Otto marzo, dici donna e le strade cambiano nome

di SILVIA GARAMBOIS*

A Milano nottetempo le vie hanno cambiato nome: “rejected” via Mac Mahon, diventa con una insegna di carta via Elena Rasera, eroina della Resistenza. E così per via della Spiga (via della Figa), via Filodrammatici (corso sorelle Mirabal), piazzetta Maurilio Bossi (dedicata a Sylvia Rivera)… Si chiama “toponomastica femminile”, la battaglia per portare le eccellenze delle donne anche nelle strade delle città, che le hanno dimenticate. E se non lo fanno i Comuni lo fanno le donne. (E se poi arriva qualcuno – Matteo Salvini – a dire che sono delle cretine, con un giudizio meditato, nella giornata giusta, allora hanno fatto proprio bene: le strade intitolate a donne in Italia sono l’8 per cento, da domani qualcuna in più).

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Ma una volta non bastava un ramoscello di mimosa, una pizza tra amiche la sera, e con l’8 marzo si era chiuso così? La Festa della Donna. Ora persino che sia una festa viene messo in discussione. Ma sì, come sono noiose le donne. Anzi: come sono incazzate. 

Oggi è la giornata clou di una intricatissima rete di webinar dove le donne discutono, arte riconquistata in un Paese che aspetta la decisione del leader, e c’è dentro di tutto: a partire dall’economia e dal Recovery Found, dove le donne non accettano di essere messe da parte e stanno a sentire cosa ne dicono le economiste, le esperte, le tecniche; fino all’ambiente e al lavoro di cura che è meglio piantarla di addossarlo alle donne, anche quando si tratta della cura del pianeta, ma alla fine sembra che siano le sole a preoccuparsi davvero.

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Le donne sorridono e quando possono ballano pure, ma non per questo sono meno arrabbiate. E fanno l’elenco dei diritti che non hanno. Per cominciare dal diritto alla vita, con 16 femminicidi in due mesi e poco più, tutti uomini che avevano le chiavi di casa. Il diritto a non essere picchiate, e qui i numeri vanno alle stelle, con la scusa del lockdown: perché gli uomini a stare chiusi in casa, a perdere il lavoro, a ubriacarsi, pare che acquisiscano il diritto di alzare le mani. Così almeno nei mattinali delle forze dell’ordine. 

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Eppure è “politicamente corretto” ricordare sempre nei discorsi la componente femminile, quella che deve dare nuovo slancio al futuro. Nei discorsi. Specie a sinistra. Poi quando metti in piedi le task force per guidare le emergenze, loro – le donne - lavorano e altri – gli uomini - “pensano” (e lasciamo tra parentesi la vicenda dei ministri del nuovo governo). Se poi ci sono di mezzo i soldi…

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Il problema delle donne è che ricordano. E oggi (anche oggi) discutono di questo: i soldi dell’Europa, quelli che servono a far ripartire l’economia, e che stavolta devono ripartire dal lavoro delle donne. Perché sono state le più penalizzate in questi mesi, in questo anno infinito. A dicembre 2020 – lo dice l’Istat - su 101mila posti di lavoro cancellati 99mila erano occupati da donne. Perché le loro aziende (una miriade di piccole aziende, ricchezza vera) hanno chiuso. Perché su di loro si è maggiormente scaricato lo smart working e il lavoro è diventato doppio, triplo, senza fine. Perché il “pay gap gender” non è una formuletta astrusa, ma è la busta paga incomprensibilmente più bassa di quella del collega che fa il tuo stesso lavoro. 

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C’è tutto questo nel piano del W20, uno degli otto engagement group ufficiali del G20 che quest’anno è a presidenza italiana, quello specializzato su equità di genere, dove W sta per women. È composto da 70 delegate di 20 paesi e l’Italia ha la leadership del movimento a livello internazionale, “chair” Linda Laura Sabbadini. È lei la capa, quella a cui fanno riferimento la miriade di associazioni femminili e femministe che in queste settimane la incontrano (rigorosamente in webinar), la inondano di documenti, di “item”, di parole d’ordine.

Le macro-aree sulle quali lavora il W20 a guida italiana sono: donne e lavoro; inclusione finanziaria e imprenditoria; parità di genere digitale; violenza di genere; superamento degli stereotipi. Praticamente tutto, e tutto percorso dalla sfida ambientale, che è uno dei temi principali del G20.

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Ma che noia le donne… Poi, in una serata qualunque del Festival di Sanremo, si presenta una bella signora che dichiara “Io faccio il direttore d’orchestra”: e allora sì che la noia passa, e che si ricomincia daccapo a cercare almeno di mettere dei punti fermi sulla grammatica italiana, che è quella che ha femminile e maschile, anche quando si tratta di mestieri “nobili”.

E allora grazie a tutti gli uomini, a tutti i linguisti, a tutti gli opinionisti, che hanno festeggiato l’8 marzo dicendo che no, che le donne hanno conquistato almeno il diritto di essere riconosciute nel ruolo che ricoprono, che sono architette, ministre, direttrici d’orchestra.

Buon 8 marzo anche a voi.


SILVIA GARAMBOIS* (Una vita da giornalista. Nata a Torino nel 1955, ma con le radici nella cintura operaia, ha vissuto a Luino, a Firenze e poi è approdata a Roma dove nel 2000 ha festeggiato le nozze d'argento con il suo giornale, l'Unità. E poi l'addio. Da allora un lungo curriculum di cose fatte e tante ancora da fare. È presidente dell'associazione GiULiA giornaliste, e ci tiene molto)


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