Rincòn, al lazzaretto con Manolito

di GIORGIO OLDRINI*

Era stato Manuel “Manolito” Mendive a guidarmi al Rincòn, il vecchio lazzaretto a qualche decina di chilometri dall’Avana, uno dei luoghi sacri della religione della Santeria. Lui è uno dei pittori più importanti di Cuba, un nero alto, bello, tranquillo e sorridente che nei suoi quadri e nelle sue infinite varietà di opere ha raccontato come nessun altro i riti, i problemi, i sogni degli ex schiavi africani che nella loro religione hanno trovato consolazione e conforto. In quadri, sculture, anfore, persino performances sui corpi di ballerine e ballerini Mendive si è esercitato nei decenni. A me commuoveva un dipinto che Manolito aveva sempre in bella mostra. Un anno era stato investito da una corriera e aveva dovuto rimanere a lungo immobile in un letto d’ospedale con un piede maciullato. Allora si fece costruire una sorta di baldacchino sopra il letto e dipingeva rimanendo sdraiato. Un quadro pieno di dolore e di speranza, con i suoi “orisha” che lo assistevano.

Ero andato per la prima volta a trovarlo nella sua casa in un quartiere periferico dell’Avana dove già aveva qualche cane e animali diversi, sorta di sacerdoti santeri oltre che amici pieni di vita e di colori. Da sempre amo i cani e ne sono incredibilmente ricambiato. Così quando arrivai per la prima volta da Mendive e i suoi animali mi fecero una festa come fossi un  parente antico, lui

decise che se ero accolto così bene da quei suoi amici a quattro zampe dovevo essere anche io un amico fidato. 

Manuel_Mendivejpg(Manolito Mendive)

Ma quello che mi permise di diventare ancora più intimo fu una vera e propria impresa, almeno a Cuba. Manolo in quell’epoca dipingeva i suoi santi, la natura rigogliosa, i suoi animali su anfore, ma si assillava perché non riusciva a trovare il modo di stabilizzare i colori. Il meccanico che mi aggiustava l’auto, Felix, lavorava in un cantiere navale e mi venne l’idea di chiedergli un paio di barattoli di flatting che si usa per le barche di legno e li portai a Mendive. Fu un successo. A Cuba si dice che non c’è il socialismo, ma il “sociolismo”, nel senso che un “socio” ti aiuta a risolvere problemi insormontabili per vie normali. Ero diventato, grazie a due barattoli di flatting, il “socio” di Manolo. Che un giorno mi disse “Vieni con me al Rincòn”.

Partimmo con la Volkswagen che mi aveva fatto arrivare a Cuba l’Unità, superammo l’aeroporto, poi San Antonio de los Banos, paese che per la verità conoscevo. Mia moglie Tina, biologa, lavorava nel laboratorio dell’Hospital nacional Cabrera e andava a fare “el trabajo voluntario”, il lavoro volontario in certi fine settimana all’Hidroponico di San Antonio de los Banos. Raccoglieva pomodori coltivati in acqua, combattendo contro i mosquitos e discutendo con i compagni che, secondo lei, non lavoravano abbastanza.

Poi con la VW Manolito ed io superammo Santiago de las Vegas, dove anni dopo sarebbe sorta la Scuola di cinema diretta da Gabriel Garcia Marquez e dall’argentino Birri. E dopo un rettilineo perso nei campi, sulla destra ecco il complesso di San Lazzaro. Dentro, la meraviglia del sincretismo. L’imperatore spagnolo e il Papa avevano proibito agli schiavi africani di adorare i loro dei e dunque questi avevano “nascosto” dietro un santo cattolico un “orisha”. Così per tutto l’anno, ma soprattutto il 17 dicembre, al Rincòn arrivano i fedeli che apparentemente adorano San Lazzaro, ma che in realtà sono devoti a Babalù Ayé. L’altare centrale della chiesa è sormontato da una statua del santo che cura le malattie, soprattutto quelle della pelle. Un uomo anziano e macilento, con piaghe che vengono leccate da due cani che lo accompagnano sempre. Si accendono ceri, ma si brucia alcol, si beve rum e a volte si balla, magari dopo aver percorso gli ultimi metri in ginocchio portando un sasso.

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La chiesa non è tutto. A lato del tempio ecco una fontana dalla quale sgorga acqua santa. I malati si bagnano, altri riempiono bottiglie da portare a casa, per qualche parente che non può arrivare fin lì. Una quindicina d’anni fa qualcuno decise di ristrutturare la fontana, mettendola a norma e suscitando una rivolta popolare. Non si ristruttura la santità, nemmeno quella della Santeria.

Poco più in là un enorme albero dalle radici in rilievo, la ceiba, pianta sacra per le religioni africane. Infatti sui rami e tra le foglie vanno a riposare le anime dei morti. Anche nel giardino della residenza dell’ambasciatore italiano in 5 Avenida c’è una grande ceiba. Anni fa ad un cambio di diplomatico, quando la moglie del nuovo arrivato prese possesso della bellissima residenza e vide quell’enorme albero dalla chioma scomposta chiamò il giardiniere e gli ingiunse: “Domani mi deve potare la ceiba”. Quello la guardò spaventato: “Signora, io non lo farò mai, altrimenti tante anime resteranno senza un luogo dove riposare. E se vuole un suggerimento non lo faccia. L’ira dei morti cadrebbe su di lei e magari anche sull’Italia”. La ceiba è ancora lì nel giardino del nostro ambasciatore con la sua chioma arruffata e con tutte le anime tranquille.

Ma al Rincòn la ceiba non corre pericoli e i fedeli posano tra le enormi radici gli ex voto avvolti in pacchettini di carta leggera per chiedere una grazia o per ringraziare il santo per un desiderio soddisfatto.

Poco più in là l’ex lazzaretto adesso è diventato un ospedale dermatologico, e i medici hanno il compito quasi impossibile di essere in competizione con i miracoli di San Lazzaro, meglio di Babalù Ayè. Poco fuori qualche bancarella vende statuette del santo. Mi costa un po’ confessarlo, ma da anni una è sul mio comodino e mi osserva quando vado a letto. Fino ad ora ha funzionato. Grazie a Manolito, mio “socio” e ai suoi cani.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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