Mozia, dove si cammina sulle acque
di GIORGIO OLDRINI*
“Se vai a Trapani prenditi un giorno per andare all’isola di Mozia a vedere cose meravigliose, potrai camminare sulle acque del mare, come Cristo, e ammirare il Giovinetto”. Livio era un dirigente del Comune di Sesto San Giovanni originario di Trapani e, come spesso succede ai siciliani, molto orgoglioso della sua terra. Ogni tanto mi raccontava delle bellezze di Trapani, del suo essere sempre stata città “contro” rispetto anche alla Sicilia. Ostile ai Borbone al tempo del Regno delle Due Sicilie, antifascista ai tempi di Mussolini, accogliente in questi tempi di immigrazione. “Mia mamma che vive in un appartamento a pianterreno, a mezzogiorno cucina sempre qualche piatto di pastasciutta in più e la lascia sul davanzale della finestra, così gli immigrati che passano possono mangiare qualcosa”.
Mi raccontava della battaglia navale delle Egadi del 241 avanti Cristo tra romani e cartaginesi che pose fine alla prima guerra punica. “Sembra incredibile – mi diceva Livio – ma a distanza di tanti secoli si trovano ancora nel profondo del mare i resti di quella battaglia. Parti di navi, oggetti, armi. E non sempre finiscono in un museo o consegnati alla Sovrintendenza, anche se oggi è in corso un progetto internazionale di recupero ”.
Certo Favignana, Marettimo, Levanzo sono bellissime, il mare trasparente e caldo anche fuori stagione. Ma chi non le conosce? “Vai un giorno a Mozia, un’isoletta invece meno frequentata” insisteva Livio. E alla fine ci sono andato , seguendo le sue indicazioni.
Già raggiungerla è un viaggio molto bello. Da Trapani si arriva all’imbarcadero con una strada che spesso corre tra le saline e per chi non ne ha mai viste sono uno spettacolo di per sé e per la quantità di uccelli diversi che vi stazionano.
La scoperta continua quando si arriva a Birgi e la profezia di Livio si avvera. Perché da lì parte una strada che corre sotto il mare, che qui è lo Stagnone di Marsala, sulla quale si può camminare fino a Mozia, con l’acqua profonda un’ottantina di centimetri, tra pesci che accompagnano le persone o la barca fino all’isoletta che fu all’inizio della storia una base commerciale fenicia, poi insediamento punico, quindi centro romano. Una strada del VI secolo avanti Cristo lunga 1.700 metri, larga 7 metri, sopravvissuta ai secoli, alle intemperie, agli eventi.
La riscoperta dell’isola è soprattutto merito di un inglese, Joseph Isaac Withaker che la acquistò agli inizi del ‘900. Varie ricerche e differenti scavi si erano già esercitati nei secoli e nel 1875 era passato da Mozia anche Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia. Ma Withaker è stato il vero “padre” del patrimonio archeologico dell’isola. Era discendente da una famiglia dello Yorkshire che si era trasferita in Sicilia per produrre il vino Marsala, creare una flotta di velieri che portavano merci e passeggeri fino negli Stati Uniti e dare vita a una banca. Ma Joseph aveva due passioni travolgenti, l’ornitologia e l’archeologia. Ha scritto libri importanti su questi suoi temi del cuore e quando si è reso conto che quell’isoletta nascondeva un tesoro archeologico l’ha acquistata ed ha iniziato un programma di scavi che ha portato alla luce un patrimonio straordinario, a cielo aperto e nel museo realizzato poi da una Fondazione creata dalla nipote Delia in quella che era stata la sua residenza.
“Vai a vedere soprattutto il Giovinetto” mi aveva imposto Livio. “Questa statua è stata esposta a Londra al British Museum in occasione delle Olimpiadi come testimonianza dei patrimoni artistici italiani e in quei giorni è stato l’opera più ammirata tra tutte quelle esposte dai vari Paesi”.
Una emozione straordinaria mi ha preso quando sono entrato in quel piccolo museo ed ho girato attorno a questa statua in marmo del V secolo avanti Cristo. Già le dimensioni ti colpiscono, 1 metro e 81 centimetri senza una parte delle gambe. Lo sguardo fiero, la tunica attillata e le pieghe perfette, un viso bello, da efebo, da dio o da auriga a seconda delle ipotesi, ti raggiungono nel profondo. Così come la storia del suo ritrovamento, nel 1979, scavando sotto una colata di argilla che sembra essere stata appositamente gettata sopra la statua, come per nasconderla agli occhi di nemici e invasori. Un tentativo di difesa di quel tesoro che ha avuto successo per più di duemila anni, fino a quando gli archeologi dell’Università di Palermo sono stati attratti da quel cumulo e lo hanno scavato, riportando alla luce lo splendore di quel giovinetto e tanti altri oggetti. Da dove sia arrivato ovviamente non è chiaro, ma secondo la ricostruzione degli archeologi potrebbe essere stato portato lì dai Cartaginesi che avevano conquistato e saccheggiato Selinunte. Magari percorrendo la via sommersa di Birgi.
Quando sono tornato a casa sono andato subito da Livio per ringraziarlo e per chiedergli scusa per avere dubitato di lui e del suo orgoglio trapanese. Questa volta un orgoglio ben giustificato.
*GIORGIO OLDRINI (Sono
nato 9 mesi e 10 giorni dopo che mio padre Abramo era tornato vivo
da un lager nazista. Ho lavorato per 23 anni all’Unità e 8 di questi come
corrispondente a Cuba e inviato in America latina. Dal 1990 ho lavorato a Panorama.
Dal 2002 e per 10 anni sono stato sindaco di Sesto San Giovanni. Ho scritto
alcuni libri di racconti e l’Università Statale di Milano mi ha riconosciuto
“Cultore della materia” in Letteratura ispanoamericana)
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