Perché Alinari non è un museo

di MICHELE SMARGIASSI* 

Bello, ma cos’è? Certe fotografie ci lasciano un po’ così, affascinati e perplessi: ci colpisce la loro bellezza prima ancora che riusciamo ad afferrarne il senso. Credo che con gli Alinari stia andando più o meno così. Forse conoscete già la notizia: l’immaginario storico della nazione è diventato anche giuridicamente pubblico. Dopo centocinquant’anni di gestioni private, nel dicembre del 2019 gli smisurati archivi della secolare ditta fotografica fiorentina (cinque milioni di immagini e altri oggetti) sono stati acquistati con notevole e generoso investimento finanziario dalla Regione Toscana. Una nuova Fondazione presieduta dallo scrittore Giorgio Van Straten e organizzativamente diretta da Claudia Baroncini si è assunta il compito, mica da ridere, di dare una casa (che c’è già, Villa Fabbricotti, a nord della città, ed entro un anno sarà pronta), un ordine e una visibilità a quel patrimonio visuale, in nome dei suoi nuovi proprietari, cioè noi, i cittadini.

Ora, forse, è il momento di capire che cosa abbiamo comprato. Oh sì, tecnicamente lo sappiamo: è il patrimonio fotografico più antico al mondo, nella sua continuità di istituzione. Ma che cos’è davvero? Anche qui, possiamo cavarcela giocando di retorica: è il caleidoscopio dell’identità italiana, l’album di famiglia di un popolo intero, il minuzioso catalogo visuale dell’Italia che ha formato e informato generazioni di studenti, l’abecedario per oculos che ci insegnò come guardare il nostro stesso paese, la sua arte, i suoi paesaggi, i suoi monumenti, le sue città, i suoi personaggi.

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(Giuseppe Garibaldi 1867 ca   Archivi Alinari)


Ma, detto questo, ancora ne sappiamo poco. Anzi, detto così, il rischio dell’equivoco è dietro l’angolo. Un equivoco insidioso. Se non sappiamo bene che cos’è Alinari, come potremo decidere cosa sarà? Alinari è un luogo comune. Qualcosa di cui anche le persone di cultura, e perfino quelle molto interessate alla cultura fotografica, pensano erroneamente di sapere molto, se non tutto.

Per esempio, che si tratti di un grande patrimonio. Oh, sì, certo, lo è, ma patrimonio di cosa? Di immagini. Bene. Che genere di immagini? Immagini di altissima qualità. Benissimo, ma perché? Perché sono immagini d’autore. Bene, però male. Tutte le fotografie del mondo hanno un autore (spesso più d’uno, compresi quelli non umani). Ma il modello di “fotografia d’autore” che abbiamo in testa ci porta molto fuori strada, se applicato agli Alinari. Vorrei appunto spiegare perché, a mio modesto avviso, in questa vicenda l’attrazione verso lo schema autoriale-artistico può fare grossi danni.

Trattare l’archivio Alinari come quello di un fotografo-autore del passato significa tradire quello che la storia Alinari, in molti sensi unica nel suo genere, ha rappresentato, per la cultura italiana e mondiale.

Forse è un po’ anche il nome che ci frega. “Fratelli Alinari”, quell’insegna che secondo l’uso ottocentesco personalizza un sistema d’impresa e lo fa sembrare esclusivamente opera del genio e dell’ingegno dei singoli. Vale intanto la pena di precisare che, di quei famosi cinque milioni di immagini, solo trecentomila appartengono al nucleo originario, storico, quello messo assieme a partire dal 1852 dall’intuizione imprenditoriale (rpt: imprenditoriale!, ci tornerò) del giovane Leopoldo Alinari, poi aiutato dai fratelli Giuseppe e Romualdo; ma solo se includiamo nel conteggio anche gli archivi dei due fotografi ex rivali, Anderson e Brogi, che vennero precocemente fagocitati dal trust. Tutto il resto del patrimonio è il frutto di successive, spesso molto recenti, aggiunte di altri fondi, anche molto eterogenei fra loro. E qui già cominciamo a capire che il concetto di autore dovrebbe essere declinato, come minimo, al plurale.



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Ma di autore, nel senso tradizionale e romantico della mente intuitiva di un individuo geniale che scruta il mondo e ne distilla un significato poetico prima invisibile ai comuni mortali, qui non si può propriamente parlare. Se non, forse, in un senso che ci riporta al modo di lavorare delle botteghe d’artista medievali: che non erano la torre d’avorio del genio eremita, erano rumorose officine, filiere produttive complesse, manifatture ben organizzate dove l’ispirazione era solidamente subordinata alla produzione di oggetti finalizzati a uno scopo (culto, lusso, gloria dinastica), dove più il maestro era tale, meno impugnava il pennello e invece delegava ai lavoranti, opportunamente indottrinati, il grosso della produzione. I fratelli Alinari, come persone fisiche, scattarono ben poche fotografie. Erano manager d’impresa. Avevano operatori che percorrevano la penisola per loro, secondo programmi prestabiliti e seguendo procedure rigidamente fissate e uniformi. Della libertà geniale dell’occhio visionario dell’artista qui c’è ben poco.

Cosa c’è invece? C’è una fabbrica di immaginario disponibile. C’è una industria di lavorazione del reale, una filiera di trasformazione che plasma una materia prima facendone merce maneggevole, moltiplicabile, trasportabile, esportabile.


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Quel bene primario da lavorare era un patrimonio che non apparteneva agli Alinari: era la storia dell’arte italiana, erano i dipinti, i monumenti, le sculture, i paesaggi di un paese che proprio negli anni in cui Leopoldo cominciava la sua avventura era alla ricerca di una identità politica e statuale. Una materia prima abbondante e gratuita (fu proprio il cavalier Carlo Brogi a capeggiare la rivolta dei fotografi italiani contro la proposta di una tassa governativa sulla riproduzione di beni artistici nazionali), ma che rendeva moltissimo.

Bisogna tornare con la mente a un’epoca in cui le immagini disponibili per lo studio dell’arte erano rare. Non è facile, nel caos dell’iconosfera odierna. Un’epoca in cui la propria cultura artistica uno studioso se la costruiva coi piedi: oddìo, magari anche coi cavalli e poi col treno, ma insomma viaggiando, e molto, per arrivare al cospetto degli originali. Sì, le incisioni che riproducevano quadri e statue c’erano, da qualche secolo, ma valevano più come promemoria che come conoscenza primaria. Erano appunti infedeli.

La fotografia, eh no, lei fece un’altra promessa. Vi darò molto più che una traduzione, molto più che una riproduzione, disse: vi darò la cosa stessa. La fece a tutti, questa promessa: soprattutto ai borghesi vanitosi nel rivedere le loro facce piene di sussiego in formato tascabile, l’Ottocento fu il secolo del ritratto di massa (e anche gli Alinari, va detto, per rimboccare il fatturato entrarono nel business).

Ma la fece anche ai colti, quella promessa, agli intellettuali, agli studiosi. Ai quali non parve vero di potersi finalmente liberare dal peso e dalle fallacie della memoria: per confrontare fra loro un Raffaello e un Perugino non era più necessario richiamarli alla mente. Bastava avere sotto gli occhi, fianco a fianco sul tavolo, due buone fotografie. La fotografia fece alla storia e alla critica dell’arte l’inestimabile dono del metodo comparativo. (Quanti equivoci e fraintendimenti abbia prodotto un secolo di studio dell’arte basato sempre più intensamente sullo studio delle riproduzioni fotografiche – monocrome, infedeli nella resa dei valori tonali ecc. - non è qui il caso di spiegarlo, ma solo di ricordarlo).

Bene: gli Alinari crearono il prodotto che serviva allo scopo. Affidabile, di qualità, in quantità. Lo crearono nella città che in tutto il mondo era ed è sinonimo di arte italiana, Firenze. Divennero i confezionatori e distributori dell’arte italiana per una schiera immensa di consumatori. Una cosa che viene raramente ricordata: nei decenni d’oro della ditta, la produzione Alinari veniva piazzata per la quasi totalità all’estero. Gli Alinari erano formidabili esportatori di arte italiana. Si dotarono di una rete commerciale internazionale ramificata ed efficiente. A differenza di molti loro colleghi italiani (ogni città d’arte aveva il suo studio fotografico che si occupava di questo), non si limitavano a vendere stampe come souvenir ai turisti di passaggio. Vendevano pacchetti iconografici per corrispondenza a clienti che li aspettavano a casa loro, in tutti i continenti. Furono i formidabili precursori non solo delle agenzie di stock, ma anche della ricerca per immagini di Google.

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(Studio Betti Borra      Cantiere navale Livorno 1945 ca.     Raccolte Museali Fratelli Alinari-archivio Betti Borra)


Che cosa chiedevano veramente quei clienti? Cosa compravano, a prezzi convenienti ma non dozzinali? Volevano possedere una fotografia di pregio, firmata Alinari? Ma certo, però nello stesso senso in cui, quando compriamo un panettone, preferiamo quella marca che li fa buoni: però è il panettone che ci interessa. Alinari era il brand, l’etichetta, il marchio di qualità: ma quei clienti non compravano “un Alinari” come un collezionista d’arte compra “un Mondrian”. Niente affatto. Compravano il Duomo di Orvieto, invece, o il Crocifisso del Cimabue. In forma maneggevole, ridotta ma efficiente. Compravano un contenuto iconografico, non un’opera fotografica. Un contenuto ben confezionato da chi lo sapeva fare. Che la merce fosse il contenuto e non il contenitore lo dimostra un dettaglio produttivo: nel catalogo sterminato che la ditta proponeva ai clienti, i numeri di inventario corrispondevano a un soggetto, non a una specifica ripresa. E quando, da buoni produttori, gli Alinari rinnovavano le campagne di ripresa (soprattutto per i monumenti architettonici, che potevano cambiare nel tempo per effetto di restauri o modifiche del contesto urbano), allora la nuova immagine rimpiazzava in archivio la vecchia sotto lo stesso numero di catalogo, indipendentemente dal fatto che ci fossero differenze figurative rispetto alla precedente.

Di questo si tratta, come ha dimostrato minuziosamente l’accurato rapporto scientifico e storico-culturale sullo stato e il carattere del patrimonio Alinari che la Sisf, Società Italiana di Studi di Fotografia, ha prodotto su richiesta della neonata Fondazione Alinari.

Ed è questo che è importante sia ben compreso. Alinari non vendeva fotografie d’autore: vendeva un contenuto. Gli Alinari vendevano l’arte italiana, non la propria arte fotografica. Per questo si definivano “fotografi editori”. Non tanto perché pubblicassero libri (fecero anche questo), ma perché editavano l’arte italiana, ovvero la trasformavano in prodotto seriale, ben confezionato e consumabile a domicilio.

La fotografia, per gli Alinari, fu davvero un medium. Ovvero, un oggetto transizionale. Un oggetto che doveva trasportare qualcosa a qualcuno per farne qualcos’altro. Quelle fotografie dovevano essere utili, prima ancora che belle; dovevano insomma essere buone per uno scopo che stava fuori di esse: non oggetti da contemplare ma materiale da usare, immagini attive, produttive, efficienti, formanti. Immagini pensate per generare saperi, testi, libri, e magari anche prodotti più triviali, calendari, cartoline, arredi per carrozze ferroviarie o stazioni degli autobus (o per gli stacchetti degli intervalli in tivù, quando fu ora). Comunque, immagini che non erano mai fini a se stesse.

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(Wilhelm Von Gloeden Caino 1900 ca.   Raccolte Museali Fratelli Alinari-archivio von Gloeden)

Anche per questo, perché erano programmaticamente immagini intermedie, dovevano possedere certe caratteristiche che finivano per allontanarle ancora di più dal concetto romantico di “fotografia d’autore”. Dovevano fornire prima di tutto grandi quantità di informazioni: nella veduta di un palazzo, le zone in ombra dovevano essere dettagliate e ben leggibili, le zone in luce non bruciate e ben incise (quindi: nessun cedimento a ombreggiature suggestive, sfumature, sfocati, nebbioline da “artista”). Dovevano consentire il confronto con altre immagini, dunque dovevano possedere caratteristiche stilistiche molto simili e il più possibile “normalizzate” (linee verticali non cadenti, solida prospettiva albertiana, isolamento del soggetto dallo sfondo, punto di vista semi-elevato, ecc.). Un set di regole che lasciava ben poche libertà agli operatori (il cui nome gli storici hanno a volte recuperato, ma che allora non veniva mai citato nelle didascalie delle fotografie). Una standardizzazione linguistica che venne giustamente definita “stile Alinari”, una sorta di accento che rimase a lungo non solo riconoscibile ma fu canonico e imperativo nella nostra cultura visuale successiva, compresa quella di massa della foto turistica e privata: anche i nostri padri e nonni, in vacanza, fotografavano inconsciamente le chiese e monumenti “alla Alinari”. Uno stile così ben introiettato da apparirci naturale (e viceversa, un errore ogni infrazione).

Ecco perché quello degli Alinari (neppure nel suo cuore originario) non è l’archivio di un autore. Per dirla con una definizione cara agli storici di scuola francese, è piuttosto una “struttura” del nostro immaginario. È il deposito materiale di immagini il cui insieme ha dato origine sia a un modo di vedere sociale, di massa che a un canone interpretativo “alto”. Quello che è incredibilmente prezioso, insomma, nell’archivio Alinari, non è che ci offra splendide singole immagini da ammirare come tali, ma che ci fa capire come noi abbiamo guardato l’arte e il paesaggio italiani. Ci fa ragionare sul nostro modo di vedere: ci mette di fronte allo specchio del nostro sapere visuale, alle sue connotazioni, alle sue deformazioni, ai suoi luoghi comuni. È un deposito di filtri culturali, e conoscere i filtri serve per sapere che ci sono, ed essere meno ingenui.


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(I tre fratelli Alinari Giuseppe, Leopoldo e Romualdo   1860    Archivi Alinari    Firenze)


Trattare quelle immagini “come preziosi incunaboli” da conservare in cassaforte, da isolare come auratici oggetti di venerazione, come qualcuno propose al momento dell’acquisizione, sarebbe l’eutanasia per soffocamento museale di un medium che ha costruito la nostra cultura diffusa. Trattare le raccolte Alinari come se fossero una raccolta di dipinti sarebbe fraintenderne completamente la natura e perderne drammaticamente l’utilità e la funzione culturale. Occorre quindi garantire che Alinari continui ad essere Alinari, e non il suo simulacro mummificato.

Entro tre anni, promette Van Straten, avremo anche un Museo Alinari, collocato in città, pare davanti alla stazione ferroviaria. Bene: è fuori discussione che un luogo dove la storia e la filosofia dell’immagine Alinari possano mostrarsi permanentemente al pubblico ci vuole. Ma che genere di museo? Credo che la nuova direzione Alinari abbia ben chiaro il rischio di assolutizzazione, imbalsamazione che tutte le museificazioni corrono. Come evitarlo?

È un punto chiave. È fin troppo prepotente nella nostra cultura quel processo di artificazione che chiude nei musei, e ammazza, fotografie giornalistiche, o pubblicitarie, o familiari, e le costringe alla impotenza dell’essere, loro che erano nate per fare). Artificare Alinari significherebbe soffocare la storia e la peculiarità di questo patrimonio straordinario. Che è stato, ripetiamolo pure, il patrimonio di una impresa che produceva e vendeva immagini da usare.

Certo, il passaggio alle mani pubbliche è in qualche modo una transustanziazione, la Regione non è una agenzia di immagini, non fa profitti per vivere, ma quella storia commerciale ha dato forma e ha impresso il suo carattere sull'archivio, un carattere che non si può negare.


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(Alinari Archive in transition        © Armin Linke 2020)   

       

Del resto, benché messa in crisi nell’era digitale dalla concorrenza dei grandi archivi internazionali (Getty, Corbis) che in fondo sono stati l’incarnazione moderna di quel modello, la commercializzazione del catalogo Alinari non si è mai interrotta in un secolo e mezzo di storia. Anche quando la dinastia familiare cedette l’impresa messa in crisi dalla esplosione dei mercati internazionali per colpa della Grande Guerra, i successivi proprietari, a partire dall’aristocratico barone Ricasoli, continuarono a gestirla come una fabbrica di immagini, almeno fino alla definitiva crisi del ’29; ma anche dopo, passando di mano in mano fino all’ultimo titolare, l’industriale Claudio De Polo, il core business dell’impresa è rimasto la commercializzazione di contenuti visuali da usare. Ed anche ora, in mani pubbliche, non è stato possibile smettere di dare risposta alle richieste di utilizzo, e dunque uno staff di cinque persone ha ripreso da dicembre il servizio di licensing, cioè di vendita dei diritti di utilizzo per chiunque chieda immagini Alinari per usi commerciali.

E tuttavia, che adesso Alinari sia un patrimonio pubblico e non un’agenzia di stock images che fa profitti non può restare senza conseguenze. Qualcosa nella filosofia della gestione del patrimonio deve cambiare, rivolgendosi al profitto per il capitale sociale e non più solo per quello privato.

Che fare, dunque? Il nuovo management pubblico promette massima apertura e accessibilità del patrimonio per studiosi, studenti, appassionati, curiosi. Ma serve un modello. Anche un museo dopo tutto è “aperto”, ma solo alla contemplazione. Anche la pura e semplice “messa online” del patrimonio (per ora molto limitata, circa 250 mila immagini digitalizzate) non può essere considerata sufficiente come assoluzione del compito.

Ci sono nel mondo già diversi modelli di gestione pubblica di grandi fondi iconografici. Uno è molto illustre, quasi ingombrante: la Library of Congress di Washington consente a chiunque l’uso libero di tutto il proprio sterminato patrimonio di immagini storiche: di cui ben un milione di immagini sono scaricabili anche dal sito, in alta definizione, e utilizzabili per qualsiasi scopo, anche commerciale. C’è chi trova troppo generoso e rischioso questo modello, che è assieme ultrapubblicista e ultaliberista, nel senso che il patrimonio pubblico, in questa versione, viene inteso come disponibile e quasi subordinato all'impresa privata.


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(Fratelli Alinari Veduta di Villa Fabbricotti a Firenze          25 febbraio 1894    Archivi Alinari)


Alinari pare stia sta pensando a una strada intermedia tra stock e Loc: cessione gratuita del diritto di riproduzione per gli utilizzi culturali, con pagamento di una quota di servizio (che potrà scendere a pochi euro per uno studente alle prese con la tesi), e una sorveglianza sugli usi commerciali a pagamento, per evitare il rischio della banalizzazione. Insomma, non un self-service, ma una gestione culturale.

Quel che conta, è che sia chiaro l’oggetto culturale da gestire. Alinari fu una straordinaria macchina di valorizzazione, commerciale ma anche culturale, di un patrimonio artistico bimillenario. Se la macchina Alinari venisse ridotta a patrimonio artistico da godere in sé, a oggetto di ammirazione ma ormai inattivo, passivo, immobile, non più strumento efficiente di nuove elaborazioni, avremmo conciato bene la pelle dell’orso, ma ammazzando un fiero animale.


*MICHELE SMARGIASSI   (Sono nato prevalentemente nel forlivese, verso la metà del secolo scorso. Laureato in Storia contemporanea all'Università di Bologna con una tesi sulle cartoline illustrate. Ho lavorato a l’Unità, poi dal 1989 a la Repubblica. Mi occupo da trent’anni di fotografia e cultura visuale. Dal 2009 gestisco il blog Fotocrazia. Oltre a testi per mostre, cataloghi, riviste e volumi collettivi, ho scritto Voglio proprio vedere - Contrasto, 2021; Sorridere. La fotografia comica e quella ridicola - Contrasto, 2020; Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso - Contrasto, 2009; Ora che ci penso. La storia dimenticata delle cose quotidiane - Dalai, 2011. Ho collaborato alla collana “Maestri della fotografia” - Repubblica / National Geographic, 2019-2020 - e curo la collana “Visionari” - Repubblica / National Geographic, 2020-2021. Faccio parte del direttivo della Sisf – Società Italiana di Studi di Fotografia, e dei comitato scientifici del Centro italiano per la fotografia d’autore di Bibbiena e della Fondazione Nino Migliori)


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