RECENSIONE - Una disperata vitalità, decadenza fra l'Italia e New York

di ROBERTO ROSCANI*

Cominciamo dall’inizio, anzi dall’incipit. Con il nuovo libro di Giorgio Van Straten - "Una disperata vitalità" - non siamo dalle parti di “Chiamatemi Ismaele…”, ma neppure da quelle di “Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”. Tra l’ariosa voglia di vivere del personaggio del Moby Dick di Melville e il tragico scoprirsi uno scarafaggio di quello de La Metamorfosi di Franz Kafka, l’autore imbocca una strada più piana, prosaica, più terrestre: “Seduto sulla tazza del gabinetto, Giorgio cercava di ricostruire mentalmente l’elenco completo dei suoi malanni fisici”. 

Un tono basso, dentro al quale si intravvede fin dall’inizio un seme di dramma, di caduta. In fondo il libro che a una prima lettura può apparire appunto “l’elenco dei malanni” è invece la coscienza di una trasformazione, di una perdita. Le malattie di Giorgio non sono nulla di grave, sembrano piuttosto acciacchi di un’età matura ormai arrivata, ma sono acciacchi di una “decadenza” dai propri ruoli abituali, quello della seduzione, del gioco maschile femminile, delle piccole comunità intellettuali seminate tra New York e Firenze e poi Roma, degli amici che non riescono bene a capire perché questa perdita di smalto appaia tanto grave.


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(New York)


Il nome Giorgio, la città di New York fanno subito pensare al fatto che il protagonista (scrittore ed agente letterario) sia lo stesso Van Straten, un camuffamento fin troppo trasparente. Quasi per gioco nel libro ad un certo punto compare anche un altro Giorgio che fa il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a New York, mestiere che effettivamente Van Straten ha fatto tra il 2015 e il 2019, un modo di dire: quello sono davvero io, l’altro Giorgio è un omonimo. Ma è solo un escamotage letterario. Il protagonista se non è l’autore del romanzo è almeno un suo vicinissimo alter ego: condivide passioni, gusti, città, amici. C’è persino una serata passata a vedere la partita di Champions League con gli amici di chat calcistica che è una allusione davvero trasparente al salotto di un amico juventino, con i vizi e i vezzi dei tifosi: sempre gli stessi scaramantici posti su poltrone e divani, le stesse battute, persino l’ordine dei piatti portati da una gentilissima e ironica moglie e infine il gesto infantile per festeggiare la vittoria di sdraiarsi a terra con le braccia aperte e gli occhi chiusi.

In questo suo romanzo Van Straten fa i conti col passare del tempo, coi fallimenti sentimentali, con la fine di una giovinezza che lui – come tutta la sua generazione – ha immaginato infinita.

C’è, nelle pagine, un piccolo racconto di questa illusione, quello di un amico che sostiene, seriamente, che – per il calcolo delle probabilità – tra miliardi di uomini mortali uno dovrà pure essere immortale e, ovviamente, quell’uomo crede di essere lui. In qualche modo, tra le tante generazioni che si sono succedute sul pianeta e ormai tutte alle nostre spalle, ce n’è una che ha creduto non alla immortalità ma al permanere, per un tempo lunghissimo se non infinito, della sua gioventù. E ora questa giovinezza immaginaria lascia spazio ai malanni, ad un corpo che non risponde e che pretende sempre di più: più attenzione, più limitazioni, più freni.


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(L' Istituto italiano di cultura a New York)


Ecco, il tema del libro è il rapporto col proprio corpo e il titolo scelto, la “Disperata vitalità” presa da un verso di Pier Paolo Pasolini,  di quello parla. Il cineasta poeta nei suoi versi (che fanno parte della raccolta “Poesia in forma di rosa”, uscita per Einaudi nel 1964) scrive una sorta di autobiografia nervosa e bellissima fino a sceneggiare la propria morte come in un film di Jean-Luc Godard. E in PPP il rapporto con il corpo era un tema centrale, la fonte della sua contraddizione, vissuto con un senso di necessità e di colpa. In Pasolini - per cercare altri versi in quella poesia - il timore della morte aveva l'aspetto violento di un gatto schiacciato sotto i copertoni di un camion ma anche un connotato più profondo, tutto legato alla sua funzione intellettuale. Infatti, scriveva:

"La morte non è

Nel non poter comunicare

Ma nel non poter più essere compresi".

Nel libro di Van Straten, Giorgio rincorre le tracce della sua vita un po' dissipata: la moglie fiorentina abbandonata ma amata come la dolcezza di un ricordo, gli amori americani con donne che sono sempre troppo magre (dove la magrezza è un segno sociale prima ancora che estetico) e troppo esigenti, i tanti (troppi) party per le presentazioni dei film, dei libri, delle mostre d'arte fatti di chiacchierate fatue e cocktail. 

Lentamente tutto questo non torna più, è come se perdesse sapore, consistenza, senso. E invece diventano sempre più grandi le paure, le tachicardie improvvise che fanno mancare il fiato e riempiono di vertigini anche solo dopo un po' di scale. Descritte anch'esse con mano lieve, tanto che viene da chiedersi se ci si trovi davanti a un cardiopatico immaginario (è bella la scena di una parossistica "prova da sforzo", di un elettrocardiogramma fatto pedalando su una cyclette in cui Giorgio si comporta come il se stesso bambino quando andava a spasso sulla sua bicicletta immaginando di correre al Giro d'Italia), pieno dell'ansia che mette addosso invecchiare. Ma anche questa ambiguità è utile, perché è una ambiguità che è nelle cose della vita.


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(Giorgio Van Straten   "Una disperata vitalità"   ed. HarperCollins    pagg. 266  euro 18)  


Van Straten aveva esordito nel 1987 con "Generazione", in esergo compariva una citazione di Bob Dylan che suonava così: "Voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta. Anche se io stesso non capisco bene che cosa stia succedendo”, una dichiarazione esplicita dei limiti del narrare in cui le storie raccontate sono solo una immagine di quel che accade, e la loro comprensione approssimativa. Ora ci consegna un libro che ci appare come il rendiconto di una vita (guardate quante volte compare la parola “elenco” nel testo) puntando più sui malanni che sui risultati conseguiti. Eppure, anche in questo tono basso, in quest’occhio autoironicamente snob, si scorge una disperata vitalità.    

 


*ROBERTO ROSCANI  (Nato a Roma nel 1952. Dal 1974 all’Unità,  dove mi sono occupato molto di Roma, di cultura e poi di politica. Appassionato di storia - la laurea ce l’ho ma talmente tardiva da essere quasi una scusa per i soldi spesi in tasse universitarie - e di architettura, tagliatore di capelli in quattro: occupazione molto in voga nel Pci dei miei anni)

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