Raša, la Marcinelle istriana dimenticata

di ARTURO CIOFFI*

Il vecchio Dino Tominić, mio tuttofare a Banjole, nella sua lunghissima pausa caffè Lavazza Oro guardò il cielo azzurro, poi le nuvole bianche a nord virare in grigio-scuro e sentenziò: "In Istria piove".

Dino, di cultura italiana, era il Libertino Faussone detto Tino de “La chiave a stella” di Primo Levi. Formatosi nei Genieri dell’esercito di Tito, raffinato meccanico, saldatore, fabbro, finito a lavorare alle Officine Grandi Motori di Trieste, poi passate alla Wärtsilä. Ne condivideva la saggezza, la visione avventurosa del lavoro, che “se uno sta a casa magari è tranquillo, ma è come succhiare un chiodo. Il mondo è bello perché è vario”.

Aveva detto che in Istria pioveva, di lontano c’erano lampi e tuoni ma da noi c’era il sole, ed eravamo in Istria, quasi sulla punta della penisola, a casa mia. Ma l’Istria, come confermò la frase del vecchio Dino, il suo cuore, profondo come le sue morte miniere di carbone, per la sua gente era dentro, nella sua concavità.

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Era nei fiumi che salutano e scompaiono, nei laghi che non c’erano e che hanno creato sventando il suicidio di un corso d’acqua distogliendolo dal primordiale richiamo di  una foiba e, viceversa, nei campi fertili dove prima l’acqua stagnava pigra, nelle gole tra le montagne che credi di essere al Passo del Furlo ma spunta una ciminiera a strisce bianche e rosse e sai che sotto c’è la centrale termoelettrica a carbone, c’è il mare arrivato chissà come nel fiordo di Plomin, la vecchia Fianona, poche anime tra cui la generosa Dorina, titolare dell’omonima trattoria sulla strada alta per Brestova, dove partono i traghetti per Cherso e Lussino.

La bora nasce a Senj, si sposa a Plomin e muore a Trieste…

Questa dello sposalizio è rivendicata anche da Bakar (la Beffa di Buccari) forte del fatto che lì nel 1994 la bora schiantò e gettò in mare una ciclopica gru della Krupp. Che poi “si sposa” sia associato a un disastro, è saggezza popolare che ci interroga e perplime.

…e intanto a ‘l tenpo

zvaneiso

e no ‘l spita pioun nisoun,

anca lou se jò stoufà

de faghe favouri,

ai tardatari;

e a qui ca deizi senpro

faremo…

zaremo…

E così commentava la cara Lidia Delton, 69 anni gagliardi, sindaco di Dignano (Vodnjan) nei tempi duri, u vremena zla, maestra di bambini piccoli, una delle poche poetesse non suicide perché aveva tanto da fare che ora dirige l’istituzione prescolare Petar Pan. Sì, il tempo svanisce, non aspetta più nessuno: anche lui si è stufato di fare favori ai ritardatari, e a quelli che dicono sempre faremo… andremo…

E allora scivoliamo nell’imbuto dell’Istria, partendo da Pola e risalendo sul Monte Ućka, il Monte Maggiore che sovrasta Fiume, Abbazia, Laurana e tutte le isole del Quarnero, giù fino a Krk.

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L’occasione è la presenza della nipotina Urania, tre anni e qualche mese. La mia mission nei suoi confronti è stupirla, farle delle magie e non posso esporle il programma culturale. Le dico solo:

"Ti porto a vedere l’orso!"

In uno le dicevo una bugia e una verità, come potranno constatare più avanti i lettori più sensibili a un rapporto più remissivo e rispettoso verso la natura che una ne abbiamo e se si incazza ci riprende con sé in modalità inorganica.

La vecchia strada per Fiume, risalendo il lato est del triangolo capovolto istriano, non è una litoranea, raramente vede il mare, e da lontano. Freccia a destra: Duga Uvala, dove c’è ancora il vecchio resort titino per lavoratori in logoro cemento, vagamente liberty. Poi la strada continua per valli boscose ed eccola là, sull’alta e impervia parete, un quadrato disboscato alla perfezione, sicuramente con continue arrampicate, e dentro, formata da sassi bianchi, la scritta invincibile: TITO. Non è l’unica che ho visto: più avanti ad Albona (Labin) ne è apparsa una, in ferro, nel complesso di archeologia mineraria. Poi c’è quello che ha voluto fare le cose in grande. L’uliveto finanziato dalla UE ha disposto in modo che dagli aerei si leggesse il nome glorioso del Maršal.

Dara di Slavonski Brod no, scappata a Pola dopo aver venduto la bella casa per soli ventimila marchi, Tito lo teneva sulla testiera del letto, in luogo di Giuseppe e Maria. Poi dovette spostarlo, non senza malizia, sotto il giaciglio, perché il marito Pero, alla vista del bel Josip Broz in divisa bianca della Marina, si sentiva intimidito e condizionato nei suoi ardori. Ma avevano ottant’anni a testa, più o meno e lo stendardo, naturaliter, finiva più volte nella polvere e raramente sull’altar…

Arriviamo ad Àrsia, oggi Raša. Della serie: “Anche il fascismo ha fatto cose buone”.

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Tra i comuni istriani, è il più recente. Un tempo lì c’era una palude, poi il fascismo la fece bonificare (la sua specialità) e fece costruire in poco più di un anno una città mineraria di ispirazione razionalista, su progetto dell’architetto Gustav Pulitzer di Trieste. L’abitato, rimasto intatto, era teleriscaldato da una sola centrale termica, aveva servizi moderni e tutta l’edilizia era ispirata ai simboli della nobile professione del minatore. La chiesa è a forma di carrello da miniera rovesciato, il campanile di lucerna, e nelle piazze profusione di monumenti ispirati a strumenti di lavoro, immagini di Santa Barbara Patrona ed obelischi fatti da enormi monoblocchi di lignite. Nessun fumus di kitsch: faceva premio la sacralità del lavoro. La sindaca, signora Bolterstein, mi parla delle frotte di studenti di architettura che ancor oggi vengono a studiare il sito, rimasto intatto come il quartiere de L’ Amica Geniale, e farne oggetto di tesi di laurea.

Su un arco urbano, dove forse c’era scritto DVX, oggi campeggia SRETNO, in bocca al lupo, ma non bastò.

L’Italia era alle strette, quanto a forniture di carbone, dopo le “Inique Sanzioni” e aveva disperato bisogno di combustibile. A valle del paese l’omonimo fiume Raša sbocca nel Quarnero formando un porto che prima del carbone imbarcava tronchi di legno per la Serenissima. Il fiume l’ho risalito dalla foce, su una moto d’acqua che guidava Davor. Entrambi eravamo imbriaghi e cretinamente ci appiattivamo sotto i bassissimi ponti, rischiando il cervelletto. Si dirà, a ragione, che si trattò di puttanata tamarra, ma, vi assicuro che mi sentivo come uno statuario Ben Hur sulla sua biga, e tanto vi dovevo.

Nella città mineraria affluirono minatori, avventurieri e donne di piacere di ogni nazionalità, dalla Bulgaria all’Italia, alla Calabria, alla Sardegna della sorella Carbonia, figlia anch’essa di Pulitzer e altra roccaforte dell’Autarchia. E l’Italia, per quelli del posto, è solo dove si parla un dialetto a loro comprensibile. Al massimo tutto il Triveneto.

I minatori alle donne si affezionarono e le sposarono quasi tutte.110175823_291093098870965_113700358767912971_njpg

La guerra si avvicinava, dalla Ruhr non arrivava più carbone perché serviva tutto ad Hitler e la miniera doveva moltiplicare la sua produzione. I turni furono esasperati. La montagna, ormai, la si sbudellava alla cieca.

Alle 4.35 della notte del 28 di febbraio 1940 ci fu uno scoppio ai livelli più profondi, che con la polvere di carbone incendiata si propagò in tutta la miniera. E tutto esplose. 186 morti, la più grande tragedia mineraria italiana, i vertici dell’Ente Nazionale Carboni azzerati, vista la carenza di sistemi di sicurezza e l’omertà sullo stillicidio di una trentina di morti negli anni precedenti.

Per il 75° anniversario, in vista della sospirata prima commemorazione bipartisan, un funzionario quirinalizio prese contatto col Presidente della Slovenia. Ridono ancora, qui siamo in Croazia, altro che quei mezzi austriaci!

Lasciato il villaggio littorio,  si arriva  ad Albona, Labin, altro centro minerario custode di antica civiltà. Città mineraria e porto carbonifero sin dai tempi dell’Imperatore Tito. Qui nacque un pensatore protestante, Matthias Flacius Illyricus, braccio destro di Lutero, qui infiammò i cuori dei proletari una maestrina socialista, Giuseppina Martinuzzi - adoro le maestrine socialiste – e qui arrivò da Trieste l’agitatore massimalista Giovanni Pipan, a fare lavoro politico tra i minatori.

Il Primo Marzo 1921 il Pipan fu picchiato a sangue dagli squadristi, per avvertimento, nella stazione di Pisino (Pazin) poco distante da Albona. La notizia arrivò a cavallo. Immediatamente i minatori proclamarono la Repubblica Sovietica di Albona ed iniziarono a produrre autonomamente protetti dai contadini, che si militarizzarono. KOVA JE NAŠA! LA MINIERA È NOSTRA!

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Durò poco più di un mese, con scarso spargimento di sangue. Si unì ai proletari un nobile locale, e di qui nacque la leggenda del Conte Rosso. La difficoltà maggiore non fu la gestione della proprietà dei mezzi di produzione, ma la vendita del carbone, che nessuno osava comprare. È il mercato, bellezza! Quando capitolarono, nessuno denunciò un solo compagno, poche pene miti e la maggioranza assolta. La Kova se la ripresero vent’anni dopo, con la Stella Rossa in fronte, cacciando i tedeschi e poi, purtroppo, a guerra finita, i civili italiani. Tra questi il calabrese dal cognome breve che era scappato qui con la sua nuova fiamma, mollando la fidanzata ufficiale a un mese dalle nozze. Un debito d’onore insoluto, foriero di conseguenze. Quando fu esiliato col piroscafo Toscana, implorò le autorità italiane di essere lasciato al nord, casomai, dopo solo 25 anni, in Calabria fosse ancora aperto il suo dossier. Appena possibile, figli e nipoti tornarono a Pola, ma è storia recente.

Incurante delle lotte sociali, la nipotina dorme beata mentre ci inerpichiamo sulle montagne della Ćićarija, la terra dei Cicci, i misteriosi Istrorumeni, arrivati qui nel XV secolo.

Il Monte Ućka sulle carte faceva 1396 metri sul livello del mare che non è una formula, perché sta giusto lì sotto. Una torre in pietra, postcomunista, ci regala una vista a 360 gradi e quei quattro metri in più da poter dire: apperò, siamo ai 1400! Proprio come nel film britannico “The Englishman Who Went Up a Hill But Came Down a Mountain”.

La nipotina, non vedendo aquile, rincorre salamandre. La bora ha spazzato ogni foschia e i rilievi azzurrini sullo sfondo sono tutte le isole del Quarnero. L’ombra più scura e lontana è il monte Velebit, una linea del fronte che è spiacevole ricordare.

"E dov’è l’orso?"

La nipotina ricorda e interroga.

"Aspetta, ora andiamo a mangiare"

Scendiamo a mille metri e troviamo la trattoria “Il Dopolavoro”, nome storico risalente all’epoca in cui la classe operaia di Fiume veniva quassù a prendere il fresco e a giocare a bocce. Prima della guerra si chiamava “Trattoria Peruzzi” ma nel 1945 i proprietari cambiarono cognome, opportunamente.

"Eccoti l’orso!"

Il plantigrado, imbalsamato, stazionava nella vetrina all’ingresso della trattoria, con un cappellino da cacciatore in testa. Alle pareti dei vasti locali, una serie di teste un tempo appartenute a cinghiali, lupi, cervi, stambecchi, camosci, mufloni e poi, a figura intera, volpi, lepri, scoiattoli, castori, donnole, linci e un trionfo di volatili, aquile, falchi e falchetti ed altri predatori accanto a cuculi, barbagianni, upupe, quaglie, starne, beccacce, fino a multicolori uccelletti commestibili. Sotto grappa, si rassegnano all’eternità le salamandre, simbolo del Monte Maggiore di cui affollano le pietraie.

Ma l’orso, e il cinghiale e il cervo ed altro (uccelletti esclusi) sono anche nel menù, nelle pentole fumanti, nei freezer. E l’onnivoro plantigrado è il top, due pagine di pietanze, dai salamini alle polpette, dal gulash alle cotolette.

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L’orso lo avevo già assaggiato a Sofia in una sera che pareva notte, senza illuminazione stradale, tra mute di cani e bambini randagi parimenti aggressivi, nel day after del Comunismo. Il titolare del ristorante, non senza sogghignare ci precisò che la carne dell’orso è la più simile a quella umana. Esprimemmo qualche dubbio, pensando alla crisi nera che attraversavano e al mai dichiarato cannibalismo nei novecento giorni dell’Assedio di Leningrado, al che ci rassicurò dicendo che gli orsi venivano dal famoso zoo della capitale bulgara, che non aveva più mezzi per mantenerli. Ah beh…

Sull’orso timide obiezioni della mia graziosa nuora. Ma Zvaneta, l’oste decano, chiarisce:

"Medvjed, il urso se more co pale olike, ke i skapa da romore e da genti ke vene per kontroli. No ingruma nista de magnare. Alora kopa vake e pekore e vilani je spara più ke cacciatori. Noaltri ghe portemo de magnare e kopemo solo quei ke pasa i mile mas-ci. Femine mai. Kvando jera Jugoslavija ursi jera tsinkvanta"!

Passiamo attentamente in rassegna gli appetitosi doni della wilderness e li archiviamo a malincuore, ben consci di poter attirare su di noi il marchio d’infamia di una vasta area di sensibilità green, ben più di un connazionale che fa lo sporcaccione in Thailandia.

Ci buttammo su una deliziosa peka, una specie di braciere con cui si cuociono sotto la cenere carni scelte di ruminanti civilizzati e patate. Bevemmo Teràn e l’immancabile rakija finale, che chiama e ottiene più volte il bis, come alla Scala. Poi rotoliamo verso Pola, con la nuora astemia alla guida.

Voja de veivi

e sfeidà

douto al marso

che la stajon viva purtà.

A pansa piena

douto jera pioun fasìle.

E sì, soggiungerebbe la Lidia Delton, voglia di vivere e di sfidare tutto il marcio che la stagione aveva portato. A pancia piena, tutto era più facile.

* ARTURO CIOFFI (Longevo Consulente Finanziario, nasce nel 1944 sul fronte della Quinta Armata nel Sannio ma mezzo napoletano e poi mezzo veronese nell'era ginnasiale. Mancato professore in lingue morte, approda nella finanza laica della Banca Commerciale. Completa il profilo diventando pure mezzo slavo, attratto dagli eccessi terribili e meravigliosi di quella cultura. Tra nuvole e numeri, scrive per rinfrescare l'ortografia)

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