Quel giorno a Berlino est, quando Putin era uno sconosciuto

di GIANNI MARSILLI *

Un giorno d’inizio giugno del 1986 Simonetta si affacciò nello stanzone: “Ti vuole il direttore”. Mi
avviai con un po’ di apprensione, a fabbricare un giornale sbagli sempre qualcosa. Invece no. Mi
chiese bonario: “Ti va di fare un viaggio?”. E come no: “Sì certo”. In fondo facevo il giornalista con l’idea di vedere un po’ di mondo. “E allora - disse con una percettibile smorfia di disgusto - vai a Berlino est”. Mi spiegò che c’era la festa della Neues Deutschland, che era il giornale della Sed, il partito comunista della Germania est. Allargò le braccia come per scusarsi: “La fanno ogni anno, c’invitano sempre e ci siamo sempre andati”. Chiesi se dovevo scrivere: “Nooo, vai in rappresentanza del giornale”. Chiaro: a Berlino est, al check point Charlie, sui ponti delle spie ci andavo di corsa. Ma avrei preferito andarci da inviato, scrivere un reportage demolitore su quel regime e magari farmi gloriosamente espellere. Invece in casa dei vopos sarei sbarcato in pompa magna, come illustre ospite di un partito “fratello”. Naturalmente accettai, o meglio obbedii. Un viaggio comunque non si rifiutava, neanche alla corte di Honecker.

Ricordo bene i due tizi in giacca scura e cravatta sottile che mi bloccarono ai piedi della scaletta
dell’aereo atterrato a Berlino: “Bitte, da questa parte”. M’imbarcarono gentilmente su un’automobile per condurmi due o trecento metri più in là, in un edificio che aveva l’aria di un commissariato di polizia. Lì dentro mi aspettava un gruppetto di funzionari, tutti uomini, che ostentavano lo stesso sorrisetto di malcelato disgusto che mi aveva riservato il mio direttore. Uno di essi sollevò un bicchiere e si lanciò in un pistolotto di benvenuto in tedesco, con qualche parola in italiano. Non ero preparato a nulla di ufficiale. Ero lì in jeans e maglietta, e borsone sportivo con ricambio di biancheria, figuriamoci se mi ero approntato un discorsetto sulla fratellanza dei popoli
ecc.… 

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Biascicai non so più quale breve ringraziamento, onorai i pasticcini e il caffè, e finalmente venni
accompagnato in città, in una foresteria che il partito riservava agli ospiti. C’era una reception, dove una gentile signorina registrò tutti i miei dati e mi diede dei soldi: “Dovrebbero bastare per tutta la settimana”. Poi venni presentato a Albert e Elsa. Albert era il mio accompagnatore. Era un giornalista della ND, e mi scarrozzava con la sua utilitaria giapponese, forse una piccola Nissan, o Daihatsu, non ricordo. Mi spiegò che ne andava molto fiero: l’aveva ordinata nell’83 e gli era arrivata da poco. Due anni di attesa? “Nein, quasi tre”. Accidenti: “Oh no, sono stati abbastanza rapidi, di solito una macchina straniera ci mette quattro o cinque anni per arrivare, però capisci, io lavoro alla ND”. E le Trabant, quanto ci mettono ad arrivare? “Poco, non più di un anno”.

Elsa invece era la mia giovane interprete. Eccellente italiano pur senza aver mai messo piede in
Italia, modi gentili e negli occhi sempre l’ombra del timore di sbagliare qualcosa. Si teneva lontana
da qualsiasi considerazione che esulasse dalla traduzione stretta dei dialoghi tra me e Albert, o tra me e qualcuno dei tanti ospiti stranieri. Ovviamente ero curioso, e chiedevo ad Albert lumi sul
paese, su Berlino, sui salari, sul costo della vita. Come in una barzelletta, Albert cominciava
sempre con un compìto “come ci hanno insegnato Marx e Engels…”.  Rinunciai presto, e mi
appoggiai ad Elsa per fare il turista, relegando Albert al ruolo di autista. Andò così per una
settimana. Ricordo la sala mensa, dove eravamo un centinaio da ogni parte del mondo. Alcuni si
davano calorose pacche sulle spalle. Ricordo il boato di benvenuto che la sala riservò al segretario di redazione de “l’Humanitè”: quand’ero arrivato io nessuno aveva battuto ciglio. La mia diaria la spesi per comprare qualche LP di musica classica della Deutsche Grammophon. 

Partecipai a qualche dibattito: “Noi consideriamo la democrazia come valore fondamentale…”. Nessuno mi trattò male, ma avvertivo un certo gelo intorno a me. Cercavo di carpire qualche confidenza ad Elsa, una battuta, un flash rivelatore. Niente, ogni volta quel soffio di timor panico.
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L’ultimo giorno ci fu il ricevimento finale nella grande sala delle feste del Rathaus, il municipio.
C’era un sacco di gente, ed era presente in forze la dirigenza del partito. Sempre con Elsa al
fianco venni presentato ad una serie di persone di cui non ricordo né il nome né la funzione. Ad un
certo punto vidi un bell’uomo robusto che si faceva strada tra la folla degli invitati e visibilmente
puntava su di me. Elsa impallidì, deglutì, mi presentò. Era un uomo importante di quel sistema di
potere, ministro, piani molto alti del partito. Era palesemente ubriaco, o quantomeno su di giri. Mi
prese il braccio, aveva l’alito appesantito dall’alcol. Ogni volta che un cameriere ci passava vicino
arraffava un bicchierino di cognac e lo vuotava in una o due sorsate. Mi fissava dritto negli occhi e mi parlava: “Qui, caro mio, sta andando tutto a catafascio… non possiamo andare avanti così…
questo paese non ha futuro… dobbiamo cambiare tutto”.

E ancora: “Voi sì che avete delle idee interessanti, dobbiamo confrontarci, trovare il modo, perché qua non funziona più niente…”. Elsa sembrava una statua di cera. Era visibilmente terrorizzata. Dopo ogni sfuriata guardava il mio interlocutore come per chiedergli se doveva sul serio tradurre, e lui secco: “Traduci”. E lei traduceva, sperando che l’indomani nessuno le rimproverasse di aver tradotto. Poi nella sala si fece silenzio. La parola conclusiva e il brindisi finale toccavano all’ospite d’onore sovietico. Notai che era giovane. Parlò per una mezz’ora e concluse con grande enfasi: “E venga presto il giorno in cui sulla Casa Bianca isseremo la bandiera rossa!!!”. Sobbalzai e cercai con lo sguardo il mio interlocutore, ma niente, volatilizzato.

Il sovietico aveva concluso trionfalmente con un lungo applauso dei presenti. Guardai meglio l’oratore. Non era alto di statura, assai stempiato, sulla trentina. Parlava un tedesco che a me sembrò perfetto. Si chiamava Vladimir, e non so se venisse da Dresda, ma è assai probabile.


*GIANNI MARSILLI (nacque sul Carso, a cavallo tra oriente e occidente, e vive tra Trieste e la Francia, a cavallo delle Alpi. Malgrado la scomodità e l'età venerabile non ha intenzione di scendere. Tale schizofrenia non poteva che portarlo al giornalismo, lavoro che ha svolto a Trieste, Milano, Roma, Parigi, Bruxelles e un po' in giro per il mondo, soprattutto europeo. Al momento pensionato inattivo)


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