Pastasciutta all'italiana, quando il grano non ci basta

di ALBERTO GRANDI*

Tra le tante tragedie che la guerra in Ucraina sta fatalmente portando con sé ci sono anche questioni che possono apparire meno drammatiche, ma non per questo hanno meno impatto sulle nostre vite quotidiane. Nella marea di informazioni che ci sono piovute addosso in questi giorni, infatti, ce n’è stata una che ha incrinato le nostre granitiche certezze per quanto riguarda un prodotto simbolo della cucina italiana: la pasta. Abbiamo scoperto che l’Ucraina rifornisce buona parte delle nostre industrie della pasta e senza il suo prezioso grano duro saremmo costretti a rinunciare a carbonare e amatriciane, oppure a pagarle molto di più con una qualità nettamente inferiore.

Ma allora, tutte le storie che ci vengono raccontate sulla pasta fatta con 100% di grano italiano cosa sono? Storie, appunto, niente di più. E i numeri, che, come si sa, hanno la testa dura, lo dimostrano ampiamente. L’Italia produce circa 4 milioni di tonnellate di grano duro, ma la filiera italiana della pasta ne assorbe 6 milioni, quindi, dal punto di vista puramente matematico, siamo in deficit di circa 2 milioni di tonnellate. La questione, però è ancora più grave, perché non tutto il frumento che produciamo ha una buona attitudine alla pastificazione e quindi non può essere usato per questo scopo. In particolare, il frumento duro italiano ha generalmente un basso tenore proteico e questo lo rende inadatto alla produzione di pasta. Morale della favola, dobbiamo importare quasi la metà del frumento che lavoriamo su scala nazionale, ma soprattutto con il frumento importato dobbiamo compensare le mancanze qualitative di quello dalla produzione interna.


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La retorica del prodotto nazionale, che per definizione è più buono e più sano di quello importato, nel caso della pasta non funziona proprio: come detto, se davvero le industrie italiane fossero costrette a produrre pasta utilizzando solo il nostro grano duro, ci troveremmo ad avere pasta di bassa qualità, più costosa e sicuramente in una quantità insufficiente a soddisfare la domanda interna, figuriamoci poi l’ingente export, che da solo vale quasi 3 miliardi di euro.

Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che la soluzione possano essere i cosiddetti grani antichi. Ma anche qui caschiamo male, prima di tutto perché la sensazione è che i grani antichi siano solo una moda indotta dalla pubblicità, quasi che il solo nome sia in grado di attribuire agli stessi dei poteri taumaturgici. Molto spesso i consumatori si innamorano di aggettivi che richiamano a un passato idilliaco e grazie a quel nome sentono sapori e profumi che quel prodotto non ha affatto. Infatti ci sono fior di ricerche e di test alla cieca in cui assaggiatori ignari di cosa stavano assaggiando hanno trovato meno graditi i prodotti realizzati con grani antichi rispetto al pane e alla pasta fatti con grani moderni. Ma al di là dei gusti, se ci spostiamo sui dati scientifici scopriamo che anche i cosiddetti grani antichi hanno le stesse carenze in termini di contenuto proteico di gran parte del grano duro coltivato in Italia. Quindi, niente da fare, il marketing potrà aiutare a vendere qualche pacco di pasta in più, ma di certo non risolve la dipendenza dell’Italia dal grano importato.

Non c’era sicuramente bisogno di una guerra per renderci conto di una realtà che da sempre è sotto gli occhi di tutti. Basterebbe abbandonare una stucchevole retorica nazionalistica, che richiama ancora i tempi bui dell’autarchia fascista, per convincerci che l’integrazione dei mercati è un vantaggio per tutti, anche per l’italianissima pastasciutta.


*ALBERTO GRANDI (Mantova, 1967. Insegna storia economica e storia dell'alimentazione all'Università di Parma. Tendenzialmente si occupa di vicende avvenute prima della rivoluzione industriale, forse anche per questo si innervosisce quando vengono attribuite origini antiche a piatti e a prodotti moderni... Ha pubblicato circa 50 tra monografie e saggi in Italia e all'estero. È autore, tra gli altri, di "Denominazione di origine inventata" e di "Parla mentre mangi", editi da Mondadori. Recentemente ha anche creato un podcast, che si intitola anch’esso “Doi, Denominazione di Origine inventata”, stabilmente nelle prime cinque posizioni tra i podcast più seguiti in Italia.)


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