Milano: dal cavolfiore lilla al pak choi, colori e gusti del mercatino globale

di FABIO ZANCHI*

C’è stata un’epoca in cui a Milano latterie e portinerie erano contese tra mantovani e veneti: gli immigrati della grande depressione seguita alla piena del Po del 1951. Più o meno negli stessi anni si diffusero le osterie, che vendevano vinaccio sfuso, a buon mercato. Erano i “trani”. Gestiti da pugliesi, in genere provenienti dalla zona di Trani: di qui il nome, celebrato da una canzone di Giorgio Gaber. I pugliesi avevano anche il monopolio del mercato ortofrutticolo. Per questo a Milano – seconda città pugliese dopo Bari, secondo la definizione di Michele Emiliano – per decenni i prodotti più esotici sulle bancarelle dei mercati sono stati lampascioni e cime di rapa.

Da quegli anni ne è passato di tempo, cime di rapa e lampascioni fanno ancora bella mostra sotto i tendoni degli ambulanti ma nel frattempo l’offerta si è parecchio differenziata. Una rivoluzione culturale e di gusti ha cambiato addirittura l’aspetto dei mercati. Con il tempo sono caduti miti e convinzioni radicati nel sapere collettivo. Prendiamo i pomodori e il loro colore. Rossi, come da tradizione, si direbbe. E invece no. Al di là della forma, diversa a seconda della qualità, i pomodori possono essere verdi (e da friggere, come nel film), gialli, rosa, bianchi, arancione, viola. Neri, addirittura: pare che vadano fortissimo in Russia.

Anche i cavolfiori non scherzano, quanto a diversità. Alcuni giurano che ne esistano 15 varietà diverse, altri scommettono che siano sedici. La tavolozza del cavolo, e dei suoi numerosi parenti, è di tutto rispetto. 



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Si va dal cavolfiore bianco a quello viola. Quello romano è verde e pieno di bitorzoli: nel suo piccolo, sembra un tempio indù. Il cavolo cappuccio è verde, oppure rosso tendente al viola, mentre quello toscano è nero. Poi se ne trovano di rosa, gialli o arancione: talmente decorativi che anche i supermercati offrono vaschette variopinte. A ogni colore corrisponde una proprietà benefica per la salute. Quello bianco, per esempio, è antinfiammatorio, utile per combattere i malanni di stagione; quello viola contiene antocianine e carotenoidi; quello romano è antitumorale; l’arancione è carico di vitamina A; quello verde aiuta nella cura dell’anemia. Anche dal punto di vista decorativo le Brassicacee (famiglia del cavolo) sono assai generose. Per esempio, se si taglia a metà un cavolo cappuccio rosso, si rimane stupiti per il disegno elegante e straordinario della sua struttura.


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E vogliamo parlare delle carote? Tutti pensano che il colore naturale sia quell’arancione reso ancor più squillante dal contrasto con il verde dei gambi. E invece no. All’origine erano viola, ma se ne trovano di nere, bianche, gialle e rosse. Quelle più diffuse sono di colore arancione per una scelta politica: furono ottenute al termine di una serie di innesti, in Olanda intorno al XVI secolo in segno di omaggio alla casa regnante di allora, gli Orange. Anche le carote, a seconda dei colori, sono portatrici di effetti benefici. Quelle “normali” sono piene di beta-carotene e vitamine del gruppo A, B e C, il che significa che fanno bene alla vista e aiutano ad abbronzarci. Le rosse contrastano i radicali liberi (non in senso politico) e combattono l’invecchiamento delle cellule, mentre quelle gialle vanno bene per chi deve seguire diete ipoglicemiche, povere come sono di zuccheri; le bianche aiutano a contrastare alcuni tipi di cancro, arteriosclerosi e infarto; le viola pare siano ricchissime di antociani, con un potere antiossidante molto accentuato, mentre le nere hanno effetti benefici sulla vista.

Da tempo i mercati rionali hanno cambiato faccia. Accanto ai colori inusuali di verdure conosciute, sono comparse le forme sconosciute di verdure provenienti da Paesi lontani. L’esotismo de noantri dei lampascioni e delle cime di rapa è stato surclassato dalla comparsa di nuove verdure dai nomi sconosciuti: durian, okra, pak choi, karela, daikon. Segno che cambiano le abitudini alimentari. Tutto sta a capire cosa si mangia. Un esercizio che conviene fare con l’aiuto di una guida come Gurpal, il ragazzo indiano che ci ha spiegato, con tanta pazienza, caratteristiche e modi di cottura di quei prodotti allineati sul suo banco.

Il più curioso, per forma, è il durian. Si presenta come una palla ovale, marroncina, tutta spinosa. Superata la diffidenza, e l’odore pessimo, soprattutto, si scopre che la polpa è dolce e tenera. Chi ne ha consuetudine, giura che ha un sacco di qualità: antitumorale, antiossidante, antinfiammatorio, antivirale e persino afrodisiaco. Tutto sta a crederci.

Il platano non è l’albero dalle grandi foglie palmate che conosciamo, ma una banana verde che può essere mangiata soltanto bollita o fritta. Ottima per i celiaci, pare sia un rimedio contro la gastrite. L’ho assaggiata fritta, ha un sapore dolce-acidulo che non mi ha conquistato.

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L’okra è molto presente nella cucina indiana. Cotta alla griglia o in padella, ha un sapore vicino a quello degli asparagi e dei carciofi. Ha poche calorie, ma è molto vitaminica. Su qualche banco compare con il nome di gombo.

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Se c’è una verdura amara, ma amara quant’è difficile da immaginare, è il karela, che sui banchi di Gurpal è indicato con il nome di ginga. Ha la forma di un cetriolo bitorzoluto, con una scorza spinosa. Si mangia fritto, in genere, o stufato con salsa di pomodoro. Dice Gurpal: “Questo è ottimo quando ti senti stanco. Lo mangi, ti pulisce il sangue e ti fa stare bene”. Una breve ricerca su Internet conferma: “Molto utile per i diabetici. Il karela (anche noto come melone amaro, ma il cui nome scientifico preciso è Momordica Charantia) contiene infatti la gurmarina, un polipeptide capace di regolare il livello degli zuccheri nel sangue. In India è perciò molto usato nella medicina come alimento per i diabetici, ma è anche apprezzato per il suo particolare sapore (a cui bisogna fare però la bocca). Per renderlo più appetibile e meno amaro, è necessario metterlo sotto sale o in acqua salata per almeno un’ora”.


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I ciuffi di pak choi sono di provenienza asiatica: si possono mangiare in insalata o cotti come gli spinaci. Hanno un aspetto rassicurante e niente che faccia pensare a un sapore particolarmente amaro, anzi. Il nome latino restituisce una rassicurante familiarità: Brassica chinensis, della generosa famiglia delle Crocifere. Una verdura parente del cavolo.


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Sa di ravanello, ma è lungo almeno mezzo metro il daikon  che viene dal Giappone. La farmacia del mercato ambulante assicura effetti assai benefici dal suo consumo: è diuretico e drenante del fegato. Persino bruciagrassi naturale, insomma un sanissimo portento da consumare crudo nelle insalate, oppure cotto o saltato in padella.


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Non resta che superare le antiche abitudini e assaggiare, per ridisegnare la mappa del gusto.

 


*FABIO ZANCHI (Da piccolo guidava trattori e mietitrebbie. Da giornalista, prima all’Unità e poi a Repubblica, ha guidato qualche redazione. Per non annoiarsi si è anche inventato, con Nando dalla Chiesa e altri spericolati, il Controfestival di Sanremo, a Mantova)

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