Pirenei confine d'Europa, fra paladini e contrabbandieri
di MATTEO COSENZA*
Avevo portato il libro sbagliato. Più che ”Fiesta” avrei fatto meglio a mettere in valigia l’ ”Orlando furioso”, ma forse, anche sapendolo, non lo avrei fatto se non altro per il peso e l’ingombro dei tre volumi del poema di Ariosto, certamente non una “guida” tascabile. In realtà, quando eravamo partiti da Napoli non pensavo affatto alla possibilità di incontrare il “paladino”. Moglie e figlie, 17 e e 15 anni, ignoravano che del nostro viaggio mi interessava soprattutto l’appuntamento con San Firmino, la festa, i tori, la Spagna. E la festa cadeva proprio in quei giorni di luglio del 1992 quando saremmo stati a un tiro di schioppo da Pamplona.
Era stata una lunga galoppata. Sosta notturna a Ventimiglia prima di entrare in Provenza: Arles, Avignone, la Camargue, i cavalli, un anticipo dei tori, i fenicotteri rosa, la Madonna Nera... Poi Barcellona. Un cantiere che freneticamente si stava chiudendo in vista del 25 luglio, giorno di inaugurazione delle Olimpiadi, mentre la famiglia chiedeva: «E dopo dove andiamo?». La prendevo alla larga parlando di una città in festa, promettendo che ci saremmo divertiti e che lo spettacolo a cui avremmo assistito sarebbe stato indimenticabile.
Partimmo di buon’ora lasciando il Mediterraneo per arrivare a fine mattinata quasi in vista dell’Atlantico. Una tranquilla marcia avendo sulla destra i Pirenei, mentre di tanto in tanto intrattenevo i miei decantando la corsa dei tori che li avrebbe divertiti un mondo. Ci fermammo ai margini del centro mentre si vedeva già un gran movimento di gente, soprattutto di lenzuola bianche isolate o radunate a capannelli, che, se fosse stata notte, avrebbero evocato i fantasmi. Segno che l’evento era in pieno svolgimento, nulla che rimandasse al risveglio di Hemingway: «La mattina era finito tutto. La fiesta si era conclusa… La piazza era deserta e non c’era nessuno per le strade. Solo qualche bambino che raccoglieva aste di razzi nella piazza. I caffè si stavano appena aprendo e i camerieri portavano fuori le comode sedie bianche di vimini, disponendole intorno ai tavolini col ripiano di marmo all’ombra del portico. Stavano pulendo le strade e annaffiandole con un idrante».
(Pamplona foto da pixabay)
Mi fermai nei pressi di un ufficio informazioni. Scesi dall’auto mentre una preoccupata raccomandazione a tre voci mi accompagnava: «Fai presto». Non ero l’unico in quella sala affollata e rumorosa. Finalmente fu il mio turno, ebbi le notizie che mi servivano e uscii con l’indirizzo di un albergo al quale una cortesissima impiegata aveva già telefonato. Non mi ero reso conto del tempo trascorso, fuori, nella piazzetta e nella strada che si proiettava verso il centro della città, c’era una moltitudine disordinata e fluttuante di persone. A ben vedere il panno che indossavano non era proprio bianco bensì macchiato vistosamente di rosso o di un giallo denso, sporco insomma di vino o di birra. Per terra bottiglie intere o in frantumi e tra i cocci c’era chi era riuscito a trovare uno spazio per riposarsi. Puzza d’alcol, canti, urla, qualche spinta, un ondeggiare allegramente incontrollato, un’ubriachezza diffusa e vistosa che metteva in allarme. Popolo sì caliente ma in quel caso raggelante.
Me ne resi conto entrando nell’auto sigillata dai finestrini chiusi e dalle sicure alle portiere. Un silenzio stridente con il chiasso di fuori. Mia moglie non dovette neanche fiatare, mi bastò vedere dallo specchietto i volti delle figlie sul sedile posteriore e chiedere retoricamente: «Andiamo via?». Non fu necessario che rispondessero. Misi in moto e ripresi la marcia nella direzione da cui eravamo giunti. Addio Pamplona, addio tori, addio mio amato scrittore.
Appena fuori dalla città ci fermammo a pranzare e, non avendo idee chiare sulla prossima tappa e per di più escludendo di rifare gli oltre trecento chilometri di autostrada dell’andata, cercammo di avere qualche suggerimento dai presenti. Per non farla lunga, attorno a noi si radunò una piccola folla. Chi proponeva una cosa, chi un’altra, noi fummo tentati dalla possibilità di andare in Francia attraverso i Pirenei. Intanto però bisognava prima fermarsi da qualche parte e pernottare. Eravamo nei pressi del passo di Roncisvalle, lì vicino c’era un delizioso paesino dal nome suggestivo, Isaba, quasi un ultimo avamposto prima della salita, dove ci recammo convintamente.
Eravamo in un luogo leggendario, teatro di epici scontri tra cristiani e musulmani, dove la “chanson de geste” era diventata la “Chanson de Roland”, il paladino Orlando che per salvare la spada Durlindana, donatagli da Carlo Magno, trovò la morte nella Battaglia di Roncisvalle. Leggenda che, con variazioni sul tema, diventerà immortale prima con Matteo Maria Boiardo e il suo “Orlando innamorato” e definitivamente con il capolavoro eterno dell’Ariosto. Si poteva ben dire che l’imprevisto cambiamento del programma pamploniano aveva riservato al viaggio una direzione ancora più interessante.
La mattina dopo, il cielo su Isaba era plumbeo. Non era l’epoca dei navigatori e dei telefonini e peraltro non trovammo una carta geografica per quel pezzo di territorio, dunque chiedemmo all’albergatore le indicazioni per la traversata. Credo che anche Orlando gli avrebbe lanciato qualche anatema a posteriori per quella disinvolta sicurezza con la quale ci rassicurò sulla facilità di andare in Francia, verso Tolosa. Ci indicò la strada che, lunga e diritta per un buon tratto, conduceva alla montagna. «Seguitela, non potete sbagliare, vi troverete in Francia senza difficoltà», ci assicurò con uno spagnolo abbastanza comprensibile. E così ci lasciammo alle spalle memorie, storia, paladini e crociate, convinti che ormai, pur ancora con qualche tappa, eravamo sulla strada del ritorno.
(Pirenei foto da pixabay)
Dopo una ventina di minuti fu chiaro che la scalata era iniziata. E fin qui nulla di grave. Fatto sta che dopo un po’ penetrammo in una nebbia fitta che nascose qualsiasi vista, figuriamoci i panorami. Ci volle poco per capire che la strada, che ci era sembrata non larga ma comunque percorribile, in realtà fosse strettissima. Soprattutto la paura prese il sopravvento quando ci rendemmo conto che su un lato, prima il destro poi il sinistro a seconda del tornante, non c’era parapetto e il precipizio era a pochi centimetri. Fermarsi? Meglio di no perché saremmo rimasti in quella prigione. Procedevo quasi a passo d’uomo, con gli occhi sgranati, in un silenzio sepolcrale dell’abitacolo perché moglie e figlie erano terrorizzate. E quella stradina, che mi sembrava una mulattiera, non finiva più. Tornare indietro? Ma era impossibile fare retromarcia o inversione. Il pericolo più grosso lo corremmo quando davanti al cofano comparve all’improvviso una monumentale mucca, finita su quel tratto di strada, che doveva ben conoscere, chissà come. Faticosamente ci facemmo spazio anche perché la bestia non aveva alcuna fretta. Unica consolazione fu pensare che per starci quella mucca da qualche parte dovevano esserci anche una fattoria, delle persone, qualcuno a cui chiedere aiuto. E cercai di sfruttare questa speranza per attenuare la disperazione delle mie donne.
(Tolosa foto da pixabay)
Non so quanto durò questo incubo, sicuramente moltissimi chilometri, fin quasi ai 1700 metri di quel passo. Quando finalmente la nebbia si diradò davanti a noi si aprì un paesaggio lunare. La strada non si arrampicava più, a tratti attraversava un piccolo altopiano. Finalmente una persona. Da lontano ci osservò con curiosità che divenne stupore quando si avvicinò e si rese conto dell’equipaggio che era a bordo. Sembrava quasi volesse dirci: ma chi vi ha mandato quassù? Riuscimmo solo a capire che proseguendo ancora per qualche chilometro sarebbe iniziata la discesa, praticamente eravamo al confine tra Spagna e Francia, in un passaggio, ci fu detto in seguito con non celato stupore a Tolosa, che era usato da sempre dai contrabbandieri.
Le nostre disavventure non erano terminate, anche se quelle di dopo furono rose e fiori. In quei giorni la Francia era paralizzata dallo sciopero dei camionisti. Ce ne accorgemmo molto prima di entrare a Tolosa. Dove arrivammo grazie alla provvidenziale cortesia di una signora che si trovò, ferma anche lei, accanto alla nostra auto. Le dicemmo che dovevamo andare in città e lei ci disse di seguirla. Prese strade secondarie e correva come una pazza, ci lasciò quasi dentro Tolosa. Mentre la salutavamo vedemmo che entrava in un piccolo edificio con una grande insegna di cui leggemmo solo la parola psychiatrie... Un sorriso ci voleva, prima di riprendere, per tappe, la via di casa. Certo, un ritorno senza Fiesta, ma volete mettere Roncisvalle, Orlando e i contrabbandieri?
*MATTEO COSENZA (nato nel 1949, è un giornalista. Napoletano di Castellammare di Stabia, meridionale con un quarto calabrese, italiano a 24 carati, nonostante tutto europeo, ospite transitorio della Terra)
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