New York New York, uno stradario sentimentale / 1

di FLAVIO FUSI*

Ci sono date – mesi giorni e ore - che si stampano per sempre nella nostra storia privata.  Il pomeriggio del 12 ottobre 2000 una telefonata urgente mi costrinse ad abbandonare a precipizio l’appartamento vuoto che stavo visitando proprio dietro il Lincoln Center. Bisognava tornare subito in redazione: mentre a New York si dipanava oziosamente una luminosa giornata di sole, nel porto di Aden, a migliaia di chilometri di distanza, bruciava il cacciatorpediniere americano USS Cole, sventrato dall’attacco di un motoscafo imbottito di esplosivo. L’attentato – che causò diciassette vittime americane – era il primo firmato da Al Caeda.

Nei giorni di affannoso lavoro che seguirono alla sede Rai di New York dimenticai quell’ appartamento e i suoi spazi ariosi, arrampicato al decimo piano di un edificio moderno tra la 59esima strada e West End Avenue. L’avrei forse affittato, se non fosse stato per la tragedia dell’ USS Cole. Le stanze erano anguste, ma – come spesso accade nella grande Mela – l’ingresso mostrava un lusso ricercato, con pesanti lampadari, sofà immacolati, il banco del doorman in lucida radica. Nel basement si spalancava un ampio spazio lavanderia, e al primo piano era a disposizione degli inquilini una scintillante palestra piena di diaboliche macchine concepite per sudare e dimagrire.

Cercavo casa, e con urgenza: l’azienda non era disposta a pagarmi oltre la costosa permanenza in albergo. Trovar casa a New York: è una parola! Dopo settimane infruttuose, e nonostante “i potenti mezzi messi a disposizione” dalla Rai, fui costretto a chiedere una dilazione dei tempi.  Così la sede affittò per me – in via provvisoria e del tutto eccezionale – un minuscolo appartamento nell’edificio più straordinario che mi sia mai capitato di frequentare. 

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Il mio nido stava al 39° piano di un altissimo building, praticamente addossato alla Carnegie Hall e affacciato sugli  ampi spazi verdi di Central Park, tra la 57esima strada e la Settima Avenue. Stupore del provinciale, timidezza dell’immigrato! La hall era un labirinto di specchi, il doorman in livrea mi incuteva un sacro timore, la cabina dell’ascensore fischiava come una navicella spaziale lanciata verso le profondità del cosmo e si arrestava al mio piano con un morbido sospiro.

Insomma. Consideravo il ritorno a casa – ogni sera – come un risarcimento per le più affannose e complicate giornate di lavoro. E ogni mattina, la colazione con cappuccino bollente e pecan pie sui tavoli di “Ellen’s stardust diner” mi consolava in anticipo dei problemi che avrei trovato entrando nel mio ufficio, al 22esimo piano dell’edificio 3500, all’angolo tra la 55th e Avenue of Americas.

La notte solitaria era il mio momento magico. Le finestre della camera da letto si aprivano verso nord, ben sopra la selva di fanali  che circondavano il lago oscuro di Central Park. Le stelle in alto, le guglie illuminate in basso, un tappeto di luci che si perdeva a sinistra, verso le rive del grande fiume. Navigavo tra le nuvole, e il rumore del traffico di Manhattan mi accompagnava come il respiro profondo della metropoli notturna.

Frattanto, cercavo casa. E vagolavo verso sud, dove gli affitti erano più decenti e il folto dei grattacieli cedeva a isolati più bassi, giardini recintati, condomini discreti e più antiche brownstones. Mi spinsi fino nel Meatpacking District, il vecchio quartiere dei macelli a sud ovest di Manhattan. A Horatio Street fui sul punto di impegnarmi: la casa era nuova, le stanze spaziose, l’affitto sostenibile. Ma la sera e la notte, ah la notte! Tornai a visitarlo dopo il tramonto, quel building che mi piaceva, e mi trovai attorniato da tipi poco raccomandabili, signorine posteggiate all’angolo della strada, ceffi minacciosi negli androni bui.  

Guardatelo oggi, il Meatpacking District, visitatelo oggi, che è diventato uno dei quartieri più à la page di New York. Venti anni fa era una suburra, buono per qualche ristorante a pranzo ma assolutamente sconsigliato per le passeggiate di famiglia. Del resto, questo è il fascino di New York: il mutamento, la metamorfosi continua, il ricambio, la trasfigurazione urbana e sociale. Ma non cercavo il fascino, allora. Cercavo un luogo, un riparo, un rifugio, una cuccia accogliente. Così, in quel lontano autunno di ricerca, anche Horatio Street tramontò, e tramontò il proletario, poco raccomandabile quartiere dei macelli.

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Il mio temporaneo flirt con la “casa tra le nuvole” fu poi bruscamente interrotto dalla caotica campagna presidenziale del 2000. La lunga galoppata dei candidati e degli inviati al seguito iniziò tra le campagne infangate del Midwest, poi si diresse a sud nel bollente Tennessee, si incagliò tra voti contestati e risse politiche, infine piegò a Est verso l’ultima Thule di Miami e la Florida.

Era il 12 dicembre quando Al Gore, sfiancato, gettò la spugna e George Dabliu Bush, il figlio sventato e un po’ lento del vecchio presidente texano, diventò a sorpresa Comandante in capo grazie al voto a maggioranza – 5 favorevoli e 4 contrari – della Corte suprema, che decise di tagliare il nodo gordiano della ri-conta dei voti in Florida. Qui, il candidato repubblicano era avanti dello 0,50 per cento rispetto al suo rivale, e questo amaro  risultato venne “scolpito nella pietra” della storia americana.

Fu un gennaio di freddo intenso. A Washington un lungo corteo di auto accompagnò George Dabliu Bush e famiglia alla Casa Bianca e il tradizionale ballo di investitura ebbe il titolo di “Boots and Spurs”: stivali e speroni. Puro stile texano: sui lucidi pavimenti della sala da ballo volteggiavano crinoline, stivali da cow boys, cinturoni con la fibbia e sottili cravattini di cuoio.

 L’America aveva il suo 43esimo presidente e io non avevo ancora casa.

(1 - continua)


*FLAVIO FUSI (Ha imparato il mestiere alla vecchia scuola de L’Unità e per la Rai ha consumato le suole dietro ogni crisi internazionale del Secolo breve e oltre. Non ha mai vinto premi giornalistici e non ha mai ricevuto aumenti ad personam. Ha scritto “Cronache infedeli” - Edizioni Voland - e “Campi di fragole per sempre” - Edizioni Effigi -. Medita e scrive in Maremma) 

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