Mikis e i Talebani

di NICOLA FANO*

Ogni tempo storico si fonda sul suo immaginario. E l’immaginario (a dispetto della parola) è fatto soprattutto di musica. Mikis Theodorakis, il compositore greco appena scomparso, era una colonna portante dell’immaginario del suo tempo. Che è anche il tempo di chi oggi ha i capelli bianchi e si è formato in una stagione che pare lontanissima eppure è lì a dirci qualcosa del presente. E del futuro. Cercherò di spiegare perché.

Theodorakis, tra le tante cose, compose le musiche per tre film abbastanza diversi tra loro ma che ebbero grande effetto sul pubblico degli anni tra i Sessanta e i Settanta: Zorba il greco di Michael Cacoyannis (del 1964, sicuramente il suo più famoso), Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras (del 1969, indimenticabile!) e Serpico di Sydney Lumet (che nel 1973 rivelò Al Pacino). Perché il musicista e questi suoi tre film sono così importanti nella formazione del nostro immaginario? Perché rappresentavano un ponte culturale tra mondi (e suoni) diversi. Greco, Theodorakis mise il suo talento al servizio di storie di patente, inevitabile meticciato. Nell’ordine: l’inglese razionale e il greco “pazzo” che diventano fratelli in Zorba; la contiguità politica tra i paesi mediterranei (Grecia, Italia, Francia, ma anche la Spagna franchista) costantemente a rischio dittatura; l’epopea del poliziotto italo-americano che ripulisce New York dalla corruzione.



Si pensava che il mondo dovesse essere migliore: e lo pensava lo stesso Theodorakis che dalla dittatura dei Colonnelli in Grecia era stata torturato prima di esserne cacciato. E si riteneva che il mondo potesse essere migliore grazie all’incontro di culture differenti: di qua e di là dal Mediterraneo, di qua e di là dall’Oceano. È un tema difficile, oggi, da sentire fino in fondo, ma si può riassumere con le sincere parole del nostro Presidente Sergio Mattarella di quattro giorni fa: «In questi giorni una cosa appare sconcertante, e si registra nelle dichiarazioni dei politici in diverse parti d’Europa. Esprimono grande solidarietà agli afghani che perdono libertà e diritti, ma… “che restino lì’’, non vengano qui perché non li accoglieremmo. Questo non è all’altezza del ruolo storico e dei valori dell’Unione». Davvero, per chi ha vissuto dentro l’immaginario musicato da Theodorakis, ciò che accade oggi è sconcertante. Quasi impossibile da capire.

Riguardatevi la scena celebre del sirtaki di Zorba il greco: c’è realmente il senso dell’ineluttabilità dell’incontro tra universi differenti. Incarnato non solo dalle facce degli attori, Anthony Quinn e Alan Bates, né solo da quella danza in quattro quarti inventata dal compositore sulle metriche popolari antiche del suo popolo, ma anche dal miscuglio di strumenti che Theodorakis usò nell’orchestrazione: il classico buzuki, le percussioni pop e le chitarre più “occidentali”. Qualcosa che richiama da vicino l’intuizione di Kurt Weill e Nino Rota che, sia pure in tempi differenti, orchestrarono le loro musiche con strumenti bandistici (solo percussioni e fiati) per richiamare al pubblico una chiara memoria popolare; un miscuglio bonario.


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(Uno dei giganteschi Buddha di Bamiyan, che furono distrutti dai talebani)


Ogni epoca storica è fatta di musica. Da tutte le parti del mondo: la musica è, naturaliter, un incontro tra soggetti diversi. I talebani, appena tornati al potere, hanno preso dalla sua casa Fawad Andarabi, celebre cantautore afghano, e lo hanno ucciso barbaramente. In strada, davanti agli occhi del loro “popolo”, per “educarlo”. Dopo di che, hanno vietato la musica, considerata elemento corruttivo della purezza religiosa del loro credo. È in questa scelta e in quell’omicidio barbaro il senso della loro sconfitta: un popolo senza (libero) immaginario non è, semplicemente. Un popolo che offende il proprio passato, che distrugge a colpi di dinamite l’arte remota non ha identità: solo le armi e il terrore potranno tenere in piedi tutto ciò. Per un po’, ma non per sempre: la storia lo insegna.

Nelle ore appena successive alla “riconquista” di Kabul, molti archeologi hanno lanciato l’allarme per il futuro dei tesori conservati in quelle terre: per ora, sappiamo che i responsabili del Museo Nazionale di Kabul hanno letteralmente nascosto il loro patrimonio. Ma quanto potrà durare questa sospensione dell’immaginario? Quanto tempo impiegherà l’accanimento integralista dei talebani a scovare quei nascondigli e a distruggere quell’arte degenerata? Ho usato volutamente questa definizione, arte degenerata, perché in nome di quest’obbrobrio i nazisti pensarono di poter sostituire le loro bugie all’immaginario del Novecento. Proprio nella pretesa di costruire a tavolino una (falsa) cultura ci fu il segno della sconfitta del nazismo: altrettanto accadrà con questi nuovi fanatici che a suon di bugie bruciano libri e cantanti.

A guardar bene, la morte di MikisTheodorakis, oggi, da anni lontano dalla celebrità passata, sta a ricordarci la ragione della sua grandezza: non c’è tempo senza immaginario condiviso. Per questo è inutile combatterlo con il sangue o con la dinamite.

 

*NICOLA FANO (1959. Vive tra Roma e Torino dove insegna all’Accademia Albertina di Belle Arti l’astrusa materia di Letteratura e filosofia del teatro. Da quarantacinque anni va a teatro quasi tutte le sere e, giacché è recidivo, alla storia del teatro ha dedicato i numerosi libri che ha scritto. Detesta il calcio, ma gioca a pallacanestro: quando smetterà di farlo, con ogni probabilità, morirà)

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