Omaggio a Milano, lontana da me e vicino all'Europa / il fotoracconto

di TINA PANE*

Capitava, da ragazzi, di risolvere un sabato sera andando fino a Posillipo per mangiare la pizzetta dell’elettroforno, e puntualmente –anche per far passare la serata- si discuteva tra noi di dove ci sarebbe piaciuto vivere quando fossimo diventati indipendenti. I più dicevano Roma immaginandola come una Napoli moltiplicato cento per grandezza e opportunità, qualcuno sparava una capitale europea a caso, e nessuno pensava a Milano. Troppo lontana, e vicina all’Europa, troppo avvolta in una nebbia che era soprattutto la nostra ignoranza: ci sembrava più straniera di Londra o Parigi, ci intimidiva, forse.

Poi è capitato che verso la fine degli ‘80 il mio fidanzato di allora abbia deciso di trasferirsi proprio a Milano per cercare lavoro, e io sia andata a trovarlo. Di quei primi passi sotto il cielo della Madonnina 

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non mi ricordo proprio niente, se non i fatti personali e di aver mangiato per la prima volta in un ristorante cinese. Sono scappata, da Milano e dal fidanzato, portando come bottino una borsa Mandarina Duck (che a Napoli ancora non si trovava) e tante promesse disattese.

Pochi anni dopo Milano mi ha richiamato un’altra volta, perché sarebbe stata la sede di lavoro di un concorso vinto in un ministero, ma io di nuovo l’ho snobbata e non sono neanche andata a prendere servizio.

Ci ho rimesso piede anni e anni dopo, per l’Expo del 2015

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 e finalmente non aveva nulla a pretendere. Lei aveva rinunciato a tentarmi e io, tranquillizzata, l’ho visitata, ammirata e apprezzata nonostante il caldo torrido e le fameliche zanzare di un weekend di fine luglio. Infine ci sono tornata verso la fine dell’anno scorso, in tempi non Covid-sospetti, ospite di un’amica napoletana diventata sciura da decenni, e lì abbiamo fatto definitivamente pace.

Complice il sole dell’ultimo sabato di novembre, ho girato senza fretta e senza meta la città, facendomi guidare dai piedi e dal sentimento. Uscita alla metro di Domodossola, ho disceso Corso Sempione  incrociando un ordinato brulichio di runners che riempivano di scalpiccio e nuvolette di fiato i viali ancora deserti del parco. 

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Più avanti mi sono sorpresa per i tanti turisti, soprattutto spagnoli, all’ingresso del Castello Sforzesco

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e su via Dante ho apprezzato una mostra fotografica en plain air, “Music lives here” (immagini di 15 anni di concerti rock a Milano e dintorni, da Rihanna a Lou Reed). 

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Ho avuto una piacevole sensazione di vivacità e compostezza e mi sono fermata a lungo ad ascoltare la voce di un artista di strada che a piazza Cordusio infilava uno dietro l’altro pezzi dei Beatles e di Elton John.

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Da via dei Mercanti la facciata del Duomo sembrava lontanissima, forse perché incrociava il grande albero di Natale che campeggiava sulla sinistra della piazza, i pullman turistici, i fili delle luminarie natalizie spente. Un’immagine frammentata e molto diversa da quella dell’estate dell’Expo, quando arrivando di pomeriggio il Duomo pareva enorme, incombente e luminoso nella luce gialla del tramonto.

C’era una folla pazzesca, su tutta la piazza e sotto i portici, bar e locali pieni, il pittore che realizza il ritratto in 15 minuti aveva una lunga fila di cinesi in attesa. Gente che mangiava e beveva, che fotografava, che comprava e si muoveva in modo disordinato, c’era Natale nell’aria e dentro i portafogli. 

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Così decido di eliminare la Galleria dall’itinerario e mi dirigo verso sud, imbocco via Torino e vado ad ammirare il trompe-l’oeil del Bramante di Santa Maria in San Satiro. Man mano che procedo la strada si fa meno affollata e si riempie di sole, che si riflette sui binari dei tram, sugli stalli delle biciclette, sulle facciate dei bassi palazzi. Seguo il cammino delle sette chiese, deviando per Corso di Porta Ticinese e incrociando il complesso di San Lorenzo Maggiore e la chiesa di Sant’Eustorgio.

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I murales di via San Pio mettono in scena con colori vividi Verdi, Napoleone e un soldato con la maschera antigas, mentre un particolare della Creazione viene interrotto dalla porta di ingresso a uno dei tanti mercatini benefici organizzati da chiese e parrocchie in questo periodo.

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L’atmosfera, anche se ci si avvicina ai Navigli, è da quartiere antico ma vivace, con molta gioventù, e negozi, botteghe e localini indipendenti.

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Ai Navigli, tutti celebrano la giornata di sole passeggiando o riempiendo i tavolini all’aperto, correndo, andando in bicicletta o semplicemente guardando il colore dell’acqua che riflette le sagome dei palazzi, le chiome gialle degli alberi, i pensieri che cercano calore.

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Sull’Alzaia Grande la sequenza di trattorie e osterie fronteggia una fila quasi ininterrotta di bancarelle di varia paccottiglia globalizzata e siccome la strada è stretta e l’acciottolato mette i piedi a dura prova, ci si scontra sull’ambita parte liscia della pavimentazione.

Decido di risalire verso il centro passando per Porta Genova, animata di immigrati, mendicanti e auto12 porta genovaJPG

 e poi, incrociando viale Papiniano, devio ancora una volta. Il popolare mercato, che il sabato è aperto fino a sera, si snoda per centinaia di metri al centro dell’ampia carreggiata ed entrarvi è quasi impossibile, tanta è la ressa. 

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Qui si trova di tutto, dalla frutta all’abbigliamento e i prezzi sono bassi, a differenza di certe “gioiellerie” di via Olona dove le verze sono esposte in guisa ornamentale, accanto ai vasetti di spezie e ai pomodorini del piennolo in confezione regalo.

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Piazza Sant’Agostino è un enorme buco, un cantiere destinato alla riqualificazione urbana dell’area, ma i cantieri stanno dappertutto in città, per la costruzione della linea 4 della metro, per il completamento del terzo grattacielo di CityLife o per più modesti interventi di pavimentazione o sistemazione di aree verdi. 

In pochi passi l’atmosfera cambia e il contesto da popolare si fa nobile. Davanti Sant’Ambrogio c’è la consueta folla di turisti, spesso accompagnati da guide che cominciano da fuori a illustrare la facciata, a raccontare la storia della chiesa e del santo patrono. Prima di entrare ai chiostri dell’Università Cattolica, mi fermo al Monumento ai Caduti, custodito da due anziani alpini, dritti nel freddo del pomeriggio che avanza, un piccolo avamposto di memoria che riesce a oscurare anche la fiaccola perpetua che arde circondata dal tricolore accanto a loro.

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Non avendo prenotato, il Cenacolo Vinciano resta una pia intenzione anche questa volta

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 e corso Magenta un’arteria da scoprire quando c’è luce e sarò meno stanca. Maestosa e deserta, via Carducci coi suoi palazzi storici protetti da alte cancellate sfocia a sorpresa nel trafficato piazzale Cadorna, di nuovo un luogo d’ambiente misto, un cruciale snodo ferroviario e metropolitano, il posto più adatto per celebrare con una scultura che pare un giocattolo la proverbiale laboriosità milanese. 

L’indomani, che si metterà a pioggia continua dal mattino, farò un salto a CityLife

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ma giusto per qualche foto grigia, e poi mi rifugerò tra i tesori di Brera

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 scoprirò il giardinetto di una scrittrice molto amata in gioventù, Lalla Romano, mi spingerò fino alla Scala, a via Monte Napoleone, a San Babila, ma in queste zone qui, di ogni città, mi sento sempre la parente povera e reagisco con sentimenti di snobismo.

Riparto il giorno dopo, contenta ma non appagata, consapevole di aver mancato tanti luoghi e aspetti di questa grande e seria città, e invece di chiedermi perché non l’ho voluta, per la prima volta mi chiedo come sarebbe stata la mia vita qui, e mi rispondo: all’inizio difficile, ma poi buona.

Ci ho ripensato tanto, a Milano e ai milanesi, nei giorni della pandemia, con una stretta al cuore, con quel senso di acuita partecipazione che viene quando un posto non è solo un toponimo o una localizzazione su Google Maps, ma un luogo di cui hai calpestato benevolmente le vie, dove vive almeno una persona cara, dove sai che potrai ritornare ed essere accolta con familiarità.

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Per banale che possa sembrare - ma certa musica popolare ha veramente forgiato il nostro immaginario - il fotogramma che più spesso mi ritorna in mente è quello delle luci a San Siro appannate dalla nebbia. Un buon motivo per tornarci e trovare che di nuovo splende il sole, in tutti i sensi.

* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)

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