della gomma. Chico Mendes, il raccoglitore di caucciù che era riuscito a riunire in un sindacato migliaia di suoi colleghi e a combattere la perenne fame di terra dell’industria statunitense dell’allevamento, alla fine era stato ucciso da due rancheros, il 22 dicembre 1988. Chico, l’uomo al quale Sepulveda avrebbe dedicato il suo libro “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, quel Mendes al quale sono intitolati pezzi di parco e targhe anche qua e là per la penisola italiana, si era lasciato dietro un sogno in via di costruzione: le “riserve estrattive”, cioè pezzi di foresta dove esseri umani e natura convivessero collaborando in pace.
Ora, a cercare la riserva estrattiva Ouro Preto su Google ci si imbatte in notizie che, sinistramente, non vanno oltre i primi anni Dieci del Duemila. Così si resta col dubbio che vista la furia con cui le cose avvengono da quelle parti di quell’esperimento non ci sia più traccia. Bisognerebbe andare sul posto a verificare. Non potendo farlo, visti i tempi, proviamo a tornarci con la mente e a spiegare perché una visita di quel tipo, in quell’angolo di pianeta, possa regalare il massimo dello straniamento. Cioè il massimo del viaggio. Non in termini di esotismo: cioè immersione in un mondo che è l’opposto di quello in cui viviamo, un’isola polinesiana, mettiamo, arrivando da una metropoli, da Parigi o Milano. Ma per il vorticoso ricorso a entrambe le categorie, quella di “diverso” e quella di “uguale”, che questa esperienza richiede. Vediamolo.
Sulle due sponde del fiume Mamorè sorgono due cittadine che hanno lo stesso nome, di qua in Rondonia in portoghese, di là in Bolivia in spagnolo: Guajarà-Merim e Guayaramirim. La cittadina boliviana sembra un villaggio svizzero: ordinata e fiorente (il traffico di coca passa da questo fiume). Quella brasiliana è un caos. Contribuisce al disordine il fatto che Guajarà-Merim si riveli un terminale di quell’industria e quel commercio di cui si parla poco e di cui, da consumatori, per lo più non ipotizziamo neppure l’esistenza: il mercato degli stracci. Dove vanno a finire le migliaia di tonnellate di vestiti che ogni anno buttiamo? Nel 2016 noi italiani abbiamo gettato via 133.000 tonnellate di abiti. Si calcola che solo il 2% finisca a vestire i più poveri. Mentre qua e là nel pianeta ci sono dei banchi enormi dove arrivano le balle e si accalcano questi resti: magliette, pantaloni, golf, cappotti, costumi da bagno, gonne, mutande. Ce ne sono nei sobborghi di molte città africane, per esempio, e ce ne sono, appunto, a Guajarà-Merim.
(Albero della gomma foto di Abhilash Jacob su pixabay)
Da
qui prenderanno di certo altre strade. Ma nel frattempo offrono alla
popolazione locale di che vestirsi a prezzi “stracciati”. E con fantasia. Ecco
perché quando a bordo di una canoa con sferragliante motore ti inoltri, lungo l’Ouro
Preto, dentro la foresta, puoi vedere un “semi-indio” – bianco assimilato nel
tempo ai costumi indigeni – davanti alle palafitte in giacca da frac; sua
moglie, su quella sponda grassa di fango, in equilibrio sui tacchi a spillo.
Uguale/Diverso: tu arrivi pronto all’avventura in perfetta tenuta Camel Trophy,
loro ti aspettano così…
Le case sono capanne su palafitte per lo stesso motivo per il quale si costruivano analogamente nella preistoria: per tenere lontani gli animali. Dentro, l’indispensabile: amache per dormire e zanzariere. Qualcuna ospita un vecchio frigorifero, segno che i proprietari sono arrivati da poco nella Riserva: frigo usato come armadio, perché -Uguale/Diverso - di corrente non ce n’è.
La
foresta è semivergine: non è vergine per definizione, perché per esserlo deve
essere non antropizzata e dunque non saremmo qui a visitarla. Qual è la sua
bellezza? Capita spesso di pensare che, sul piano estetico, la natura abbia
inventato tutto (colori, forme) e che noi nei millenni non abbiamo fatto altro
che scovare e copiare: le sinfonie cromatiche dei piumaggi di uccelli o le
geometrie di certi fiori. La foresta primaria, quanto a lei, è la madre del
Barocco, con il suo horror vacui e con la sua “maraviglia”: non c’è vuoto che
resista alla crescita di alberi, foglie, liane, germogli. Uguale al Barocco/
Diverso perché è verde anziché dorato.
(Chico Mendes)
Di
certo è diverso da ogni esperienza che possiamo aver compiuto in ambiente
naturale dalle nostre parti, dove impera il taglio del bosco, vedere come
l’albero morto a terra si degradi e si trasformi, a vista d’occhio, in humus e
in nuova vita. Il che ti fa capire dove abbiano preso origine i sistemi di
pensiero che professano la reincarnazione. E poi c’è l’illusione ottica: mentre
la canoa scivola silenziosa sull’acqua fangosa vedi un albero dai mille fiori
bianchi, quando arrivi lì sotto basta un batter di mani per animarli, quei
fiori: sono uccelli che a miriadi tutti insieme prendono il volo. Di notte i rumori animali, fruscii, trilli, singhiozzi,
su tutto i gridi laceranti delle scimmie, sono un concerto, sì, ma anche questo
differente da ogni altro. Uguale/Diverso.
Lo straniamento maggiore deriva dal vedere, però, come degli esseri, umani come noi, si muovano in questo mondo. La “riserva estrattiva” prevedeval’obiettivo di un livello di vita sostenibile, per chi ci lavorava, raggiunto, anziché violentando, estraendo olio dalla “copaiba” e il lattice dall’albero della gomma, così come raccogliendo frutti. L’albero della gomma dà lattice ogni tre giorni, perciò ogni seringueiro ha, per definizione, bisogno di alcune miglia di terra per praticare un’estrazione quotidiana. Da qui il disegno urbanistico sulle sponde del corso d’acqua: palafitta, terreno, ansa del fiume, palafitta… Per i seringueiros la foresta è casa e vi girano in ciabatte shangai di gomma e calzoncini a brandelli. Con gesto innato, con una capacità quasi genetica, tagliano a libro, rapidi, l’albero per estrarne il lattice oppure ne incidono un altro per succhiarne l’olio. Con la “faca” mozzano kentye spropositate per annodare in un lampo cesti e tetti di capanne, con l’abilità di mastri vetrai fanno coagulare la gomma soffiando fumo nero: l’antica (e intossicante) tecnica della “fumaca”.
(Il doodle che google dedicò a Chico Mendes)
Tutto
questo per noi è stupefacente. Eppure nella giungla si ha l’impressione, ogni
tanto, di trovarsi dentro un gigantesco salotto vittoriano, perché kentye e
affini sono piante che gli inglesi importavano ai tempi del colonialismo; e
perché il cervello, forse per non
perdersi, richiama di continuo l’immagine di qualcosa di già noto: il “soldato
della borracha” – ti dici – non è una versione irsuta e più selvaggia di un
soffiatore di vetro di Murano? E i lesti e magri seringueiros non si muovono
come ballerini, degli Houdini, degli illusionisti?
Lo
stato di Rondonia in epoca pre-Covid, lo scorso gennaio, pubblicizzava le sue
attrattive turistiche: la cascate, la littorina di Porto Velho, i parchi
acquatici… Ma il viaggio vero - straniamento
garantito - è in questo pezzo di Rondonia che l’ufficio del turismo nasconde: in
questa foresta inquietante, a tratti terrorizzante, e magnifica. Natura a cui non
si può che ubbidire, perché, Bolsonaro permettendo, qui è ancora lei la sovrana.
*MARIA SERENA PALIERI (Roma, 1953. Ha lavorato per 35 anni all’Unità. Ha viaggiato a 360 gradi intorno all’oggetto-libro: esperta di editoria, critica letteraria, traduttrice, ghost-writer. I suoi ultimi libri sono “Radio Cairo. L’avventurosa vita di Fausta Cialente in Egitto” (Donzelli), “Amore è una parola”(Iacobelli), con il gruppo Controparola “Donne nel Sessantotto” (il Mulino) e con Domenico De Masi “il mondo è giovane ancora” (Rizzoli). Nella foresta primaria ci è stata due volte: in Rondonia e in Nicaragua)
clicca qui per mettere un like sulla nostra pagina Facebook
clicca qui per rilanciare i nostri racconti su Twitter
clicca qui per consultarci su Linkedin
clicca qui per guardarci su Instagram