Mi Buenos Aires querida, troppo tardi e troppo fredda / 1
Troppo tardi. Questa volta me ne ero accorto veramente troppo tardi. Erano le otto del mattino ed il DC10 di Aerolineas Argentinas stava atterrando ad Ezeiza, l’aeroporto di Buenos Aires. Ero a bordo da sedici ore, venerdì 20 agosto 1982, e stavo arrivando da Roma, dove mi ero imbarcato in tutta fretta il pomeriggio del giorno precedente.
Che fosse troppo tardi, me ne ero reso conto quando a venti minuti dall’atterraggio quasi tutti i passeggeri avevano iniziato a cambiarsi d’abito: in Argentina era inverno ed io me ne ero dimenticato . Ero vestito con un completo di lino color tabacco, ormai reso quasi un avvoltolato di iuta dopo le lunghe ore di viaggio, e sotto indossavo una delle mie solite Lacoste un po’ scolorite, che facevano tanto casual vissuto , da giovane piacione. Niente calzini e comodi mocassini estivi. Nel trolley, allora si chiamava valigia a rotelle, un altro abito beige di cotone, due camicie di lino bianco, due Lacoste, un maglione di filo blu, una cravatta regimental per tutte le ore e qualche intimo. Praticamente, nudo.
(foto Pixabay)
Ricominciamo. In quegli anni lavoravo come giovane ingegnere con una multinazionale francese che progettava e costruiva grandi impianti di raffinazione in giro per il mondo . E nel 1982 ero reduce da alcuni mesi trascorsi a Kirkuk, in Iraq, dove per conto della Compagnia curavo il coordinamento di un progetto realizzato in associazione con un partner cecoslovacco. Per questo, subito dopo il soggiorno in Medio Oriente, ero volato a Praga per un paio di mesi di revisioni, che poi erano diventati tre, e poi quattro e poi, finalmente, la mattina del 19 agosto avevo chiuso tutto e via Vienna ero riuscito a tornare a Roma.
Erano le due del pomeriggio e avevo trovato la mia Roma incandescente. Avevo con me il solito bagaglio - "sempre bagaglio a mano, ricordatelo fratello", mi aveva raccomandato Youssef, il nostro tuttofare in Medio Oriente, la prima volta che ero arrivato in Siria - e due valige rigide di metallo piene di tavole di progetto. I Pc erano ancora di là da venire e tutto era ancora manuale, splendidamente realizzato con Rapidograph ed inchiostro di china, altro che file in pdf! A Fiumicino mi avevano controllato come al solito i bagagli; tutti gli addetti doganali sapevano che, al ritorno dal Medio Oriente, noi tecnici portavamo non solo progetti ma anche tappeti ripiegati e comprati con il residuo delle nostre indennità in valuta locale che non sapevamo come spendere e che non avevamo il permesso di esportare. Chi tornava invece dai paesi dell’est europeo nascondeva spesso tra le planimetrie e gli schemi di processo qualche oggetto d’antiquariato comprato a poco prezzo o, come a volte facevo anche io, strumenti musicali usati, spesso di ottima fattura. A Praga, complice un mio coetaneo ingegnere locale, anche lui musicista dilettante, avevamo trovato una bottega fuori mano, ai margini del quartiere antico di Stare Mesto, dove con pochi dollari potevamo comprare violini, viole, clarini, cetre slave ed una volta anche un corno francese. Ormai li avevo tutti lì, allineati nel salotto di casa, in attesa della costosa revisione di un liutaio.
Quel giorno non avevo nulla di nascosto nel bagaglio tecnico ed il doganiere si era quasi rammaricato di non aver trovato la sua preda. Di solito, infatti, l’ intera operazione, iniziata con un lamento del soggetto colto in flagranza, si concludeva con un sorriso, qualche pacchetto di sigarette che scivolava in un sacchetto a tacita ricompensa per la taciuta violazione, ed una sana consapevolezza e comprensione reciproca per l’essere ambedue pesci troppo piccoli in un mare di ben più importanti predatori .Il tassista che mi aveva accompagnato in ufficio aveva risposto svogliatamente alle mie domande banali sul tempo e sul traffico di Roma negli ultimi giorni:“A dotto' ma quale traffico, è un mese che ancora se stamo a ‘mbriacà de carcio ! semo Campioni der monno ! “ e aveva scaricato tutto, me compreso, sul marciapiedi di fronte al grande palazzo a vetri, la nostra sede romana, uno dei primi dinosauri a specchi che presto si sarebbero diffusi in tutta la periferia a dare connotazione specifica ai cosiddetti Centri Direzionali. Ancora dieci minuti e sarei andato ufficialmente in ferie, il tempo di lasciare tutti i documenti accanto alla mia scrivania, salutare le segretarie e…. di corsa da mammà, che avevo avvertito dal primo telefono a gettoni dell’aeroporto e che immaginavo già intenta a preparare il “viteltonnè”, la sua pietanza esclusiva ed il mio piatto estivo preferito. E poi mare, mare, mare, tutti all’ Elba, per dieci giorni di barca con gli amici che erano già lì da quel dì.
I corridoi erano quasi deserti, gli uffici occupati da rari impiegati, per lo più giovani appena assunti che era abitudine lasciare in agosto a presidio della quotidianità. Le segretarie erano probabilmente tutte in ferie, così come il collega che divideva con me l’ufficio del secondo piano.Lì per lì non la notai , ero troppo indaffarato a liberarmi di tutti quei pesi e a sbirciare lo spessore delle carte accumulate nella mia vaschetta portadocumenti. Poi la vidi: una busta bianca al centro della scrivania, con su scritto in stampatello col pennarello rosso: BENTORNATO! BUON VIAGGIO! La presi in mano con curiosità, non colsi subito l’ironia di quelle tre parole, e notai che era un po’ troppo pesante per contenere soltanto una lettera :“Caro Carlo - era la calligrafia del mio Capo, un altro Carlo con un’ anzianità di servizio ed un’ età di qualche anno superiore alla mia - siamo stati convocati d’urgenza a Buenos Aires per una riunione sulla Raffineria di La Plata che si terrà domani pomeriggio negli uffici della Tecnobridas. Abbiamo deciso che tu ci rappresenterai. Ti lascio il biglietto aereo e mille dollari. Sei prenotato all’Hotel Libertador. Mi raccomando, facci fare una bella figura. Io sono a Anzio con la famiglia, sarò in ufficio al tuo ritorno, la prossima settimana. Tienimi informato via telex ma so che non avrai problemi. Buon Viaggio. Carlo“Il foglio era piegato intorno ad un biglietto aereo e a dieci banconote da cento dollari l’una.La prima cosa seria che avevo pensato era stata: “CAZZO ! “e la seconda cosa seria, ancora: “CAZZO , ma … siamo stati convocati … siamo CHI?”,e ancora:“Abbiamo deciso …., ma chi CAZZO siete che decidete sempre della vita degli altri ? “ .Recuperando a fatica la calma, avevo ritelefonato a mammà per coccolarla un po’ e annullare l’ ordinazione del viteltonnè, e poi di nuovo avevo richiamato un taxi per l’aeroporto.(La Casa Rosada foto Pixabay)
Ecco perché stavo atterrando a Buenos Aires con gli abiti estivi. Perché con tutta la rabbia possibile ero corso di nuovo a Fiumicino con lo stesso bagaglio a mano, avevo appena fatto in tempo a comprare l’ennesimo libro pocket, e avevo continuato ad imprecare dentro di me contro il Capo che non si era neppure degnato di farmi viaggiare in business class.Buenos Aires mi accolse con un cielo plumbeo e sette gradi di temperatura. Mi infilai in uno dei migliaia di sudici taxi neri che avrei poi scoperto essere il vero tessuto connettivo dei trasporti cittadini.”Hombre , que suerte que tiene usted, tiene la cara de un Campeòn del Mundo!“furono le prime parole pronunciate dall’autista che aveva riconosciuto in me l’italiano , probabilmente dalle scarpe, come spesso succedeva all’estero, e voleva sottolineare con un po’ di stizza e di scherno che solo qualche settimana prima avevamo sottratto all’Argentina il titolo calcistico più ambito al mondo. Pensai subito che sarebbe stato divertente presentargli il suo collega che mi aveva raccolto a Fiumicino, ma mi accorsi che cominciavo a sentire freddo.
Gli sorrisi rabbrividendo ed indicando i miei abiti , nel mio stentato spagnolo, risposi: “ me necessita un cuero …“. Mi guardò dallo specchietto retrovisore sorridendo e mi tranquillizzò con un gesto della mano. “No se preocupe. Ahora vamos a visitar unos grandes almacenes y vamos a encontrar algo adecuado para usted“. Pochi chilometri di autostrada e un’ uscita quasi improvvisa che mi fece pensare ad un tranello - mi era già capitato in Nigeria, dove in quattro mi avevano derubato di tutti i contanti ed il taxi mi aveva pure riaccompagnato in hotel, salvo poi tornare dai suoi complici a ritirare la sua quota. Questa volta non c’era nessun tranello; il tassista entrò in un quartiere popolare della “gran Buenos Aires“, la periferia sterminata della megalopoli da dieci milioni di abitanti, e si fermò davanti ad un capannone un po' cadente dove spiccava la scritta ALMACENES RICCIARDI . Chissà perchè quel cognome italiano mi rassicurò. Pedro, così avevo battezzato il tassista in quei pochi minuti, scese, mi invitò a seguirlo e entrammo nel più incredibile bazar sudamericano che io avessi mai visto.
Altro che Medio Oriente. Tutto era affastellato senza ordine apparente, dai casalinghi ai generi alimentari, dagli abiti ai televisori, e negli spazi liberi tra i mucchi di merce, una folla chiassosa che negoziava a voce alta il prezzo di ogni articolo che aveva in mano, con coloro che, probabilmente, erano i commessi responsabili di ciascun reparto, fino a fissare il dovuto e a pagare.
(foto Pixabay)
Le mie ore di viaggio ed il sonno mancato cominciavano a fare decisamente il loro effetto . Pedro se ne accorse dal mio occhio vacuo, mi tirò per un braccio e mi guidò fino in fondo al magazzino, dove un affollatissimo bancone fungeva da bar .“Un vaso de leche caliente y dos media lunas para el senor“ urlò con una voce da baritono. Finalmente qualcosa di caldo ...“Y un café por favor “ aggiunsi io, rivolgendomi a lui con un filo di voce. La colazione arrivò sul banco in un attimo mentre Pedro si faceva versare un po' d’ acqua calda nella sua tazza da mate che, da buon porteño, aveva sempre con sé. Divorai i due cornetti caldi e quasi mi strozzai col bicchiere di latte che trangugiai come un’idrovora . Misi la mano in tasca per pagare ma il mio amico Pedro, ormai lo consideravo tale, mi fermò con un gesto deciso, gettò dieci pesos sul vassoio e mi trascinò via.
Scelsi un completo di velluto a coste larghe di un improbabile color salmone, dell’unica misura che apparentemente corrispondeva alla mia taglia, e un giaccone di montone rovesciato, un po' puzzolente per la conciatura, diciamo, rustica. Negoziò Pedro, ripetendo più volte la parola "tano". Non capivo quasi nulla e tutto si concluse in pochi istanti con soli cinquanta dollari che passarono dalle mie mani alla sua tasca, ne riuscirono tramutati in pesos e furono gettati al commesso.Mi infilai subito il montone e Pedro riprese l’ autostrada, spiegandomi che l’ inflazione era al cinquecento per cento, che non dovevo cambiare subito tutti i miei dollari ma farlo ogni giorno per lo stretto necessario, ponendo attenzione al cambio più favorevole; per gli stessi dollari ogni giorno avrei ottenuto più pesos. Il mercato non riusciva a seguire l’ inflazione e quindi, per noi stranieri, ogni giorno tutto costava sempre di meno ...
(Il teatro Colòn foto Pixabay)
Arrivammo alla grande Avenida del Libertador, e appena oltrepassato l’obelisco simbolo della città Pedro si fermò e mi indicò il mio albergo. Lo ringraziai, lo pagai il doppio di quanto mi avesse chiesto e lui, con un sorriso, mi rispose:
“Muchas gracias , Tano !! “. Al mio sguardo interrogativo, iniziò a parlare in italiano, con un accento friulano: “I primi emigranti italiani ad arrivare in Argentina furono dei napoletani - raccontò - e i locali li chiamavano 'los tanos' per brevità e forse anche per disprezzo. Oggi, quando parliamo di un italiano, tutti ci riferiamo a un 'tano'. Anche mio padre era un tano, arrivato qui nel ’52 da Sacile, un paesino vicino a Pordenone, e io mi chiamo... Antonio, in onore del Santo di Padova. Mi vergogno a parlare in italiano, perchè non so quanti strafalcioni dico in dialetto e quanto sia comprensibile la mia lingua ad un italiano vero. Per questo anche con lei ho parlato in spagnolo, anzi in castejano , come diciamo noi ... argentini! Ma ora vada a riposarsi , che ne ha veramente bisogno“.
Ero lì, sul marciapiede, immobile, forse paralizzato dal freddo, ma di certo ammutolito dalla sorpresa. Ricambiai il sorriso: “Antonio, parli benissimo l’ italiano. Io ho bisogno di un taxi fra tre ore per andare qui“ - e indicai sulla lettera del mio Capo l’ indirizzo degli uffici dove si sarebbe tenuta la riunione. Antonio si aprì in una risata (ma chi mi ricordava?), si girò e mi indicò una traversa quasi di fronte, accanto al Teatro Colòn, il famoso Teatro dell’Opera di Buenos Aires (ecco chi mi ricordava: Figaro !): “Lei non ha bisogno di nessun taxi, le basta attraversare l’ Avenida e camminare per cento metri, e forse può dormire mezz’ ora in più. Ma se poi le serve un taxi mi raggiunga a questo numero. E’ il telefono di mia madre, mi troverà “. Mi porse un foglietto con un timbro che riportava un lungo numero telefonico. Lo infilai nel portafogli, ancora un sorriso reciproco e sgusciai in albergo.
(1 - continua)
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*CARLO PICCHIOTTI (E' nato a Roma nel 1948 e ha studiato musica, ingegneria , filosofia e lingue straniere; ma soprattutto ha studiato gli altri e da queste osservazioni sono nati i suoi racconti e i suoi lavori teatrali. Vive nella vecchia Roma dove continua a dipingere i suoi sogni)
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