New York New York, uno stradario sentimentale / 2

di FLAVIO FUSI *

Cercar casa: nei dintorni del Flatiron gli appartamenti avevano minuscoli balconi affacciati sul nulla, le camere erano malmesse e la tappezzeria macchiata di umido. Un affittuario venuto dall’Italia non era proprio una garanzia, e i proprietari rapaci pretendevano tre mensilità anticipate. Nel Village dei miei sogni giovanili, non era il caso: appartamenti piccoli e bui, scale interne sconnesse, bagni senza finestre, affitti smodati. E non ti aiutava il pensiero che lì - forse - aveva dormito Bob Dylan, o Dave Van Ronk, o Janis Joplin. Infine, come sempre succede, la soluzione arrivò all’improvviso e per caso. Nel suo tragitto quotidiano verso la redazione, un collega che abitava oltre Canal Street vide un “affittasi” e mi consigliò di provare. Il quartiere – disse – era “piacevole e tranquillo.”

La casa era al 227 di Mulberry street, e il nome: “via dei gelsi”, mi parve subito di buon auspicio. Tre piani di mattoni rossi e un ampio terrazzo sul tetto. Il mio appartamento stava al secondo piano, piccolo ma confortevole: due stanze, un cucinotto, un piccolo bagno, due grandi finestre aperte sulla strada che davano luce e aria. Il quartiere: Nolita (cioè a nord di Little Italy), confina a sud con il piccolo e ormai decaduto insediamento italo-americano e a nord con Houston Street, la grande via che segna idealmente il confine della “Manhattan verticale” e l’inizio della zona sud: Soho (South Houston) con il West e l’East Village, e poi Canal e Chinatown, e infine giù fino a Tribeca, al quartiere degli affari, ai piers dell’ East River e alle Twin Towers.

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Hic manebimus optime.” Traslocai nell’appartamento con tutte le mie cianfrusaglie: per giorni e giorni - al ritorno dal lavoro - arredai, lavorai, comprai e trasportai con l’entusiasmo di uno studente al suo primo anno di università. Presi così possesso del mio territorio: i ristoranti, i supermercati, le piccole botteghe italiane e cinesi. Una torta di pere e cioccolato alla pasticceria francese “Cecì Celà”, la domenica il pacco dei giornali acquistato all’edicola vicina, piante e dolciumi fino a notte inoltrata nell’angusto negozio del fioraio guatemalteco, una bottiglia di vino argentino all’enoteca del cecoslovacco. Consegnai le mie camicie alla lavanderia cinese all’angolo con Spring Street, e due giorni dopo  me le restituirono immacolate ma  dure e secche come stoccafissi. Imparai così a mie spese che ai cinesi piace usare l’amido, e la prima frase da pronunciare all’ingresso di ogni tintoria è:   "no starch, please…"

Amavo il mio piccolo appartamento. Nel vasto ingresso al piano terra non c’era il banco del doorman, ma al primo piano abitava Antonio, il tuttofare salvadoregno, pronto a ogni chiamata, disponibile per ogni emergenza:  "sono Antonio, e risolvo i problemi". Mentre George Dabliu Bush percorreva i vasti corridoi della Casa Bianca e calpestava il pavimento dello studio ovale, scacciandone il fantasma di Bill Clinton e Monica Lewinsky, io prendevo confidenza con la mia nuova vita.

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Potevo ben dire, con Henry David Thoreau: "a casa mia avevo tre sedie: una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la società". Fare amicizia, che altro? Sul mio pianerottolo abitava una giovane coppia italiana. Lei architetto, lui nel commercio, dovevano decidere se restare a New York o tornare nei prossimi mesi. Iniziò così una consuetudine di cene e chiacchiere, di racconti di vita, di condivise esperienze da immigrati nel nuovo mondo.

I miei nuovi amici tenevano una minuscola barca a vela in una marina addossata ai docks della riva ovest. Su questo guscio prendemmo il mare con rotta a sud in una fosca giornata invernale.   L’idea era quella di circumnavigare Liberty Island e affacciarsi all’imbocco di East River. Ma proprio di fronte alla Statua della libertà il mare si fece grosso e il vento indomabile, con raffiche accecanti di nevischio. La barca si impennava e scarrocciava disperatamente, e in breve rischiammo di naufragare sugli scogli sotto il colosso di pietra. Ma quella visione - la libertà che incombeva su di noi tra le raffiche e il frastuono - resta nitidamente nei miei ricordi. Forse così, come la promessa di una nuova vita, i fuggitivi dall’Europa matrigna scorgevano un secolo fa l’ingresso del porto, la grigia selva urbana e quella fiaccola imponente, quel libro dei diritti spalancato, quella dolcissima signora che li accoglieva.

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Arrivò la neve di febbraio, e fu proprio come doveva essere. La mattina mi svegliava il silenzio. Dalla finestra, mentre mi vestivo, Mulberry appariva come un fiume di immacolata bianchezza. Il grande spettacolo era il letargo della città che non dorme mai, il sole freddo, le giornate dure e scintillanti come ghiaccio, i rari taxi fumanti, il fruscìo delle ruote e i richiami degli uccelli nei parchi.

Nelle giornate di bonaccia, decidevo di non prendere la metropolitana e mi incamminavo verso nord a piedi. Lungo la Broadway e poi più su, oltrepassavo la mole imponente del Flatiron e il piccolo giardino bianco davanti all’edificio, arrivavo da Macy’s e poi mi incamminavo verso Est, in cerca degli spazi aperti della Sesta e della Quinta Avenue. Mi accompagnava il fiato degli inferi, i silenziosi sbuffi di fumo e vapore che salivano dalle grate della subway, la città immane che lentamente si risvegliava senza voglia di risvegliarsi. La pigrizia dell’inverno, una placida allegria senza motivo. New York somigliava allora alle mie campagne, ai paesi della mia infanzia.

Arrivò l’estate, e anche l’estate fu come doveva essere: rovente, assetata, insonne. A pochi isolati da casa mia, Little Italy ritrovò la sua festa annuale. Gli agenti chiusero il quartiere al traffico, i ristoranti piazzarono i tavolini in strada, sulle tovaglie a quadri un trionfo di meatballs, spaghetti, pizza e salsa al pomodoro. La sera e fino a tarda notte si insinuava dentro le mie finestre una nuvola densa di aromi: salsicce alla brace, spiedini, costolette bruciate. E l’immancabile colonna sonora di Toto Cutugno: "io sono un italiano, un italiano vero…"

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Arrivò infine l’11 settembre, quando le torri vennero giù e il vecchio Norman Mailer vide "i demoni marciare in testa alla folla in fuga sul ponte di Brooklyn". Osservato dagli uffici al 22esimo piano di Avenue of Americas, il giorno dei demoni fu una minacciosa nuvola nera che si sfrangiava a sud, contro la lastra azzurra del cielo. Scendemmo poi nelle strade, e lo sfacelo fu chiaro anche ai nostri occhi: ogni giorno portava il suo carico di morti e di dolore e di rabbiosa impotenza.

Mentre il Presidente si aggirava sperduto intorno alle macerie, gridando dentro un altoparlante che qualcuno gli aveva messo in mano, io mi ritrovavo di nuovo senza casa. La polizia aveva chiuso tutto il settore sud della metropoli, piazzando transenne e cavalli di frisia lungo Houston. Il mio appartamento era off limits, e lo sarebbe rimasto fino a nuovo ordine.  Dunque ancora una volta, pigiama, dentifricio, spazzolino: serate a casa di amici e notti sul divano.

Quando mi fu concesso di tornare a casa la città ancora piangeva se stessa. Nei parchi e nei giardini lo sfolgorante foliage d’autunno splendeva inavvertito mentre si contavano i morti. Trovai l’edificio di Mulberry Street vuoto e silenzioso. L’ascensore mi portò lentamente fino al secondo piano e la chiave sforzò appena nella serratura. Dentro tutto rimaneva come l’avevo lasciato, ma era come se sui mobili e sui divani e sul tappeto fosse calato un sipario di lutto. La mia stessa casa mi appariva estranea. Aprìi, spalancai fino in fondo la prima grande finestra. Fuori, sul davanzale e contro i vetri, stava ammucchiato uno strato di polvere grigia: la materia impalpabile in cui si erano disintegrate le due grandi torri.

(2 - FINE)

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*FLAVIO FUSI (Ha imparato il mestiere alla vecchia scuola de L’Unità e per la Rai ha consumato le suole dietro ogni crisi internazionale del Secolo breve e oltre. Non ha mai vinto premi giornalistici e non ha mai ricevuto aumenti ad personam. Ha scritto “Cronache infedeli” - Edizioni Voland - e “Campi di fragole per sempre” - Edizioni Effigi -. Medita e scrive in Maremma) 

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