Roero, pallapugno e i segreti della Bagna cauda

di ANDREA ALOI*

Lo strumento basico della pallapugno, cioè il pallone elastico, detto balon elastic nelle zone ov’è diffuso a est dell’antica Occitania, è una sfera del diametro di dieci centimetri e rotti di gomma duretta, sta sui due etti e insomma, pesa. I giocatori - quattro per squadra - le danno, con pugno protetto, gran colpi furiosi e d’astuzia sottile, spedendola da una metà campo all’altra dello sferisterio lungo novanta metri. Una specie di tennis brutalista.

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Si gioca all’aperto, in genere il campo di terra battuta è ricavato scavando colline ripide di Langa, Roero, Imperiese ed è disputa che infiamma, ha i suoi campioni - Bertola da Gottasecca (Cuneo) è stato una leggenda vera -, ha pubblico fitto e ha vantato scommettitori compulsivi che si sono svuotato il portafogli o lo hanno ingrassato. Qualcuno per una “caccia” andata male ci ha rimesso fette di vigna ed è un peccato mortale perché in Roero, dove ora mi sta portando l’anima, la terra fu mare e da qualche era geologica è sabbiosa giallo-chiara, materna pronuba per la mistica unione di sole e uva. Mio padre ci trovava, da bimbo di Montà d’Alba alla pastura, conchiglie molto preistoriche.

Da un po’ il sentiero dei fossili è una calamita in più per la gente foresta che viene in Roero a innamorarsi. Adesso una cartina geografica. Siamo in Piemonte, il Roero, così battezzato dalla casata astigiana omonima che vi predominò a lungo, se ne sta, di collina in collina, a nord-est della provincia Granda, a cinquanta chilometri da Torino, incastonato tra il Monferrato e le Langhe. Ciò che per troppo tempo l’ha fatto immaginare e vivere come una Langa di seconda serie o un’appendice piuttosto rustica del paradiso vinicolo astese. Errore, pur se in Roero le radici di famiglie monferrine e astigiane sono profonde e numerose, vedi la Montà che ho nel sangue, dove gli Aloi variegati da alfieriane tracce di pelo rosso vivono da secoli con quel cognome prettamente sudista e incongruo accanto ai Valsania, ai Costa, ai Casetta, ai Barbero, ai Cauda. E quest’ultimo è un cognome che evoca un cibo-nettare su cui converrà ritornare più avanti.castle-1133806_960_720jpg

I vigneti in Roero si dispongono su “rive” particolarmente scoscese, quasi verticali, frutto del Tanaro e delle sue vene, d’estate in alto picchia un sole bastardo, corri giù per la riva e in capo a un minuto ti bagni il volto acceso nel torrente più fresco dell’universo, una piscina probatica: dal fuoco al ghiaccio. E tante piante di gaggia, robinia il nome più noto, dalle foglie tenerelle che Rosa Barbero - madre del bambino sopraddetto cacciatore di conchiglie del Mesozoico - mi mandava a raccogliere per offrirle ai conigli: una sciccheria.  Non so se i suoi leporidi dalle lunghe orecchie li amava, come usa dire oggi; li curava, questo sì, e tante domeniche, a sera, l’ho vista appenderne uno alla scala che portava al fienile, tramortirlo e infine levargli la pelliccia, come una mamma affettuosa tira via il golfino al figlio con le braccia alzate prima di metterlo a letto. Il coniglio finiva a tocchi in terracotta, con aglio, alloro e rosmarino. Benedicite.

Rosa e la famiglia sua, per tante generazioni mai avevano passato momenti di penuria; e però è della gente di Roero una sottigliezza particolare, un acume tramato d’esperienza, il culto della parsimonia. Chiedete a Montà della gastronomia di Almondo Barö, un tempo era un emporio con cibi ora è un tempio per ghiotti indigeni e gourmet di passo. Fritto misto piemontese, vitello tonnato, insalata di tonno di coniglio, pesci marinati e mille altre libidini, tra cui i salumi, antico vessillo della ditta. La parsimonia? A tempo debito, ovvero coi primi veri freddi, mai mancava in casa della nonna una spanna di salame fresco di Barö, appena appena stagionato. Mi ci avventavo guaglione brandendo coltello e biova e presto Rosa scandiva un bonario rimprovero: “Tant pan, poc salam!”. Per altri dettagli mangerecci, entrate in un ristorante, sia a Montà d’Alba o Baldissero, a Sommariva Perno o Pocapaglia, a Guarene o Ceresole e il Roero mai vi tradirà, come unico impiccio vi potrebbe capitare di dover scegliere tra agnolotti in formato d’antan e agnolotti più piccoli, tra sugo d’arrosto o burro e parmigiano.

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A proposito di tavola, quei vigneti su rive vertiginose, che vino davano e danno? Un Barbera schietto e spesso che lasciava una spumetta color ciclamino a bordo bicchiere, ma oggi vincono per fama il bianco Arneis e un Roero docg da uve nebbiolo che i maestri di color che sanno descrivono, in un crescendo iperbolico, di “color rosso granato lucente, naso attraente di liquirizia, caramella mou, marmellata di more e sontuosi ricordi balsamici, senza trascurare una ipostasi di mentuccia, mentre al palato il tannino è vellutato, con buona freschezza e sapidità, il che rende armonico il boccato”. Non mettiamo in dubbio.

In questo terroir di ex “parenti poveri”, ben frequentato fino a mezzo secolo fa da distinti e professionali branchi di lupi, appiccicato alle Langhe dove Barolo e Barbaresco sono paesi che tutto dicono e promettono, hanno imparato a metterla giù dura con pieno merito, lasciando alle spalle le parentesi più scabre della vita contadina e mezzadrile. In Roero si va per il sollazzo gastrico (tanto per rievocare il nome di un antico ristorante torinese di via Palazzo di Città, ora scomparso), per passeggiate (vabbé: trekking) all’ombra dei castagni, scorrerie (possibilmente educate) in mountain bike, per scoprire i segreti dell’apicoltura, rifornirsi di tartufi, ricrearsi con fragole da giardino dell’Eden e pesche di vigna, un’antica varietà celestiale, bianca, profumata. Se poi da Montà scenderete a Canale per una strada tortuosa in modo antologico, nella giusta stagione incontrerete pesche, sempre bianche, che si spaccano a metà, divorabili seduta stante oppure a sera tagliate a tocchi e tuffate in vino bianco o rosso.

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Nel prato di erba medica dietro la cascina di Rosa Barbero svettava un ciliegio, ai primi di giugno sempre carico di grafiun bianchi e accarezzati di rosa carico dalla parte del sole. Me ne giovavo fino a procurarmi fitterelle alla pancia. Cercate, comunque, e sarete ricompensati. In caso di stravizi si potrà sempre espiare salendo da Montà in direzione Santo Stefano verso il santuario dei Piloni e la finale cappella del Santo Sepolcro, una via crucis da peccato veniale.

I mesi d’elezione per il Roero? Sempre, con preferenza decisa per l’autunno, quando a fondovalle esordisce la bruma, la galaverna è ancora lontana e sul desco familiare o al ristorante compare - accompagnata da peperoni, cavolo cappuccio, cavolfiori, cardi, carciofi, topinambur, zucca e cipolle cotte, patate lesse eccetera eccetera - la bagna cauda, scottante intingolo di aglio, olio e acciughe. Per un piemontese non è una vettovaglia, è un’ossessione, un cibo-rito di santificazione della buona vendemmia da celebrare coi primi freddi, un momento quindi cruciale, comunitario, votivo.

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Spiego. Sono nato a Torino, quartiere di Porta Palazzo, in un altro secolo. E lì, nella mia Heimat, bambino con classici crudeli pantaloncini corti nonostante l’incipiente inverno, venivo condotto al grande mercato sotto casa dalla zia Isolina, detta Lina, o da mia madre alla cerimonia d’acquisto delle acciughe sotto sale per la bagna cauda. L’uomo al banco batteva ogni acciuga sui bordi interni della latta per eliminare l’eccesso di sale: una pretesa d’onestà, su cui vigilava l’accorta massaia, perché l’acciuga migliore non è secca e incrostata di sale né mollacchia, ma morbida e asciutta. Ma quali sono i segreti dell’acciugato “liquore” soave, carminativo, galattoforo, eupeptico e, non dimentichiamolo, ansiolitico se ben accompagnato da un rosso delle terre giuste? Millanta, come le ricette. La bagna varia da provincia a provincia, da famiglia a famiglia, declinando in modo multiforme aglio, olio e acciughe secondo consolidati costumi e incredibili sottigliezze. Quale olio? Quali acciughe? Quale aglio? Forse bisognerà tornarci su.

 

*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 


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