Oman, viaggio profumato nelle Mille e una notte
di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*
L’Oman è stato solo una breve tappa, un derivato del nostro viaggio verso l’India. All’andata ne avevamo fatta una negli Emirati; al ritorno, con l'aggiunta di un corto volo da Abu Dhabi, avevamo programmato uno stop nel Sultanato, visto che eravamo già, per così dire, nei paraggi. Era metà febbraio del 2014 quando siamo atterrati a Muscat, Mascate per dirla all’italiana, la capitale. Faceva caldo ma era ancora sopportabile. Dell'Oman sapevamo poco, e non potevamo fare molto, visti i cinque giorni scarsi a disposizione. Ripensandoci, ne abbiamo solo scalfito lo strato più superficiale.
Un Paese che era già entrato alla grande sulle mappe dei tour operator, con un’operazione di marketing mirata al turismo d’élite: proposte a cinque stelle, soggiorni in fascinosi accampamenti tendati nel deserto e in lussuosi resort stellati che si erano accaparrati le spiagge più spettacolari e deserte, il tutto a prezzi ben oltre la portata delle nostre tasche e del nostro stile. Tra i luoghi d’interesse promossi e gettonati, alcune oasi, qualche cittadella fortificata, qualche spiaggia e villaggio sulla costa, e l’antica capitale Nizwa, che intendevamo visitare. Oltre c’era solo il cosiddetto “quarto vuoto” , il Rub al- Khali, il nulla che si estendeva su tutta la penisola arabica, fatto di dune, pochi villaggi beduini, qualche cammello. Dopotutto gli Omaniti non raggiungono i quattro milioni, ho controllato su Wikipedia, quindi non si può dire che sia un posto affollato.
(Muskat foto di Gianni Viviani)
Dopo quindici giorni passati a girovagare nel Kerala, in un’overdose di colori e calore, immersi nel verde umido, tumido e marcescente dei canali fiancheggiati da palme, o nel caos di strade congestionate, dal traffico imprevedibile dove ogni conducente sembrava sfidare gli altri in un gioco mortale, il contrasto non avrebbe potuto essere più estremo. Muscat ci era apparsa subito affascinante, bianca e brulla. A confronto con l’India brulicante di gente, sembrava persino vuota. Glabre le rocce della catena montuosa Al Hajar che la circondava, vuote le superstrade che l’attraversavano, bianche le macchine che le percorrevano - soprattutto SUV e Mercedes, perché eravamo pur sempre ospiti dei signori del petrolio - bianchi i nuovi edifici intonacati a calce che si affacciavano sul lungomare.
(Il suk di Muskat foto di Gianni Viviani)
Tutto era neutro, abbagliante, luminoso, monocromatico, messo in risalto dall’azzurro intenso del Golfo persico. Tutto era immacolato, non una carta, una cicca di sigaretta, una lattina, figuriamoci una buccia. In strada ci si poteva fare un picnic e, dopo l’India, queste sono cose che si notano. In quanto al decantato suk di Muscat, labirintico come tutti i suk, era altrettanto ordinato, direi specchiato, spolverato, seppure stracolmo di mercanzie. Ne avevamo girati di bazar, quelli caotici di Istanbul e Marrakech, quelli più tranquilli e sorprendenti di Bukara e Samarcanda, ma questo, anche se ci avevano avvisato che era speciale, superava le aspettative. Ogni singolo antro oscuro era stipato come uno s’immagina lo sia la caverna di Ali Babà, illuminato dal luccichio dell’argento e del rame, ammassato di bracieri e forzieri straripanti di cinture tribali, fibbie filigranate, pugnali cesellati, gioielli intarsiati, impreziosito da scialli e caftani ricamati. Sembrava di avere scoperto il tesoro di Long John Silver, o di essere stati catapultati ne Le Mille e una Notte.
(Foto di Gianni Viviani)
I negozianti, dopo la sfacciataggine divertente di certi commercianti indiani, erano distaccati, quasi disinteressati, forse perché i turisti non mancavano; tanti e facoltosi, arrivati con i ricchi viaggi organizzati o sbarcati a frotte dalle super navi da crociera, attraccate in rada. Si era liberi di girare, guardare, toccare, senza che nessuno t’importunasse, ti mettesse fretta. Parlo di sei anni fa, oggi non saprei, visto che il turismo, e mi riferisco a quello italiano, pare sia decuplicato in dieci anni. Tutto profumava, nel bazar. Gli odori sono un’altra delle mie manie, parte integrante dei miei ricordi, ne basta uno per attivare una sinapsi, innescare una memoria, e quel profumo onnipresente mi è rimasto dentro. Era incenso. Non quello ecclesiastico di cattolica memoria, ma più aromatico. Ho letto che ne esistono di diversi tipi, a seconda della provenienza, ma meglio non entrare e tediare nel merito. Questi minuscoli grani di resina translucida, simili a granelli di sabbia, venivamo bruciati ovunque, in piccoli bracieri. La loro fumosa fragranza aleggiava nel bazar, si depositava sulle cose, sulle persone, sembrava intensificarsi negli incontri ravvicinati. Un odore unisex, troppo frequente per essere casuale. Inspiegabile fino a quando non mi hanno svelato l’arcano: le donne costruiscono delle impalcature di foglie di palma intrecciate, poggiate sopra dei bracieri d'incenso, su cui stendono gli abiti, per disinfettarli e profumarli. Dopotutto, fin dall’antichità, l’Oman era famoso per la sua produzione e il commercio della Boswellia Sacra, l’oleoresina più ricercata e preziosa, tra le tante.(supernave da crociera foto di Gianni Viviani)
Meno profumato era il nostro alberghetto, sul genere Avventure nel Mondo, di cui ho felicemente rimosso il nome, che era proprio adiacente al suk, nel vecchio quartiere di Mutrah, ex villaggio di pescatori che si affacciava sul porto. Male in arnese, gestito da indiani, l’hotel era scarso come ambience, ma in posizione strategica, perfetto per spostarci a piedi in una città che è più tentacolare di quello che appare. Paradossalmente, per dare un’idea, Muscat mi ricorda Los Angeles, con moderni agglomerati urbani che si snodano lungo una lunghissima superstrada dove il traffico è scorrevole e le macchine sfrecciano, a 120 km all'ora, sempre ordinatamente, senza quelle strombazzate di clacson tipiche delle città medio orientali.
O italiane?
I grandi alberghi sono tutti fuori, affacciati sul golfo, circondati da magnifici giardini ben irrigati, rubati al deserto. Le spiagge cosiddette cittadine, di Qurum e Qantab, che durante la nostra breve visita abbiamo ignorato, sono a una ventina di chilometri. Per andare a cena, se ne potevano facilmente percorrerne una ottantina, tra andata e ritorno, e dato che la benzina costava 24 cent. al litro, il problema consumo per i locali non si poneva, anche se i tassisti la corsa non te la regalavano. Per gratificarci - Gianni dopo l’India non ne poteva più di buffet speziati - c’eravamo fatti portare al The Chedi, un cinque stelle da nababbi, superlusso ma non cafone, con prezzi di conseguenza. C’eravamo ripuliti, facevamo i ben educati, ma nel confronto con gli altri ospiti privilegiati ci sentivamo degli sfigati. Cena fronte piscina, grande come un lungomare alberato, fiancheggiata da palme; atmosfera assicurata, valeva il viaggio e il costo di questa super coccola compensatoria. Come fine pasto una tazzina di kahwa, un buon caffè Oman Style, nero, intenso, speziato di chiodi di garofano e cardamomo. Servito come un rito, qui come nei posti più umili, dove te lo porgono, ovunque e comunque, con cortese, amichevole deferenza, in minuscole coppette senza manico, che alloggiano alla perfezione nel palmo della mano.
(foto di Gianni Viviani)
Muscat è presto detta: il Palazzo Al Alam, residenza del Sultano Qaboos Bin Said, peraltro deceduto all’inizio di quest’anno, i due limitrofi forti portoghesi, il museo nazionale di Bait al Baranda, la passeggiata sulla Corniche, la Grande Moschea del suddetto sultano, come altri religioso e megalomane, la Royal Opera house e il Muthra Fish Market, bianco, asettico e tirato a lucido come una pescheria in Montenapoleone. Al suddetto si è aggiunta, più di recente, una nuova struttura architettonicamente pregevole, una costruzione ariosa, luminosa e asimmetrica, disegnata da uno studio norvegese, che a me ricorda le spine di una razza. Comune denominatore di tutti gli edifici? Un bianco ACE, assoluto, senza una macchia.
(foto di Gianni Viviani)
Una parola sugli Omaniti, che se lo meritano, specie i maschi. Sono belli. Molto. Alti, fieri, magri, il viso affilato, il naso aquilino, la carnagione ambrata, gli occhi scuri. Certo l’abbigliamento aiuta: quelle lunghe tuniche perfettamente inamidate, bianchissime o color sabbia, quegli zucchetti ricamati, quei turbanti annodati, fanno tanto Sceicco Bianco e per niente Alberto Sordi.
Lo so, sto scrivendo come Liala, e ora mi dò il colpo di grazia aggiungendo, per par condicio e per rimanere in tema, che pure le donne, le giovanissime, perché con l’età non migliorano, sono delle vere Sherazade. Pallide, grandi occhi a mandorla, lunghe sopracciglia arcuate, piccoli nasi cesellati, corpi esili e slanciati, visi eleganti, intelligenti, mani bellissime, delicate, dai polsi sottili, con le unghie laccate di rosso. Girano solo in gruppo, madre, sorelle, amiche, o accompagnate da un uomo, fratello, padre, marito. Congiunti, insomma.
(foto di Gianni Viviani)
Ho letto di abbracci e baci sulla guancia, scambiati tra i due sessi, ma personalmente non ho notato nessun contatto ravvicinato. Più comune invece che i maschi si prendano per mano, come è consuetudine nelle nazioni Musulmane, come anche in Marocco, India, Pakistan, Afghanistan, ma il confine tra amicizia, desiderio o intimità, appartiene alla sfera privata. Pur essendo un Sultanato in cui vige la pena di morte, l’Oman viene definito tollerante con l’omosessualità; contrariamente ad altri Paesi Medio Orientali, che si affannano a negarla, qui è accettata con discrezione. Certo, se sei un expat o un vacanziero, non è il caso di sbandierarla, se non vuoi essere sbattuto in prigione o deportato immediatamente. Comunque non vieni lapidato. Mi sembra già una buona cosa.
Il nostro giro turistico si era
rivelato limitato e frustrante.
Forse eravamo capitati male, forse la nostra era stata solo iella, forse avevamo beccato in Salim l'unico driver nevrotico, dispotico e inetto di tutto il Paese, ma fatto sta che dopo esserci smazzati ben 530 km in un giorno per andare alle Waihaba Sands, la' dove iniziano le dorate dune del deserto, il nostro driver s'è ovviamente insabbiato, cosa che l’ha messo in estrema agitazione - anche noi del resto- e ci ha impedito di fermarci per gustare datteri e caffè in uno dei campi tenda allestiti ad uso dei turisti.
Credo, se la memoria non m’inganna, che siamo passati per Nizwa, come ci eravamo ripromessi; una visita non memorabile, la cui unica traccia sono la foto di un forte desolato e l’immagine di un caffè che ci veniva offerto.
Il giorno dopo, dopo aver provato a scaricare Salim senza riuscirci, la meta era raggiungere Wadi Bani Khalid, dove "wadi" sta per letto di torrente; un’oasi, quasi un canyon, che si raggiunge percorrendo la litoranea verso sud. Chiare fresche e dolci acque verde smeraldo, fondale basso, invitante. Frotte di turisti e di perditempo locali. L'ineffabile Salim, che doveva avere i suoi contatti in loco e che probabilmente, ormai, ci detestava, corrisposto, si era dileguato mollandoci in mezzo al parcheggio, tra gli autobus di un gruppo di vecchiardi francesi che avevano invaso l'unico posto di ristoro, occupando tutte le sedie all’ombra: un baretto malandato, con bevande fresche, caffè caldi e qualche orrendo panino. Va detto: tutto molto ben accetto, indispensabile persino, però così squallido da riuscire a deturpare l'assoluta magia del luogo. Assieme al groviglio di pullman.
(foto di Gianni Viviani)
Per concludere in tragica bellezza una giornata nata male, ritorno via Sur, che ci avevano descritto come una piacevole cittadina adagiata sull'ansa di un golfo perfetto, famosa per la costruzione di “dau”, quelle indigene barche di legno rimaste immutate nei secoli. Sur? Chi l'ha vista! Grazie all’impegno disfattista del nostro Salim, solo da lontano. Tempo scaduto, si era fatto tardi. Ormai eravamo in guerra. Ho il sospetto che Salim provasse un certo sadico piacere a frustrare le nostre aspettative. Forse c’era una componente religiosa; un’avversione al turista infedele che veniva a inquinare gli usi e costumi del suo amato popolo. Poteva scegliersi un altro lavoro, verrebbe da dire.
Per consolarci, avevamo deciso di affogare le nostre frustrazioni nell’alcol, con la nostra ultima cena in un pub irlandese. Molto realistico. Sembrava di essere stati teletrasportati a Dublino: musica celtica, birre e quadrifogli, unico anacronismo le ridanciane cameriere filippine, però bravissime nel mixare una Margarita, che non sarà tipica, ma riesce a mettermi sempre di buon umore. Ricordo un Irish stew cotto nella Guinness, come da tradizione, anche se con i quaranta gradi esterni sarebbe stato meglio optare per un’insalatina. Seduti al bancone, con l’aria stanziale di habitués, dei panciuti expats annegavano la loro strapagata solitudine da trasferta con pinte di birra gelata. Al bancone assieme a noi una biondina sfiorita e chiacchierina, ancora piacente ma già un po' brilla; un’insegnante d’inglese, in Oman da 3 anni, che ondeggiava sullo sgabello, al ritmo di " sex bomb, sex bomb, you’re a sex bomb”.
(Wadi Bani Khalid foto di Gianni Viviani)
"Oh gli uomini, qui! hanno tutti moglie e tanti figli ! avrei tante cose da dirti, mi confida in un orecchio, ma ci vorrebbe TANTOOO tempo!". Doveva averne fatte di tristi esperienze, la ragazza.
Bye bye, Terry e possa il tuo sogno di lavorare in un bed & breakfast in Toscana essersi nel frattempo realizzato! O chissà. Magari hai incontrato il tuo Sceicco Bianco. Perché in quel giorno di San Valentino di sei anni fa, tu nella tua solitudine che andava avanti da mesi come unica compagnia avevi la rosa rossa che ti aveva galantemente regalato il gestore dell’O’ Malley’s Irish Pub, al Radisson Blu, in quel di Qurum.
*MANUELA
CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda,
scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le
sue impressioni e ricordi agli amici e sui social.
Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità
anche sul resto)
*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi
still life i prodotti di molte griffe del Made in
Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha
anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di
Repubblica. La
sua passione più recente sono le foto di viaggio)
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