Quando ritrovammo El Che

di GIORGIO OLDRINI*

La notizia me l’aveva data Osvaldo “Chato” Peredo, in visita a Milano a metà giugno del 1997. “Guarda che i cubani a Vallegrande stanno trovando le ossa del Che Guevara”. E Chato era uno dei più informati al mondo su tutto quello che riguarda il Che. Infatti è il fratello dei due luogotenenti boliviani di Guevara: Coco Peredo era caduto in combattimento pochi giorni prima del Che, Inti era sopravvissuto, aveva continuato la guerriglia ed era stato a sua volta ucciso qualche mese più tardi.

Non è questo l’unico legame di “Chato” con Guevara. C’è stata una “maledizione” del Che , vittime tutti coloro che hanno partecipato alla sua cattura ed uccisione. Incidenti, attentati, malattie strane hanno causato la morte dell’allora dittatore generale Barrientos, del suo vice gen. Ovando, di tanti ufficiali e spie.

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(Foto Open clipart - vectors da Pixabay)

Ma nella fine di una delle vittime della maledizione aveva avuto un ruolo importante Chato. Il colonnello Roberto Quintanilla aveva diretto per parte boliviana l’attacco finale al Che e qualche mese più tardi aveva ucciso anche Inti Peredo. Era stato ritratto nella foto di Guevara ucciso a Vallegrande e quindi in quella col cadavere di Inti. Quando poi aveva visto che molti dei suoi commilitoni stavano facendo una tragica fine, Quintanilla si era fatto inviare ad Amburgo come console, ben lontano dalla Bolivia.

Non aveva fatto i conti con la compagna di Inti, una boliviana figlia del tedesco fotografo di Hitler che dopo la caduta del nazismo era riparato in Bolivia. Monica Ertl nel 1971 aveva 31 anni e si trasferì in Europa con l’idea di vendicare il Che e il suo compagno. A marzo di quell’anno arrivò a Milano Chato Peredo e si incontrò con Monica. Giangiacomo Feltrinelli fornì loro una pistola e un’automobile e i due raggiunsero Amburgo. La ragazza si fece ricevere da Quintanilla con la scusa di chiedere un visto per la Bolivia. Era bella Monica e il console-colonnello si fece sorprendere. Lei tirò fuori la pistola e gli sparò tre colpi a bruciapelo, uccidendolo. Poi scappò in strada dove l’attendeva Chato con l’auto di Feltrinelli e i due riuscirono a dileguarsi.

cuba-1379112_960_720jpg(Mercatino a Cuba        foto da pixabay)

Dunque quando Osvaldo Peredo a metà del giugno 1997 mi disse “Guarda che i cubani stanno trovando le ossa del Che a Vallegrande” corsi da Giuliano Ferrara, che era il mio direttore a Panorama, e gli dissi: “Posso scriverti un articolo sulla ricerca dei resti di Guevara”. “Se sei sicuro delle notizie non scrivere niente, prendi il primo aereo e vai in Bolivia”.

Arrivai a Santa Cruz de la Sierra e per qualche giorno mi ospitò un veneziano, professore di ecologia all’Università, in un casa piena di ragni enormi e di serpenti infiniti. Poi noleggiai un’auto e partii per uno dei viaggi più straordinari della mia vita. Da Santa Cruz a Vallegrande ci sono circa 250 chilometri, ma solo una settantina allora erano asfaltati. Il resto era una strada di montagna di continui tornanti, con un fondo di terra rossa e dura che alla fine mi aveva impastato i capelli, dato che viaggiavo con i finestrini spalancati, al punto che quando alla fine avevo tentato di pettinarmi avevo spezzato il pettine. Piccoli gruppi di case, sparse lungo il cammino, spesso con una sorta di cimitero familiare accanto, cactus e caldo soffocante.

Vallegrande era un villaggio di 7 mila abitanti costruito attorno ad una piazza rettangolare, progettata secondo la Legge delle Indie dell’Impero spagnolo, sovrastato da montagne altissime e selvagge. C’erano allora solo due alberghi, per usare una definizione ottimistica. Trovai posto in uno dei due, col gabinetto nel cortile sterrato, un numero inusitato di scarafaggi che giravano tra i 4 letti che costellavano l’enorme stanza in cui dormivo da solo.

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(Le ricerche del corpo del Che    archivio Granma)

Andai subito a cercare i cubani, alcuni dei quali conoscevo già. Il capo del gruppo era il medico Jorge Gonzales, e con lui lavoravano l’antropologo Hector Soto, la storica Maria del Carmen Ariet, l’archeologo Ricardo Rodriguez e tre geofisici, José Luis Cuevas, Carlos Sacasas e Noel Perez. La loro era una corsa contro il tempo, perché ad agosto avrebbe preso possesso della carica di Presidente della Repubblica il gen. Hugo Banzer che avrebbe impedito ai cubani di continuare le ricerche. E c’era una continua campagna di disinformazione. “Il corpo di Che Guevara fu bruciato” diceva ancora 24 ore prima della scoperta della salma il gen. Gary Prado. Ma non solo la destra cercava di impedire che il corpo del Che fosse scoperto e portato a Cuba. Proprio nella piazza di Vallegrande c’era la Casa della cultura, presenza in qualche modo strana in un villaggio perso tra i monti, ma spiegabile con la passione del direttore, il prof. Adhemar Sandoval. Proprio da lui ero andato poche ore dopo essere arrivato a Vallegrande. “Le coincidenze sono tante e apparentemente incredibili – mi aveva detto – Una donna mi aveva raccontato che un giorno Guevara era passato di fianco alla sua povera capanna con un gruppo di guerriglieri. ‘Lì c’è acqua’ aveva indicato verso una roccia. ‘Mai stata acqua lì’, aveva ribattuto la contadina, ma un paio di giorni dopo la parete era crollata sotto la spinta di una nuova sorgente”. Avevo guardato incredulo Sandoval: “Mi stai dicendo che faceva miracoli?” “Qui lo dicono tutti e se un contadino perde una mucca prega il Che perché gliela faccia ritrovare”.

Un’aura di magia riempiva quei luoghi. I primi a cercare i resti del Che erano stati anni prima alcuni esperti argentini. Avevano trovato una fossa comune con tre corpi. L’unico identificato era stato il boliviano Jaime Arana, “ El Chapaco”, caduto qualche giorno prima del Che. Gli altri due non erano stati riconosciuti e nell’attesa che qualcuno li rivendicasse i corpi erano stati portati nella cappella della cattedrale. Piano piano quei poveri cadaveri di due guerriglieri senza nome erano diventati oggetto di culto. Nella chiesa infatti non ci sono reliquie di santi e i montanari avevano adottato quei resti come fossero di qualche martire della cristianità, e hanno cominciato a portare fiori e ad accendere ceri.

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(Le ricerche del corpo del Che     archivio Granma)

Qualche giorno prima della morte del Che i militari boliviani avevano catturato ancora vivo un guerrigliero, “El Loro” Vazquez Viana. Lo avevano caricato su un elicottero e lo avevano buttato giù nella selva. Il fratello Jorge aveva iniziato appena possibile la ricerca del cadavere per dargli sepoltura. Dopo qualche mese era finalmente arrivato al luogo dove era morto il guerrigliero, ma non aveva avuto il coraggio di portarlo via. Il tumulo sotto il quale era sepolto infatti era diventato un luogo di culto per gli indios della selva che lo avevano ricoperto di fiori e di doni e lo veneravano come un Dio venuto dal cielo. Jorge pensò che il fratello stava meglio lì che in un normale cimitero.

La cattedrale di Vallegrande è presieduta da un Cristo nero, altra stranezza in un Paese come la Bolivia in cui i neri quasi non ci sono. “E’ arrivato qui da Malta” mi ha spiegato Sandoval, e infatti Malta si chiama la piazza principale così come l’ospedale, dove venne scattata la famosissima foto del Che morto.

In quel giugno del 1997 i cubani avevano individuato 5 luoghi dove avrebbe potuto essere sepolto Guevara. Il primo scavo era andato a vuoto. La mattina del 28 giugno 1977 ero lì con loro, unico giornalista europeo, ad osservare la piccola ruspa che scavava nel secondo dei possibili sepolcri. Alle 9 in punto Jorge Gonzales cominciò a gridare all’operatore della ruspa “Fermo, fermo”. Scese a precipizio nella buca e cominciò a scavare con le mani attorno a quello che dall’alto sembrava un osso. Ben presto liberò un cranio, in parte danneggiato, dei denti, un omero. Jorge risalì dalla buca e cominciò a ridere e a piangere, ad abbracciare Soto e gli altri, a loro volta commossi fino alle lacrime. Poi si allontanò e con il telefono satellitare parlò con l’Avana “Comandante, lo abbiamo trovato, proprio dove pensavamo fosse”.

Scesi verso la piazza di Malta e il mio albergo per scrivere l’articolo per Panorama. Vicino alla cattedrale una anziana mi guardò. “E tu da dove vieni?” “Dall’Italia” “E cosa ci fai qui?” “Sono un giornalista e sono venuto a vedere la ricerca delle ossa del Che” “E le hanno trovate?” “Proprio adesso, vengo da lì”. “Lo sapevo che lo avrebbero trovato. Tra i cubani che lo cercavano c’è un nero, proprio come il nostro Cristo. Lo hanno portato apposta perché il Cristo di Malta li guidasse”.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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