Procida assediata dal turismo. "San Raimo', liberaci tu" il fotoracconto

 di TINA PANE*

La prima estate a Procida è stata quella del ’73, in villeggiatura con la mia famiglia in una casa condivisa con la famiglia della sorella di mia madre. Ero un’undicenne timida e stetti molto da sola, ad annoiarmi, né l’unica amicizia che strinsi - una coetanea di Ancona, tale Felicia - cambiò le cose, perchè Felicia era più sola di me e insieme sembravamo due precoci zitelle.

Di quell’agosto interminabile ricordo le mattinate alla spiaggia della Chiaiolella (un bagno lungo, poi il cambio del costume e basta mare),

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le lunghe dormite pomeridiane da cui mi svegliavo stordita e malmostosa, i giri dell’isola tutti stipati nella Peugeot familiare di mio zio che ci portava alla Marina o a Santa Margherita per guardare da dietro il cancello il ponte che conduceva all’inaccessibile Vivara.

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Ricordo anche le litigate a mezza voce tra i miei genitori per gli acquisti di mio padre alle paranze, chili e chili di pescetti da pulire e friggere, per il godimento di tutti a scapito della fatica di una, la cuoca predestinata, mammà.

Ricordo confusamente i malesseri di quell’età e un capriccio che presi per una orribile collana di conchiglie, che non mi fu comprata. Ma nonostante tutta questa insofferenza, fremetti di speranza quando a fine agosto la notizia dell’epidemia di colera a Napoli fece valutare di lasciare donne e bambini al sicuro sull’isola, tra l’altro così ricca di limoni

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che a Napoli già costavano come dal gioielliere. Desideravo restare perchè sarebbe stato un controtempo, un’avventura da raccontare ai nuovi compagni di classe delle medie. Durò poco la speranza, perchè il parere dello stimato pediatra ci fece tornare tutti e nei tempi previsti: “Se mettono il cordone sanitario, restate a Procida fino a Natale!”, tuonò il luminare. 

A Procida poi cominciai a tornarci da pendolare, con gli amici della parrocchia, nel ’79. Due o anche tre volte alla settimana, tra giugno e luglio, con una formula scientificamente studiata per contenere i costi. Metropolitana da Montesanto a Pozzuoli (£50), vaporetto (£150), autobus dal porto alla Chiaiolella (£100) e scalata a piedi del promontorio di Santa Margherita, aggiramento dello pseudo cancello che vietava l’ingresso a Vivara, attraversamento del ponte e posizionamento sui primi scogli a destra, abbastanza comodi e soprattutto a nostra completa disposizione. Tutta la giornata a cuocerci al sole muniti di colazione al sacco e borraccia d’acqua, con l’unico lusso di un gelato o una granita aspettando l’ultimo vaporetto utile, quasi al tramonto. 

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Giornate di una gioia povera e completa, insaziabile di baci e mani lunghe, un intenso e ripetibile godimento che dava senso al tempo tra la fine della scuola e l’inizio della villeggiatura. Ero libera di farmi quanti bagni volevo, di non cambiarmi il costume e di guardare con disprezzo chi s’imbarcava con la busta di pesce comprato alle paranze. 

Poi basta Procida, per molti anni, fino agli inizi del ’90, quando il mio fidanzato (poi marito) mi portò sull’isola una domenica d’inverno, con la Panda e un Ficus Benjamin da salvare. Aveva una casa affittata tutto l’anno con un terrazzino che affacciava su una coltre di verde:

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orti e limoneti inframmezzati a tetti e cupole, a voli bassi di uccelli e rintocchi di campane che ci rovinavano il sonno. Scoprii allora che l’isola non era solo spiagge e scogli ma brulichio di umani e motorette, portoni scalcinati che nascondevano meraviglie,

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storie di naviganti ed ergastolani,

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passeggiate per sentieri nascosti che costeggiavano case abusive e campi di carciofi e pomodori. Scoprii l’antica architettura procidana di Casale Vascello,

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le ville panoramiche di Solchiaro protette da alti cancelli, la dolcezza del panorama della Chiaia da Punta Pizzaco,

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l’atmosfera irreale di Terra Murata, dell’Abbazia e del carcere ormai chiuso.

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E d’inverno scoprii il caldo rifugio della Corricella, con l’unico bar frequentato solo dai pescatori, e ragazzini che quando non giocavano a pallone improvvisavano bancarelle con le vestigia di casa: bicchieri e calici spaiati, qualche brocca, centrini all’uncinetto, conchiglie da accostare all’orecchio per sentire il mare quando te ne veniva la nostalgia.

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Fu un’altra stagione, un altro rapporto. Ormai adulta, iniziai ad apprezzare un’isola scomoda e schiva, che nulla faceva per piacere, per offrirsi. Iniziai a conoscerne gli inverni umidi, i Corpus Domini rallegrati da bandierine colorate,

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i risvegli della natura a primavera introdotti dalla teatrale processione dei Misteri del Venerdì Santo.

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 Weekend, Pasque, Natali e Capodanni, ogni occasione era buona per fuggire sull’isola, invitarci amici e condividere piaceri non mondani: preparare l’infusione per il limoncello, comprare gli zoccoletti caldi del secondo forno e mangiarli già per strada, affamati dopo una giornata in spiaggia a via dei Bagni, risolvere la cena con uno spaghetto con le cicale e un’insalata di limoni. Le paranze, uscite dalla porta, erano rientrate dalla finestra. 

All’inizio del nuovo millennio ho ripreso a frequentare l’isola coi figli piccoli e solo d’estate. Non era più il tempo di case lontane dal mare e di spiagge libere raggiungibili con le scale, era il tempo di prendere l’ombrellone al Lido, scendere presto al mare, rientrare per il pranzo, tornare in spiaggia nel pomeriggio: una fatica infinita compensata dai lunghi e struggenti tramonti della Chiaiolella e dalle serate in giardino, coi figli finalmente addormentati, a guardare alle stelle e al futuro.

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Le rare volte che l’amministrazione deliberava un divieto di circolazione serale, spingevamo i passeggini da un capo all’altro dell’isola, fino alla Marina, a cercare un po’ di vita e di movimento, qualche casuale incontro, perchè casa nostra non era più il polo d’attrazione di qualche anno prima e l’isola scomoda che tanto avevamo amato era diventata troppo scomoda, o noi troppo stanchi per apprezzarla. Scoprimmo i villaggi turistici in bassa stagione, la casa in Calabria di mio padre, i campeggi in casamobile, e abbandonammo Procida e le paranze. 

Nel 2011, dopo un inverno di grandi prove e con i figli appena over 10, il richiamo dell’isola si è fatto risentire come una voce familiare, siamo tornati e da allora non l’abbiamo più lasciata. Ma mentre i figli crescevano e stabilivano loro dinamiche e relazioni, mentre noi riconquistavamo tempo e libertà, l’isola cambiava. Sotto i nostri occhi, lentamente cambiava.

La spiaggia del Cimitero, o di Pozzovecchio, è diventata la spiaggia del Postino.

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 Alla Corricella il lungo molo è stato conquistato da ristoranti, bar e gelaterie e ogni buco utile è stato ristrutturato e messo in fitto ai turisti stranieri che trovano il posto moolto pitoresco. Nuovi hotel sono nati in ogni parte dell’isola e molti appartamenti che prima venivano affittati solo mensilmente sono ora gestiti tramite piattaforme come Airbnb o Booking per soggiorni brevi.

Nei piccoli bus che sfidano le leggi dell’incompenetrabilità dei corpi, voci settentrionali, ma anche spagnole, giapponesi, inglesi e soprattutto francesi (figli di seconda o terza generazione di emigranti) chiedono informazioni sulle spiagge, le fermate, la zona dello shopping (che però non esiste). Tutti i giorni alla Silurenza, la spiaggia del porto, una fiumana di pendolari puteolani pianta le tende (anzi gli ombrelloni, le sedie, le borse frigo e vari metri quadri di teli e asciugamani) e bivacca finchè il sole non cala e arrivano famelici i gabbiani.

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 L’elezione della Graziella ha assunto lo stile di una serata Sanremo in sedicesimo, con due presentatori, prove di karaoke e domande per appurare se le candidate conoscano la storia e la cultura dell’isola (e transeat se la vincitrice dell’anno scorso, pur essendo di nascita procidana, ha sempre vissuto a Napoli).

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Sono proliferate le bici elettriche, le sale giochi, i punti ristoro automatici aperti h24. Il porto turistico si è ingrandito, 

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al negozio che noleggia bici e scooter c’è sempre viavai e alla biglietteria per gli imbarchi sempre la fila. I prezzi sono aumentati, tutti, anche quelli delle paranze, e per andare in pizzeria o al ristorante è necessario prenotare.

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L’adozione del divieto di circolazione tutti i giorni dalle 19 alle 3, la chiusura quasi totale dei negozi la domenica, la proverbiale lentezza dei negozianti, il mantenimento di lunghi tratti di spiaggia libera (dotati di docce pubbliche), la mancanza di locali e discoteche, un ambiente sostanzialmente sano (e molto vigilato dalle forze dell’ordine) sono un baluardo all’imbarbarimento, al processo di modernizzazione che se andasse avanti farebbe assomigliare l’isola a tanti altri (bei) posti di mare del nostro Sud.

 Ci siamo difesi in questi anni, mio marito continuando a indagare sulla storia dell’architettura dell’isola, io calpestando ogni viuzza, ogni basolo, ogni sentiero per scattare foto dei posti, degli angoli e degli scorci più sconosciuti e veri. Con gli amici che vengono qui da più di 50 anni, che addirittura sono certi di essere stati concepiti sull’isola, ci auguriamo che la folla si stanchi, che la curiosità diminuisca, che i turisti si deludano per la mancanza di mondanità e comodità.

Noi resistiamo, è il nostro posto al sole. Anche quest’anno torneremo, chiedendoci come sarà possibile il distanziamento sulle strette spiagge isolane e comprendendo le ragioni dei Procidani, che ogni estate invocano il Santo per liberarsi dei forestieri: “Adda venì San Raimondo!”.

n.b. san Raimondo si festeggia il 31 agosto

* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)

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