Nagorno Karabakh, il giardino nero

di FLAVIO FUSI* 

Leggo che molti quartieri sono ridotti in macerie, leggo che migliaia di persone sono fuggite o se ne stanno rintanate nei rifugi sotterranei: nel racconto dei pochi giornalisti rimasti Stepanakert, la capitale contesa e non riconosciuta del Nagorno Karabakh, è oggi una città abbandonata e spettrale.  

E ricordo la stessa angoscia in una lontana estate di trenta anni fa: davanti ai nostri occhi, in una giornata plumbea e percorsa da improvvise raffiche di vento, la città era anche allora sotto assedio, i rari passanti attraversavano quasi di corsa il vasto piazzale davanti al palazzo del parlamento, milizie armate vigilavano appostate agli angoli delle strade.

Nagorno Karabakh, il “giardino nero” del Caucaso, è uno sperone roccioso e misero popolato da cristiani armeni e incastrato dentro la patria dei musulmani azeri: una bomba ad orologeria piazzata dalla storia e dalla geografia nel cuore di quello che fu l’impero prima zarista e poi sovietico. Qui la guerra non si è mai fermata da quando il crollo della galassia centrale comunista e l’esplosione delle nazionalità hanno messo l’uno di fronte all’altro due popoli che si detestano e che da secoli rivendicano la stessa manciata di terra.

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(La chiesa di Surb Hakob a Stepanakert)

Ho visto il nascere della tragedia nell’ estate del Novanta, arrivato su queste montagne  al termine di un lungo percorso accidentato: da Mosca, dove si preparavano complotti all’ombra del Cremlino, fino a Bakù, la grande città serraglio affacciata sul Mar nero, dove i satrapi locali preparavano il grande salto dal comunismo al nazionalismo. Cambiava allora il mondo conosciuto, la geografia politica del pianeta. Come scrive Frank Westerman, “dovevi essere capace di scambiare le vecchie verità con le verità nuove, la falce e il martello con il petrolio e il cavallo, il rosso con il verde, la sfilata del primo maggio con quella del giorno dell’indipendenza.”

Il Nagorno Karabakh ci apparve allora come una terra aspra e ostile. Pastori e contadini silenziosi, greggi sorvegliate dai cani, donne in nero nascoste dietro i muri di casa, bande armate di fucile e coltello, la legge consuetudinaria e la diffidenza antica dei montanari. L’armata rossa stava in mezzo ai contendenti come un arbitro senza potere e senza più voglia, un ospite detestato pronto a fare i bagagli e abbandonare una casa non sua. Nel quartier generale russo il comandante Ivanov – veterano dell’Afghanistan – si sfogava con noi giornalisti: “Abbiamo messo le mani in un nido di vespe. Gli azeri ci accusano di essere complici degli armeni, gli armeni sono alla macchia e ci vogliono morti.”

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(Bakù, capitale dell'Azerbaigian)

Ricordo: a Stepanakert e nei villaggi di montagna, dove gli Omon russi vigilavano con le mitragliette in pugno, il senso di ostilità pesava addosso, opprimente come un vestito bagnato. Tutti odiavano i sovietici, e tutti odiavano noi giornalisti che eravamo arrivati fin laggiù accompagnati da quei ragazzoni biondi armati fino ai denti.

Così cominciò la sfida senza fine iniziata con la perestroika di Gorbaciov, quando il parlamento del Karabakh vota l’annessione unilaterale all’Armenia. Bakù risponde con il pogrom di Sumgait, un feroce massacro di civili armeni. Da allora la guerra – guerra fredda, guerra calda, vendette e stragi, conflitto a bassa e alta intensità – non si è più fermata. Nell’indifferenza del mondo, ogni anno si aggiorna la contabilità dei massacrati e dei vivi che mancano all’appello. Trentamila morti e ottantamila feriti, un milione di profughi dai territori armeni e dalle comunità azere. E interi villaggi che a ogni scossa cambiano padrone: Fizuli, Zangilan, Agdam e Shusha, dove la riconquista armena pochi anni fa ha fatto tacere il muezzin e ridotto in macerie la moschea e la madrassa.

Oggi la lista delle vittime si allunga: dopo due settimane di scontri armati, l’esercito armeno conta 480 morti e le perdite civili da entrambe le parti sono oltre cinquanta. Come sempre, il numero dei nuovi sfollati è incerto: villaggi svuotati e migliaia in fuga  sulla strada, ora che incombe il durissimo inverno del Caucaso.

A distanza di trenta anni dalla prima scintilla cambia il panorama politico e diplomatico. A fianco di Bakù si schiera la Turchia di Erdogan e a fianco di Erevan  la Russia di Putin. Due pesi massimi che mediano, tramano, propongono di volta in volta improbabili tregue, lavorano per i propri interessi.  Il mondo, come succede da sempre, assiste svogliato a questa sanguinosa commedia delle parti. Il presidente azero Ilham Aliyes ripete che “il Karabakh è Azerbaigian” e si complimenta con l’ esercito per la liberazione di alcuni villaggi della regione. Il premier armeno Nikol Padhinyan usa termini definitivi come “scontro di civiltà” e accusa gli azeri di genocidio.

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(Il museo di storia di Stepanakert)

E’ una diplomazia da straccioni, una sfida di menzogne, quella che tesse la tela tra Erevan e Bakù, Mosca e Ankara. Come ieri non è stata dichiarata la guerra, oggi non è dichiarata la pace. Per noi, semplici cronisti e testimoni, contengono più rassegnata verità le parole   di un contadino incontrato  trenta anni fa alla periferia di Harav.   Portava a tracolla una doppietta e aveva voglia di parlare:  “Andavamo a scuola insieme, sapete? poi sono diventati tutti matti. I vecchi compagni di classe si vogliono sbudellare: lui è armeno, quell’altro è azero, e tirano fuori il coltello. Col fucile ci andavo a caccia, oggi mi serve invece per difendermi, ma davvero  non so da chi difendermi. Da chi ieri insieme a me beveva un bicchiere di cognac al caffè del paese? Da chi giocava a dama con me? Oggi li incontro per strada, e non mi chiedono come mi chiamo. Mi chiedono: sei  un figlio di vacca armeno o sei un figlio di cane azero?”


*FLAVIO FUSI (Ha imparato il mestiere alla vecchia scuola de L’Unità e per la Rai ha consumato le suole dietro ogni crisi internazionale del Secolo breve e oltre. Non ha mai vinto premi giornalistici e non ha mai ricevuto aumenti ad personam. Ha scritto “Cronache infedeli” - Edizioni Voland - e “Campi di fragole per sempre” - Edizioni Effigi -. Medita e scrive in Maremma)

 

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