Piemonte, teoria e pratica della “merenda sinoira"
di ANDREA ALOI*
Astenersi perditempo. Qui si parla di “merenda sinoira”, singolarissima forma di situazionismo cibereccio tipica del Piemonte, con tutte le fisse e gli inchiodi alimentari della regione, dalle acciughe sotto sale ai carpioni, dall’aglio al sabba degli antipasti e dei contorni, che da comprimari diventano protagonisti.
Un’appetitosa tappa di fine gita primaverile o autunnale? Una pausa dal duro lavoro in campagna? Uno slittamento dal dovere di nutrirsi al nitido piacere della gola? Intanto, cosa “non è” la merenda sinoira? Non è il brunch urbano fichetto da weekend a cavallo di prima e seconda colazione (breakfast + lunch), perché la merenda sinoira entra in scena a pomeriggio inoltrato e non prevede pancakes, bagels al salmone, uova, spremute, caffè sbrodato all’americana ma bocconi fieri di sapore, non meno sazianti che allettanti, come vedremo a breve, procurandoci robusta salivazione. Non è una merenda tout court perché non se la cava con una fettina di pane e qualcosa o un frullato. E non è una cena per motivi di orario anticipato rispetto al convivio serale.
(Acciughe al verde)
La magica
“merenda sinoira” da antica, ristorante abitudine contadina si è trasformata in
appendice della giornata festiva e prospera nella provincia piemontese, dove
alligna in trattorie-bar attrezzati alla bisogna, osterie di passo, empori con
banco alimentari e qualche tavolino, di quelli che dalla primavera in poi come
porta hanno strisce di plastica multicolori datate 1959. Se poi tali locali
indefinibili e persi su strade provinciali che tagliano paesi in due hanno
pure un bersò esterno e avventori âgées con cappello adesivo alla testa e
intenti alla briscola davanti al mezzo litro, potete essere sicuri di aver
trovato il posto giusto.
Merenda sinoira. Un casse-croûte, direbbero i francesi, un piccolo, vigoroso pasto, nella fattispecie per rompere il digiuno a sole calante, quando non si distinguono più i languori melanconici del buio incipiente da quelli di stomaco. “Sinoira”, cenereccia, tendente alla cena, a lei assomigliante. Da non confondere - se si ha un minimo di onestà intellettuale - con l’apericena, il dominante rito del dopo-ufficio e dopo-università, dove imperano mangiarini e stuzzichini, corroborati da prosecco o spritz. Aperitivo e cena insieme, perché sostitutivo, se abbondante, dell’appuntamento con la tavola delle otto/nove. Quasi un bisogno inderogabile, dovuto alla penuria di altre occasioni socializzanti e alla speranza - nel caso “dei” e “delle” single metropolitane - di agganci forieri di storielle amorose.
(Grissini rubatà)
L’apericena arriva fino a noi per li rami dall’happy hour d’origine britannica importato nella trendissima Milano qualche decennio fa, con la differenza che l’happy hour ha sempre designato consumazioni scontate, se non a metà prezzo; l’apericena, sull’onda di una domanda crescente, si paga abbondantemente intero. Una sottolineatura: mentre l’apericena è frutto di una coazione a ripetere feriale, la merenda sinoira va ormai in scena solo di domenica e nelle festività. Un tocco di “differenza”, di peculiarità da difendere culturalmente in questa epoca di bulimia psico-gastrica nemica del desiderio autentico e che sta riuscendo a trasformarci in apparati consumanti h24 sette giorni su sette.
(Insalata russa)
In origine la merenda sinoira “accadeva” all’aperto, sotto una frasca, tra le 17 e le 18, quindi nei mesi caldi. Contrastava la caduta degli zuccheri nei lavoranti di campi, vigneti, frutteti e tutto era meno che ricca. Vi figurava al posto d’onore la soma d’aj, una fetta di pane rustico strofinata con uno spicchio d’aglio (meglio due, va). Se andava bene, aggiuntina d’olio di noci, più reperibile di quello d’oliva nel Piemonte dell’altro ieri. Un pomodoro, magari, un tocchetto di qualsiasi formaggio locale (un Bra morbidino, un Raschera nei territori più vicini ai monti, una toma delle Langhe o affine) e per chiudere una golata di rosso tenuto fresco nel torrente. Stop. C’è chi si abbandona alla fantasia e dipinge rustiche pause con formaggio Castelmagno sposato alla cugnà, la “marmellata” contadina che è uno stracotto di mosto di vino, pere, nocciole, noci, fichi, mele, parente stretto della mostarda bolognese e del savor romagnolo. Ve lo vedete un bracciante di fine Ottocento che si porta dietro in vigna il barattolo della cugnà e il cucchiaino? E già che ci siamo, perché non un termos, la tazza per il tè e qualche butter cookie?
(Peperoni)
Negli anni delle prime gite pre e post belliche - per un torinese diciamo valli di Lanzo, val di Susa, laghi di Avigliana, cose così - la merenda sinoira si specializza come bouquet finale delle gite fuoriporta e dei viaggetti mini-turistici, diventa ghiotto appuntamento sulla via del rientro a casa, nasce talvolta da un’occasione fortuita di sosta. Prendiamo a esempio una narcisata domenicale di primavera o una passeggiata prealpina tra foglie caduche. A mezzogiorno, complice l’aria fina sui sei-settecento metri, il panino di sussistenza è stato già sterminato. Altri giri e a una cert’ora si sbaracca, si sale in macchina, le sei sono vicine e un pensiero si insinua, corre alla cena. Ci sarà qualcosa da imbandire? Cosa avranno mai da offrire frigo e dispensa, provati dal weekend? Ti ricordi quel bar-gastronomia sulla strada? La merenda sinoira si materializza così, tra incipiente appetito e voglia di uscire dal seminato. Si giustifica quasi fosse una normale necessità, mentre sotto la cenere dell’ordinario covano braci di meravigliosa trasgressione. “Buonasera, Si può mangiare qualcosa?”
(Tomini elettrici)
“Troppa teoria”, griderà ora qualcuno dal fondo della platea, voglioso di passare alla pratica. Ha ragione, passiamo al sodo. L’uovo. Tagliato a metà per il lungo, il tuorlo estratto e ridotto a crema dopo aver incontrato un filo d’olio, due gocce di aceto rosso e un filettino sminuzzato d’acciuga, quindi ricollocato nel concavo naturale. Una frustata alle papille. La merenda sinoira comincia così: non è previsto il petting. Segue un cicinìn di insalata russa maison (almeno due belle cucchiaiate in realtà), idem con la capricciosa. Può mancare un assaggino di vitello tonnato, orgoglio subalpino? Di salame non troppo stagionato? Due acciughe al verde (il verde è prezzemolo, con aglio, olio e aceto di vino bianco) e si passa ai peperoni, domati al forno, privati della pelle, messi in quiescenza tra olio, aglio a fettine e - guarda un po’ - acciughe. “Vado a vedere se son rimaste delle zucchine in carpione”. E avanti così, non tralasciando la giardiniera (“la facciamo noi”) e il classico “antipasto piemontese”, rara sineddoche inversa, con il tutto che indica una parte: è una sorta di composta appetitosa con verdure (carote, cavolfiore, fagiolini, piselli, cipolline, sedano) erbe, salsa di pomodoro e, naturalmente, aceto. In tema di delirio all’agro, non è da escludere una cotoletta di manzo in carpione tagliata a tocchetti: una preparazione non comunissima.
(Uova ripiene)
Ad accompagnare questa singolare cena fredda, i grissini, se si ha fortuna dei rubatà alla moda di Chieri, che in piemontese vuol dire "caduti", dal movimento necessario per lavorarli a mano. Ma la merenda sinoira non può dirsi conclusa senza i "tomini elettrici", piccoli formaggi freschi tondi, conservati sott’olio o preparati giorni prima, guarniti con una salsa di pomodoro resa pimpante da pepe, peperoncino e - indovinate un po' - aceto. Tra una chiacchiera e un occhio all’orologio che domani i bambini hanno scuola e si torna a ruscare (in dialetto, lavorare duro), i gotti si colmano più volte di vino, un barbera rosso-nero schietto, di quelli che lasciano nel bicchiere, appena versati, una coroncina passeggera di schiuma color ciclamino. E se capita del grignolino freschetto mica si dice di no. L’ideale è vedersi portare al tavolo una bella buta stupa , una bottiglia a consumo, aperta e quindi ritappata. Ma non si può aver tutto dalla vita.
La merenda sinoira è finita, insieme alla giornata festiva. Si torna a casa, si salutano gli amici e si ciondola a letto. Senza passare dalla cucina, se non per la tisana della notte.
(Vitello tonnato)
PS. Abbiamo trattato alcuni dei punti di forza della merenda sinoira, trascurando i dolci, dal classico bunet (sontuoso budino con cioccolato, amaretti e liquore) al flan (crème caramel) alle pesche ripiene (cotte al forno e impreziosite - e ridagli - da amaretti e cioccolato), in quanto non facenti filosoficamente parte di questo bizzarro “spuntino” in bilico tra luce e ombra, nel tempo tra cane e lupo, quando il cane non è ancora rientrato a casa, il lupo non è ancora uscito dalla tana e si gioca a prolungare la festività, la lieta parola in compagnia. La favola bella raccontata a tavola, che ci illudeva una volta e ci illude anche adesso.
PPSS. Il carpione - una tipica
marinatura piemontese in aceto bianco dopo frittura - eredita il nome dalla carpa,
un pesce d’acqua dolce dal sapore vagamente fangoso che dopo frittura e
quiescenza per una notte almeno in aceto, cipolla e salvia, si trasforma in
boccone celestiale. Come del resto la tinca, sua parente di primo grado, visto
che entrambe appartengono alla famiglia Cyprinidae. La preparazione, nata in
passato per conservare i cibi, ha un corrispettivo nell’escabeche spagnolo
derivante dall’arabo sikbâg, in Italia declinato scapece (Napoli e Sud),
scabeccio (Liguria), su scabecciu (Sardegna). Senza dimenticare le veneziane
sarde in saor, perché sempre di frittura e marinatura si tratta.
*ANDREA ALOI (Torinese impenitente, ha lavorato a Milano, Roma e Bologna, dove vive. Giornalista all’Unità dal ‘76, ha fondato nell’ '89 con Michele Serra e Piergiorgio Paterlini la rivista satirica “Cuore”. È stato direttore del Guerin Sportivo e ha scritto qualche libro)
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