Praga la magica, senza più primavere

di ANDREA ALOI*

Poco prima di noi era arrivato un polacco su una 126 bianca e in due gliela stavano smembrando con una certa flemma, seguendo la procedura. L’uomo, un anonimo quarantino di un diafano molto polacco, osservava senza particolare emozione. Era la procedura.

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Fine dicembre 1974, in auto da Salisburgo seguendo il classico tragitto verso nord, avevamo lasciato dolci colline e appena superato Pyhrabruck stavamo fronteggiando la Cortina di Ferro che tagliava in due l’Europa. Al di là del casotto di guardia c’erano Nové Hrady e la ČSSR, la Repubblica Socialista Cecoslovacca, regnante Gustáv Husák il Normalizzatore, un puntiglioso repressivo senza eccessi neroniani ma ben conscio che al minimo passo falso Mosca se lo sarebbe fottuto. Un conto è dire “di qua e di là”, Occidente e “comunismo”, un conto annusare col muso un’altra buia dimensione, come in un racconto di Lovecraft. I militi di frontiera ci fecero accostare, un’occhiata (attenta) al baule del Maggiolino Volkswagen, controllo dei passaporti nel locale di guardia ben fornito di riviste pornografiche sequestrate ai corrotti figli dell’imperialismo e avanti, si passa. In quel momento il polacco, sempre composto, assisteva allo smontaggio dei pannelli interni delle portiere, subito accumulate vicino al copribagagliaio, alle valigie spalancate e rimestate e a una quantità impressionante di cibo in scatola.

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(Ponte Carlo,  foto da Pixabay)


Passare il Capodanno a Praga, questa era l’idea. Ammirare le infinite bellezze di un gioiello incastonato nella Mitteleuropa, il Ponte Carlo sulla Moldava, via Nerudova, Malá Strana, il ghetto e il cimitero ebraico, l’orologio della Città Vecchia. E lassù il Castello di Hradčany. Letto Kafka non ci sembrava più un monumento svettante di tranquilla imponenza, un memento della storia boema. Era diventato, per noi, due ragazzi e due ragazze torinesi di gauche e però al calduccio dell’ombrello Nato, un simbolo del potere imperscrutabile, muto, padrone dei sogni. Il Potere non si indaga, non si spiega. Il Potere “è”. Non va osservato, però deve essere visto, deve comunicare - tacendo - la sua onnipresenza.


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La sera del Capodanno in piazza Venceslao - in realtà un largo e lungo viale - pochi facevano festa e non solo per via di uno strano freddo umido che impolverava di brume i profili dei palazzi. Davanti al Museo Nazionale nessuna traccia del sacrificio, pochi anni prima, di uno studente ventenne di filosofia che lì si era dato fuoco come un bonzo. La Primavera sessantottina era passata ma non trascorsa. Dopo Ian Palach si erano uccisi altri tre ragazzi col fuoco, uno studente e due operai, ma il tributo quotidiano fatto di candele, lettere, fiori si concentrava davanti al Museo, dove lui, primo dei martiri, si era consacrato a simbolo, e ogni idea d’affettuoso, doloroso rispetto veniva regolarmente rimossa. Gli antichi romani la definivano damnatio memoriae. Inopportuno (peggio che vietato…) il pellegrinaggio alla sua tomba, Ian era stato riesumato e cremato, le ceneri consegnate alla madre. Dubček, il socialista “dal volto umano”, ormai faceva l’operaio di un'azienda forestale in Slovacchia.

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(Piazza Venceslao, foto da Pixabay)


Proprio in piazza Venceslao trovammo a fatica, in quel 31 dicembre 1974, un locale tipo night club per mangiare qualcosa e bere un bicchiere. Bastava scendere una ventina di gradini e avremmo dimenticato i cingoli dei carri armati sovietici che giusto qualche metro di sopra avevano spianato speranze (quel genere di fiori che ogni tanto spuntano qua e là nei prati del mondo e vengono il più delle volte recisi). Il luogo era losco, luci basse oltre le normali esigenze per un posto del genere. Un riuscito cocktail tra il bar di Casablanca dove “suonala ancora Sam”, l’anticamera di un bordello e una seduta di autocoscienza per spie euro-balcaniche. Ordinammo a un cameriere, molto compito e attento a non dar confidenza, quattro wiener schnitzel - risultate nel prosieguo della notte digeribili come una mattonella di strutto congelato o una porzione troppo coraggiosa di salama da sugo - e una bottiglia di spumante. Naturalmente ne portarono uno dolce. E di certo qualcuno ci teneva d’occhio, con professionale sobrietà. La polizia segreta, la STB (Státní Bezpečnost, Sicurezza dello Stato), era dappertutto, golosa di informazioni, meglio se erano delazioni e meglio ancora se erano delazioni del figlio ai danni del padre o del marito ai danni della moglie.

La scuola, nonostante tanta acqua fosse passata sotto il Ponte Carlo, era quella di Stalin, che nel climax delle purghe d’antan aveva suggerito la misura aurea della repressione al suo ministro della Giustizia (“giustizia”: ai tiranni ogni tanto piace anche scherzare con le loro prede): “D’accordo, è giusto punire i colpevoli, ma vuoi mettere l’effetto che fa punire gli innocenti?”.

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(Praga      foto da Pixabay)


In città era aria di poche parole e vaga malinconia. Avevamo amato subito quel vecchio posto, nonostante il clima umanamente plumbeo. Una miniera favolosa di scorci, storie, stili architettonici da godersi a spasso per tutta la giornata. Tiravi dritto, ti perdevi ed ecco la Staronová Synagoga, la più antica dell’Europa Centrale, l’incredibile sontuosità della Biblioteca di Strahov e tanta manna in genere per chi voleva surfare tra gli stili, dal romanico al gotico al barocco. Parlavamo tra noi, elencando quello che era successo alla città nel corso dei secoli: quattrocento anni sotto il tallone dei cattolicissimi Asburgo in una regione venata da radicalismo protestante (il movimento hussita), i nazi, i sovietici, le ricorrenti febbri persecutorie antiebraiche in una città culla del giudaismo. L’uomo è un animale molto adattabile, forse Praga la colta e sapiente avrebbe fatto il callo al suo destino da paese baltico? Ricordo una sera ben accompagnata da una bottiglia di rosso moravo e condotta in porto da bicchierini di slivovice, quando il buon Sc’vèik all’ultimo atto rubò la ribalta. E sconfisse a mani basse il pessimismo.

Perché nelle vene di Praga circolava l’esprit dell’antieroe di Jaroslav Hašek, satiro paffuto contro la follia militaresca e la boria dell’Impero austro-ungarico. Hašek nelle prime pagine del “Buon soldato Sc’vèik”, aveva dato così la parola alla sua immortale creatura dopo l’attentato di Sarajevo contro l’arciduca Ferdinando: “Perché mai esisterebbe la polizia se non per punirci a causa delle nostre linguacce? Se i tempi son così gravi da farci assistere all’assassinio d’un arciduca, non c’è da stupirsi d’essere messi in guardina. Tutto si fa per dar più fastigio e perché l’arciduca possa farsi una buona pubblicità prima del suo funerale”.

Come mai avrebbe potuto Praga metabolizzare il veleno peggiore di tutte le intolleranze, la stupidità?

Tanto Sc’vèik, picaro intimamente disarmato, riesce a destreggiarsi in guerra obbedendo ciecamente agli ordini, tra candore e astuzia, quanto l’ebreo Kafka soccombe senza arrendersi nella vita al padre e nella scrittura al potere, quello che sta lassù al Castello o che lo mette a Processo. E scava, scava Franz come un tarlo in pagine di angosciato cristallo. Potete zittire Praga, lei dentro continuerà a macinare, sorvegliata dai suoi numi protettori. Fu una bella serata, intelligentemente alcolica.

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(Praga, il Castello     foto da Pixabay)

È possibile ammanettare i flussi di una linfa potente? Stabilire per comando assoluto l’uniformità là dove brulicano tante correnti culturali, tradizioni religiose differenti? Cattolici, hussiti, ortodossi, evangelici (Palach era un protestante). Dove avevano trovato rifugio nel ‘500 tanti eretici italiani? La trecentesca Università Carolina. L’arte e la Nová Vlna, la Nuova Onda nel cinema, con Forman e Menzel, prosciugata d’autorità nel dopo-Dubček. Gli alchimisti e gli occultisti alla corte di Rodolfo II. Il cabalista ebreo Jehuda Löw e il Golem, il colosso d’argilla cui si dà vita perché ripari i torti subiti dal popolo ebraico. Il miracolo della prosa scintillante di Bohumil Hrabal, moravo dai cento mestieri: comparsa, preparatore di malto in una fabbrica di birra, macchinista, imballatore di carta da macero, commesso viaggiatore. La dolcezza della diversità. Le care vecchie pietre intrise di passato e di storie. Dovevano vincere, avrebbero vinto.

In quella Praga oggi così lontana annotavamo silenzi e lo stupro di una delle nostre patrie spirituali, il sequestro di un pezzo d’Europa che con la Primavera e il vento di protesta degli anni Sessanta voleva semplicemente riprendere il suo posto naturale accanto a Parigi, Roma, Berlino. Una sera da U Fleků, storica birreria nella Città Vecchia, parlammo, a fatica, con una coppia di ragazzi quasi vergognosi della spoliazione umana e civile che pativa il loro Paese. E un poco ci vergognavamo pure noi di essere stati così felici, demoliti dalle camminate e gloriosamente ristorati da un umido di carne, una zuppa, uno strudel.

La mattina della partenza, un vecchio cameriere s’infilò nell’ascensore e tirò fuori dalla tasca lo spigolo di un piccolo fascio di banconote, strizzando l’occhio. Voleva far cambio coi nostri dollari. Le sue corone erano, praticamente, moneta virtuale, ma lo accontentammo, come fosse una carezza a Praga, contenti di tornare a rivedere le nostre stelle e i nostri guai.

 

*ANDREA ALOI  (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro) 


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