Napoli, la madre di tutte le Vigilie

di TINA PANE*

E così dopo almeno dieci giorni di tiepido sole dicembrino, all’antivigilia la città si è svegliata sotto un cielo cupo

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avvolta da una cappa di umidità che manco nella bassa e soprattutto rosa dall’ansia di fare la spesa e farla tutta nella giornata del 23, perché poi l’indomani si entra in zona rossa, con file fuori dai negozi benedette dalla prevista pioggia, limitazione degli spostamenti, e allora tanto varrà chiudersi in casa a cucinare. Accadeva anche negli anni passati, ma quest’anno di più.

L’antivigilia a Napoli è sempre stata vissuta come una specie di before the rain, una rincorsa a dotarsi di tutto il necessario per entrare ufficialmente nel Natale a testa alta, e a nervi tesi, a partire dalla cena della Vigilia, dove secondo tradizione trionfa il pesce

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quello che Gesù moltiplicò insieme ai pani e che da molto prima del miracolo è sempre stato simbolo di vita e di abbondanza.

Sauté di vongole, linguine ai frutti di mare e capitone fritto

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sono la base della piramide alimentare della Vigilia, una specie di diktat che mischia tradizione e devozione, fino a pochi anni fa difficile da sovvertire o anche solo modificare. Poi, col tempo e con la diffusione di gusti e cucine etniche, nonché di prodotti che fino a dieci anni fa erano impossibili da trovare, le tavole napoletane si sono aperte alla sperimentazione. Qualcuno ha introdotto le entrèe con le tartine di salmone o i carpacci di tonno e pesce spada, qualcuno ha sostituito il capitone con una più sobria spigola al cartoccio, qualcuno si è aperto al lusso delle ostriche, che ormai si trovano sfuse e a pacchetti – letteralmente - in qualunque pescheria.

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Ecco, le pescherie. In tempi non sospetti, cominciavano già qualche giorno prima a fare la nottata, cioè a restare aperti tutta la notte, in un tripudio di luci puntate sulla mercanzia, di sciabordio di acqua corrente no stop e naturalmente di voci, di giuramenti sulla freschezza del pescato: Guardate quant’è bello ‘stu purpo, pare che parla! La figura del pescivendolo

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con gli stivali di gomma e le mani insensibili al freddo, che esorta il cliente ad apprezzare il pesce, prima ancora che a comprarlo, quasi offendendosi se questi non mostra entusiasmo davanti al prodotto che è vivo, è qualcosa che ancora resiste nell’immaginario di questa città che ha sempre bisogno di sentirsi rassicurata, e di credere che sta facendo - anche con l’acquisto di pesce per la cena della vigilia - la scelta giusta.

Il posto a Napoli dove più forte si avverte questa sensazione, anche in questo Natale che è tutto uno slalom di divieti e limitazioni, resta il mercato del pesce di Porta Nolana

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nella zona tra Forcella e la stazione centrale. Ci vanno tutti, da tutte le zone della città, a comprare il pesce (o solo a farsi un giro di stupore) ncoppa ‘e mmura

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che poi sono quello che resta della quattrocentesca fortificazione Aragonese. Qui la quantità e varietà di pesce e frutti di mare è scenografica e teatrale, è un’esperienza olfattiva e visiva, un’immersione nella napoletanità.

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Qui, dove la percentuale degli immigrati è più alta che in qualsiasi altra zona della città, ancora si svolge il rito dell’abbondanza, officiato da quei rudi pescivendoli che non temono il freddo e l’umidità, che spicciano veloci i clienti in fila

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e che non ammettono tentennamenti, visto che ce n’è per tutti e a tutti prezzi. Nun ce facite perdere tiempe, signo’! è il sottotesto che sostituisce la frase che dicono nei negozi normali: buone feste a tutti.


* TINA PANE (Napoli, 1962. Una laurea, un tesserino da pubblicista e un esodo incentivato da un lavoro per caso durato 30 anni. Ora libera: di camminare, fotografare, programmare viaggi anche brevissimi e vicini, scrivere di cose belle e di memorie)

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