Napoli in penombra / 6 Camaldoli
di VINCENZO CROLLA*
Per la topografia ufficiale è Via Sant’Ignazio di Loyola, toponimo mutuato da quella silente “stazione” di spiritualità gestita dalla Compagnia di Gesù dedita all'accoglienza di famigliari di degenti e pellegrini, corsi di studio e esercizi spirituali, e quant’altro utile al ristoro del corpo e al nutrimento dello spirito.
Per i vecchi nativi camaldolesi, invece, è la “strada di Stefano” che alla sua apertura dedicò una vita intera; e che, per dare forza alla sua battaglia, lassù fondò un circolo del partito comunista.
Era un contadino Stefano, cocciuto e paziente – ma determinato – come solo chi fin da bambino ha imparato a conoscere la fatica e l’aleatorietà del lavoro dei campi; di chi sa che la “promessa del raccolto” è tanto attendibile quanto più e meglio hai agito la vanga e seminato l’orto.
La sua umana ossessione divenne patrimonio collettivo con l’apertura di quel circolo che aveva quasi come esclusivo programma politico l’apertura della strada che da Largo Cappella dei Cangiani, aprendo una ferita nel vasto castagneto collinare, conducesse direttamente a Nazareth, il piccolo borgo anticamera dell’antico Eremo dei Camaldoli posto qualche centinaio di metri più su.
Conviene, per arrivarci, scartare la carrozzabile e imboccare il piccolo sentiero ombroso, Cupa Camaldoli, che prende l’avvio giusto dalla piazzetta e che per secoli è stato battuto dai sandali dei bravi frati camaldolesi.
L’erta, pregna di un’aura di misticismo, è immersa in un misterioso silenzio che, mentre regala una profonda pace interiore, stimola alla riflessione e al dialogo con sé stessi, proponendosi come una sorta di lavacro dell’anima che si dispone all’incontro col trascendente.
Le poche centinaia di metri utili a raggiungere il complesso monastico camminano sul ciglio del monte, avendo sotto di sè, alla destra, la vastità dei Campi Flegrei: da Nisida al Monte di Procida, da Ischia al litorale flegreo; nelle giornate più limpide persino Ventotene offre allo sguardo del viandante il suo profilo. (foto di Vincenzo Crolla)
Voluto da Giovanni D’Avalos, figlio di
Alfonso d’Aragona, e realizzato nel 1585 su progetto di Domenico Fontana, il
complesso monastico si inscrive nei canoni dell’architettura cinquecentesca del
tardo rinascimento campano.
Per circa 400 anni ha ospitato i monaci Camaldolesi rimasti a lungo custodi del luogo e parte integrante della piccola comunità della collina.
Rimasti solo in tre, avanti negli anni e con forze sempre più carenti del necessario vigore, qualche anno fa si decise di sistemarli altrove e si affidò il convento all’ordine delle suore di Santa Brigida che ancora lì vivono; e che ancora consentono al complesso di conservare la sua impronta ascetica e mistica.
La cima del Monte Prospetto – che così si chiama – a circa 500 metri s.l.m è il punto più alto e più chiaramente visibile da qualsiasi punto della città; ed è il primo posto dove conduco i miei ospiti non napoletani curiosi di conoscere la città di Napoli e di familiarizzare con essa.
Nessun altro luogo, a Napoli, offre agli occhi una vista così ampia e luminosa.
L’eremo che vi accoglie con quella inusuale statua del Salvatore dispone di una vasta pertinenza che, in direzione del terrazzo, si dirama in due percorsi paralleli: uno interno al convento tra le vigne autoctone e i viali che separano gli orti coltivati a pomodori, broccoli di Natale, zucche e piselli e uno esterno, aperto a tutti fino a mezzogiorno.
Il percorso interno, al fine di preservare la sacralità del luogo e la riservata vita claustrale delle suorine, resta interdetto alle visite con la sola eccezione della domenica.
I due percorsi, paralleli, sono separati da una serie di casette singole destinate al romitaggio di quanti volessero ristorare corpo e anima soggiornandovi per qualche tempo; entrambi conducono su quel balcone che si affaccia su tutti i quattro punti cardinali.
Se alla vostra destra potete replicare, ampliandola, la vista di quanto già avete ammirato percorrendo Cupa Camaldoli, a mano manca potrete riempire i vostri occhi fino ai Monti Lattari, al Vesuvio e alla penisola sorrentina, fino a Punta della Campanella.(foto di Vincenzo Crolla)
Più vicino, un dettaglio darà finalmente corpo a quella che fino ad ora per voi è stata una sorta di astrazione: quel cono a base larga in primo piano con in cima l’abbazia benedettina e la fortezza di Sant’Elmo è il Vomero che finalmente, plasticamente, rivela il senso del suo essere “quartiere collinare”.
Immediatamente sotto di voi i vecchi borghi di Soccavo e Pianura – resi ormai irriconoscibili dalla speculazione edilizia - da dove si partivano piccoli eserciti di braccianti che, valicando la collina, a piedi, nella primavera più matura, si dirigevano verso l’altro versante del monte, a Chiaiano, per la raccolta delle ciliegie.
Poco più in là, verso Nisida e il mare di Bagnoli e di Coroglio, tra Agnano e Fuorigrotta, si presentano in bella mostra lo stadio San Paolo e l’Ippodromo di Agnano.
Alle vostre spalle, fino all’Appennino e alle cave di pietrisco del casertano, si stende placida la Terra di Lavoro.
Cosa altro chiedere agli occhi? Cosa pretendere ancora per lenire le ferite dello spirito?
Difficile domandare di più. E allora conviene pensare al corpo stimolato da quella arietta fresca e ossigenata.
Andateci di domenica dunque, dopo aver prenotato un posto a tavola alla mensa delle brave brigidine. Le quali non hanno nessun grande chef a governare la loro cucina né alcuna mirabile lista dei vini; ma che per soli diciotto euro vi offriranno un pasto completo di dolce e caffè utilizzando i prodotti genuini del loro orto e cucinandoli con le loro mani sapienti e leggere.
* VINCENZO CROLLA (1947 - ancora vivo; ferroviere, dopo aver viaggiato per 25 anni a sbafo decise che poteva bastare. E comprò una libreria, per leggere a sbafo. Gli riuscì per altri 18 anni)
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