Quando il Giro si fermò per il Vietnam. E De Zan gridò: “Vogliamo la pace, ma ora fateci partire”

di GIORGIO OLDRINI*

Per me era stato un dibattito interiore impegnativo. Amo molto il ciclismo e l’idea di andare in piazza Duomo a Milano quel 20 maggio 1967 per vedere lo “sprint del cinquantenario”, il prologo del Giro d’Italia numero 50 che prendeva il via in una atmosfera suggestiva, con tanto di passerella in Galleria Vittorio Emanuele, fanfara dei bersaglieri e sfilata di auto d’epoca, era affascinante. 

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Ma ero il segretario della Federazione giovanile comunista di Sesto San Giovanni e componente della segreteria della Federazione provinciale e proprio in quei giorni la guerra del Vietnam aveva avuto una escalation, come si diceva allora, violentissima. Gli Stati Uniti avevano annunciato di avere superato i 500 mila militari in quel Paese e proprio il giorno prima avevano invaso la zona neutrale tra il Sud e il Nord. Molti in tutto il mondo vi avevano visto la premessa per invadere il Nord e arrivare fino ad Hanoi. “Dobbiamo organizzare grandi manifestazioni popolari” scriveva l’Unità e ripetevano i dirigenti del Pci e della Fgci. E noi a Milano avevamo un’occasione irripetibile per “farci sentire”: irrompere nel bel mezzo della corsa e, se possibile, bloccare lo “sprint del cinquantenario”.

Non ricordo bene a chi venne l’idea, ma a noi sestesi venne dato il compito di “tenere la testa del corteo”, come si usava allora. “Siamo sicuri che i tifosi non ci prenderanno a pedate nel sedere?” chiese qualcuno, ma eravamo troppo giovani ed indignati per temerlo.


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Decidemmo di prenderla da lontano, per ingannare la polizia e per cercare di arrivare in piazza Duomo poco prima della partenza del Giro, annunciata a mezzanotte in punto. Il ritrovo fu davanti al consolato statunitense in via Vittor Pisani, zona della Stazione Centrale per chi non conosce Milano. Noi sestesi decidemmo che avremmo fatto scritte per terra e allora non c’erano bombolette spray, ma si usavano secchi di biancone e pennellesse. Ma come arrivare lì con tutto questo vistoso apparato senza che la polizia intervenisse? Renato era il vice segretario della Fgci di Sesto, operaio alla Faema, e suo padre per la stessa azienda andava in bar e centri sociali a rifornire di caffè le macchinette automatiche e a ritirare i soldi. Aveva per questo una 600 multipla aziendale e accettò di prestarcela la sera precedente. 

Renato, 18 anni, rotondetto e sorridente, Giordano, 17 anni, secco e perennemente imbronciato come se si caricasse sulle esili spalle i destini del mondo, Tina, 17 anni, che sarebbe poi diventata mia moglie, seria, schiva e tosta, ed io caricammo la 600 della Faema di pennellesse e secchi di biancone e la parcheggiammo nei pressi di via Vittor Pisani. La guidai io perché con i miei 21 anni ero il più grande del gruppo, l’unico con la patente di guida. Quando il corteo arrivò lì, andammo all’auto, scaricammo, scrivemmo per terra “Vietnam libero” “Johnson boia” “Fuori gli Usa dal Vietnam” e riportammo il tutto in auto.

Poi girammo per Milano, seguiti da camionette di poliziotti, a volte minacciosi, a volte annoiati e alla fine stanchi. Mano a mano che ci si avvicinava al circuito cittadino di 16 chilometri, la folla si infittiva, ma molti ci applaudivano e persino qualcuno si aggiungeva al nostro corteo che divenne imponente e mescolava manifestanti con tanto di bandiere e striscioni con curiosi e con alcuni che speravano di arrivare vicino alla corsa grazie al nostro traino.


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In Galleria i corridori avevano cominciato a sfilare. Felice Gimondi, bergamasco serio che incontravo a volte quando si allenava sulle strade della Val Brembana dove lui abitava a Sedrina e dove noi andavamo in vacanza, Gianni Motta biondino e bello, un giovane Eddy Merckx, un già maturo Jacques Anquetil che si diceva amasse champagne e belle donne, meglio se insieme, e che aveva rilasciato il giorno prima una divertente intervista: “Les italiens, mi amano quando vinco, ma mi adorano quando perdo”. 

La fanfara dei bersaglieri riempiva con le sue corse e le sue note la Galleria, mentre con qualche difficoltà, data la calca, sfilavano le 42 auto d’epoca. Sul palco costruito sulla piazza del Duomo proprio appena fuori la Galleria Adriano De Zan informava il foltissimo pubblico sul procedere della manifestazione e spiegava che l’ora ics era proprio la mezzanotte, quando finalmente sarebbe stato dato il via alla corsa del cinquantesimo.

Noi arrivammo dalla parte di piazza Missori ed entrammo prima in silenzio per cercare di confonderci con i tifosi, poi, una volta dentro le transenne che delimitavano la pista, alzammo bandiere e striscioni e cominciammo a gridare gli slogan. “Vietnam libero” “Yankee a casa” “Johnson boia”. De Zan dalla sua postazione capì che qualcosa non andava e decise prontamente di cercare di ammansirci. “Anche noi siamo per la pace, ma la corsa deve partire. Tutti vi hanno visto, molti condividono le vostre proteste, ma adesso uscite dalle transenne e tornate tra il pubblico dei tifosi”.

Il corteo, noi sestesi in testa con il nostro striscione sul quale avevamo lavorato per due sere nella sede della Camera del lavoro di Sesto, avanzò scandendo gli slogan. Qualcuno poi ci spiegò che la Rai tv con equilibrismi da virtuosi della telecamere aveva evitato di inquadrarci, ma la nostra voce e soprattutto quella di De Zan non si poteva mettere a tacere. Arrivammo fin sotto il palco di tubi Innocenti addobbati con bandiere fiori e colori dove c’erano le autorità, l’organizzatore del Giro Vincenzo Torriani e la postazione della Rai. Gridammo ancora più forte, mentre dal pubblico si mescolavano curiosità e persino qualche applauso. 

De Zan proseguiva nella sua scelta di dichiararsi d’accordo con noi. “Pace, pace, pace” gridava al microfono. Poi di nuovo “Siamo per la pace, ma adesso lasciate partire la corsa”. Io cercavo di tenere insieme le mie due passioni, guidare la testa del corteo con i miei compagni di Sesto e scorgere almeno qualche campione, Gimondi, Anquetil, Motta. Ma niente, loro erano rimasti in Galleria.

Ormai era l’una quando Torriani diede l’ordine di togliere lo striscione del traguardo proprio davanti al Duomo e alla Galleria Vittorio Emanuele. De Zan tacque, noi riavvolgemmo striscioni e bandiere e tornammo in via Vittor Pisani a recuperare la 600 multipla del padre di Renato, con le pennellesse e gli avanzi di biancone. Ero soddisfatto, tutti il giorno dopo avrebbero parlato della nostra manifestazione, il folto pubblico non solo non ci aveva preso a calci nel sedere, come temeva qualcuno, ma aveva sostanzialmente appoggiato i nostri slogan. E spingere De Zan a dichiararsi per la pace nel Vietnam davanti a migliaia e migliaia di tifosi in piazza Duomo e alle tv di mezzo mondo era una soddisfazione non da poco. Ma in fondo al mio animo un po’ di amarezza per avere fermato il Giro del cinquantenario mi era rimasta. Ero giovane, ma avevo già capito che a volte le passioni sono tra loro inconciliabili.

Nb. Per la cronaca quel Giro lo vinse Felice Gimondi da Sedrina. Una soddisfazione per me, cittadino onorario della Val Brembana.


*GIORGIO OLDRINI (Sono nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama. Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto “Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)

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