Nucleare: alla ricerca del deposito per i rifiuti radioattivi italiani

di REDAZIONE

A dieci anni dall’incidente di Fukushima, la rivista Nuova Ecologia dedica la copertina di marzo al nucleare e al deposito di rifiuti radioattivi che dovrà essere realizzato in Italia per le nostre scorie: si è aperto il percorso per giungere a una scelta condivisa sul sito. Questo è anche il tema di Unfakenews, la campagna di Legambiente e del suo mensile contro le bufale ambientali.

Eredità dalle passate attività nucleari e oggi generati anche da attività di ricerca mediche e industriali, le scorie sono materiali radioattivi (liquidi, gassosi o solidi) per i quali nessun utilizzo ulteriore è previsto e che devono essere smaltiti. La pubblicazione della CNAPI (la Carta nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico) da parte della Sogin il 5 gennaio scorso, rimasta secretata per sei anni e tre governi, ha, infatti, avviato il cammino verso una soluzione condivisa che metta il Paese in sicurezza.

Secondo gli ultimi dati (dicembre 2019) dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), in Italia ci sono poco meno di 31.000 m3 di materiale radioattivo, corrispondenti a 2,9 milioni di Giga-Becquerel (unità di misura che esprime la “carica” dei rifiuti radioattivi). Anche se da noi centrali e altre installazioni connesse al ciclo del combustibile non sono più in esercizio, sono ancora necessarie le attività legate al loro smantellamento e alla gestione dei rifiuti radioattivi prodotti. Sono inoltre ancora attivi alcuni piccoli reattori di ricerca ed è sempre più diffuso l’impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti nelle applicazioni mediche, nell’industria e nella ricerca, con conseguente produzione di altri rifiuti. La nuova classificazione prevede la loro suddivisione in 5 classi, in funzione della radioattività e del tipo di deposito necessario allo stoccaggio temporaneo o definitivo: rifiuti radioattivi a vita media molto breve, ad attività molto bassa e di bassa, media e alta attività. Quelli ad alta attività sono destinati a un deposito geologico ancora da individuare in Europa, le altre categorie finiranno al Deposito nazionale.

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I rifiuti radioattivi italiani sono attualmente in 24 impianti in 8 regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia), ai quali si aggiungono 95 strutture che utilizzano “sorgenti di radiazioni”, cioè materie radioattive e macchine generatrici di radiazioni ionizzanti. Fra i 24 impianti ci sono le quattro ex centrali nucleari e i due centri di ritrattamento dei combustibili irraggiati (Saluggia, Rotondella). Molte di queste strutture temporanee hanno notevoli criticità impiantistiche e di localizzazione, che le rendono inidonee e pericolose nella gestione dei rifiuti radioattivi. Da qui la necessità di un deposito nazionale unico, per sistemare in via definitiva i rifiuti a bassa e media attività che arriveranno dai siti temporanei, dallo smantellamento delle vecchie centrali e dai futuri rifiuti generati dalle attività di ricerca e mediche.

 La struttura, prevalentemente in cemento armato, prevede barriere ingegneristiche, poste in serie con effetto matrioska, e sfrutterà le barriere naturali dovute alla geologia del sito individuato. Depositi di questo tipo sono già esistenti in Spagna (El Cabril), Francia (L’Aube) e Regno Unito (Drigg). La CNAPI ha individuato 67 aree potenzialmente idonee secondo le caratteristiche  previste dalla Guida Tecnica n. 29 dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e i requisiti indicati nelle linee-guida dell’International Atomic Energy Agency. Il tempo per formulare delle osservazioni di merito da parte del pubblico è stato prolungato rispetto ai 60 giorni inizialmente previsti - secondo normativa vigente - portandolo fino a 180 giorni. Un passo che permette maggiore informazione e condivisione dei criteri di selezione adottati da parte dei territori.

L’investimento per costruirlo il deposito, opere accessorie incluse, è stimato in 1,5 miliardi. A finanziarlo sarà la voce della bolletta elettrica che già copre i costi dello smantellamento. A questo proposito va sottolineato che un report della Cgil ha svelato che dei 3,7 miliardi pagati dal 2001 al 2018 attraverso le bollette appena 700 milioni sono andati al decommissioning, il resto è stato speso in manutenzione dei depositi temporanei, per trattare il combustibile all’estero, far funzionare la struttura e pagare il personale.


(fonte: Legambiente)



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