Marocco fusion, fra la Katoubia e Che Guevara/2

di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*

Parliamo piuttosto di Taroudant. Una meta fuori dagli itinerari abituali, che ci aveva attratto per la dritta di un amico, dopo aver letto un articolo sul New York Times. Da giornalista, dovrei essere più smaliziata. Per arrivarci ci siamo impegnati, quattro ore di traballante bus da Ouarzazade. Alle quali si sono aggiunti 30 minuti al trotto, su un carretto che ci ha portato, ben shakerati, al nostro Riad Tafilag,  pulito, rassicurante,  perché ormai l'abbiamo capito, la buona prima impressione è proporzionale al degrado della medina circostante.

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(Taroudant, la piazza             foto di Gianni Viviani)

Ci accoglie il giovane Ben, molto sorridente e molto gay, con un thè alla menthe, che accompagna ad alcune dritte sulla città.  Nulla a che vedere con l’articolo del NYT, uno di quei pezzi che ti fanno venire subito la voglia di fare le valigie. Che raccontava splendori principeschi. Quelli dei Pahlavi, di Farah Diba l’imperatrice, moglie dello Scià di Persia, che qui hanno una “villetta”, che descriveva le delizie della Gazelle D'Or, parlava di architetti, landscape designers e interior decorators che si erano stabiliti in questo remoto angolo del Sud. Le nostre aspettative erano a dir poco alte, una mini Marrakech ma più chic, concentrata in un giardino delle delizie. Se quella realtà sia mai esistita, c’è sfuggita. Forse troppo esclusiva e privata. Invece abbiamo trovato, come in un flashback, un Marocco di mezzo secolo fa: pochi turisti, strade e case sconnesse, sporcizia, colore e calore.  E rumore. Carretti traballanti, motorini rombanti, muli assonnati, cavalli infastiditi, vetturini vocianti, negozianti dormienti, casalinghe intabarrate, adolescenti sorridenti, giovanotti assatanati, bambinetti imbronciati, ragazzine saltellanti, vecchietti sdentati, vecchiette velate, poliziotti vanitosi, venditori sfrontati, perditempo assillanti... la vita! Il quotidiano.


Al tramonto struscio sui rampart, le mura che racchiudono la città. Sfilze di ragazzotti fanno la ronda e ti guardano con aria da seduttori, salutando, con un sommesso “Bonjour la gazelle". Difficile crederlo, ma la gazelle sarei io. E dire che molte fanciulle locali hanno visi bellissimi e cesellati, altro che quella volgarotta della nipote di Mubarak.  La sera il pastis si prende nell'unico bar della piazza principale, Place Assara, paragonata, con una certa fantasia, a Jemaa El Fna. Raduno di alcolizzati, io unica donna guardata pure con una certa concupiscenza, il che dimostra che l'alcol ottenebra la mente. La mattina altro giretto in carrettino, circumnavigando i bastioni. Il caldo si fa sentire e siamo solo a fine febbraio, non oso pensare in estate, quando si toccano i 50 gradi.

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(A Taroudant        foto di Gianni Viviani)

 In taxi verso Agadir, dove prenderemo l’autobus per Essaouira.  A questo giro abbiamo voluto sperimentare i trasporti locali. Scopriamo che il nostro bus viene da Dakhla. Sulla cartina del Marocco sta proprio in fondo, quasi in Mauritania.  Ovviamente è in ritardo: un’ora e mezza. Un'inezia, data la distanza di circa 1.200 chilometri. Quando arriva, ricoperto da sabbia e chiazze di fango, ha l'aria provata. L'autobus, non l'autista, un pezzo di Mandingo ben in carne, nero come l'ebano, impassibile e stoico, che non fa una piega ma spiega che c'è stata una tormenta: venti, pioggia... pioggia? nel Sahara? Oui, c'arrive ! Dunque si parte, e finalmente si vede il mare, lo si costeggia: argenteo, tempestoso, possente, con cavalloni altissimi e spruzzi spettacolari. Ci insegue e ci precede un vento rabbioso, a raffiche, che scuote il pachidermico autobus, peraltro di ottima fattura, comodo, oserei dire quasi pulito, gran bello sterzo, gran ripresa, comfort eccezionale dei sedili. Bella bestia, che regge la strada, tutta tornanti, con grande tempra. Mandingo, che si è già fatto mille e rotti chilometri e deve aggiungerne altri 500 per arrivare, in serata, a Casablanca, deve essere temprato nel titanio. 

La costa si snoda su e giù passando da agglomerati di alberghetti e baretti frequentati da aitanti, spettinati surfisti, accompagnati da toniche biondine in shorts. Qualche chilometro e ci inerpichiamo tra coltivazioni a vista d'occhio di alberi d’argan. Pianta che cresce solo qui, nel tratto Agadir-Essaouira, ma cooperative di  sole donne lo lavorano in tutto il Paese, fino nell' Alto Atlante. Arriva il momento della sosta. Mandingo è umano, dopotutto. Venticinque minuti dopo, ingoiata un’intera tajine di montone e prugne, due aranciate appena spremute, una teiera di tè ben zuccherato, un petit caffè e uno yogurt mangiato con una gestualità delicata da zia Pina nonostante la manona, è pronto a ripartire. Come nuovo.

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(Lavori in metallo     foto di Gianni Viviani)

Altra cosa è il ristorante. Sulle condizioni del bagno soprassediamo. Sul cibo, pure. Gianni, saggiamente, lo evita. Io invece azzardo un thè alla menta e ancor oggi me ne pento... pensavo che l'acqua bollente mi avrebbe protetto, ma il putrido bicchiere ha avuto la meglio. Gli altri viaggiatori, anche un'elegante ragazza con foulard e occhialoni alla Audrey, si buttano affamati su succulente variazioni in tema di tajine, mangiate con la destra, pane prensile per raccogliere allettanti sughetti e pezzetti di carne. Chiudo con una nota di colore: mi accorgo che tutti scartano gli eventuali ossicini, posandoli con cura sul tavolo. Compito del sollecito cameriere quello di ripulirlo con uno straccetto… rende l’idea la parola straccetto? quel pezzo di stoffa, umido e maleodorante? Dubito.  Forse è più efficace dire che mi ricorda un topo morto.

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(Essaouira, foto di Gianni Viviani)

Essaouira, mon amour. Sempre bello ritornare in questa città che profuma di mare e che ha il colore del mare. Amo Essaouira, e sono in buona compagnia, piaceva anche a Pasolini, Orson Welles e Ridley Scott. Siamo capitati durante il Festival di Gnawa, o Gnaoua, quando la città diventa la Woodstock del Magreb. Festival che si tiene ogni anno, anche se le date possono variare, per accogliere musicisti da ogni angolo del Marocco. Girovagando, si è accompagnati da armonie sconosciute, ancestrali, di canti speziati, che si alzano dagli angoli segreti di questa città bianca e blu dai muri decorati dal tempo, dai portoni intarsiati, incorniciata da archi, coperta da terrazzi assolati, chiusa da vicoletti oscuri che rivelano piazzette sorprendenti. Inutile negarlo, turistica Essaouira lo è, ma mantiene una sua grazia, e regala ancora la sua bellezza senza tempo.

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(Essaouira     foto di Gianni Viviani)

 Il porto è uno spettacolo, con le file ordinate di barche blu; con i pescherecci ricoperti di ruggine e salmastro; con le bancarelle di pesce braccate da gabbiani bramosi. Per gustarlo ci siamo fatti tentare da un banchetto, uno dove te lo cucinano lì per lì, condividendo panche e tavolacci spartani con gli altri turisti e con una miriade di uccelli ingordi. Posti improvvisati, che ti promettono un vinello gelato al prezzo di un Moet Chandon. Accanto a noi, una bella signora araba; elegante cappotto cammello, bocca carnosa color ciliegia, viso e manine diafane che spolpano, con grazia, gamberetti e piccole sogliole, passandole alle sue due creature ricciolute, che si affrettano a distribuirle alla schiera di gatti famelici che, nel frattempo, si è radunata sotto il tavolo e che un po' ci rompe le balle.

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(Essaouira, il suk            foto di Gianni Viviani)

Un ricordo struggente? Due anziani vecchietti berberi, incontrati sul lungo mare. Lui  in palandrana marrone e zucchetto in testa, lei in foulard fiorito e caftano rosa stinto, il mento tatuato alla maniera tribale, ambedue piccoli e grassocci, seduti in silenzio, vicini, a guardare a lungo il mare tempestoso e argenteo in un rituale forse quotidiano. Tenerezza.

Risalita con stop a Marrakech per prendere il treno, verso Meknes. La stazione, architettonicamente parlando, è un piccolo bijoux di pulizia e organizzazione. I bagni odorano di pulito e di Arbre Magique, e all'angolo Segafredo Moments abbiamo bevuto un ottimo caffè Nos Nos , quello che in Italia  chiamiamo Marocchino e  che qui è sconosciuto. Un po’ come la nostra Zuppa Inglese sconosciuta agli Inglesi.  ll treno per Meknes, almeno in prima,  non ha nulla da invidiare ad un nostro Freccia Rossa, se non fosse che sfrecciare non sfreccia, perché fa un giro farraginoso, passando per Casablanca e Rabat, essendo l’unica linea ferroviaria. Dopo sei ore, non ne possiamo più. 

A Meknes, città imperiale,  passata la mattina ad ammirare tra i palazzi e le mura fatte costruire da Mulay Ismail - sultano prolifico e di grandi appetiti, che contava 150 mogli, 1000 figli e 12000 cavalli - dopo esserci persino concessi un giro su un’assurda carrozzella genere Cinderella, siamo riusciti con sagace intuito a tornare al Riad, con il proposito di risorgere dal talamo al tramonto, ora magica che il fotografo familiare definisce quella del National, inteso come Geographic. Il proposito era di cogliere la spettacolare vista sulla città da una delle maestose porte imperiali. Ma era salita una nebbia inesorabile e di vedute panoramiche non se ne parlava. Perciò, per consolarci, ci concediamo una cena compensatoria al Bistrot Chez Philippe dell'hotel Transatlantique,. Un albergone niente di che, ma lo chef,  che ci accoglie personalmente con un imbarazzante baciamano (ma dai, sono anche vestita sportiva)  ci raccomanda un sontuoso maigret de canard ai frutti di bosco. Potevamo essere in Dordogna.

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(Meknes          foto di Gianni Viviani)

Può capitare, girando all'improvviso un angolo della Medina, qui a Meknes, d'impigliarti, come un insetto in una ragnatela, in un serico, sottilissimo, filo. E si scopre che, appiattito contro il muro, c'è un omino intento a dipanare, con l'ausilio a volte di un meccanico marchingegno, a volte delle sole mani magiche, un rocchetto colorato, una bobine, come la chiamano qui. Che si vendono nei Souk delle Bobines, sotto la Grande Mosquee. Saranno almeno un centinaio, i piccoli negozi dedicati, identici, uno accanto all’altro. Ogni anfratto è una festa per gli occhi, ogni rocchetto è sistemato, ovunque, con squisita sensibilità cromatica, in una progressione di sfumature ricercate: menta, lime, turchese, indaco, violetto, porpora, fucsia, rosso, arancio, giallo… Le plaisirs des yeux, per me almeno, che mi faccio sedurre dalla bellezza del colore, un affascinante passaggio obbligato per arrivare al nostro, segreto e silenzioso, il Riad El Ma, che raccomandiamo, non ultimo per il cibo.

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(Meknes        foto di Gianni Viviani)

Trasferimento a Fès, ultima tappa, curiosi di esplorare la famosa Medina, la più grande, dicono, di tutta l'Africa, con i suoi 9000 e più carrugi, spesso non più larghi del deretano di un mulo, perché solo da muli, ciucci, e orde di umani appiedati possono essere frequentati.  Un dedalo di viuzze che però ci risparmia motorini molesti, macchine e motociclette invadenti. Nessun rumore, solo lo scalpiccio degli zoccoli di poveri quadrupedi dall'aria mesta e rassegnata.

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(Fès          foto di Gianni Viviani)

Lasciati i bagagli al Riad L’Artiste, nel nostro camerone stile boudoir di Tutankamen, tanto era faraonico, ci siamo avventurati tra i vicoli con circospezione mista a determinazione, discutendo sull'ineluttabilità di farci turlupinare da una guida, per affrontare il labirintico percorso.

Chiedete e vi sarà dato funziona. Perché veniamo prontamente adescati da una guida sui generis, che ci convince subito: uno scugnizzo, piccoletto e sfrontato, più basso del mio già basso baricentro, che mi porge, sorridente, il bisunto biglietto da visita di un suo improbabile datore di lavoro e si presenta con un esperanto efficace: ”Io Omar, Madame, io guida, io parlo italien, ingles, francais… tu viens, tu follow me, mais fait attention a Monsieur (Omar l’aveva già inquadrato), no deve restare behind! You want to see i tannori, si? Here, venez! Eravamo stati adottati o rapiti o ammaliati. E in quella mezz’oretta prima del buio, con il piccolo Omar alle costole, determinato a proteggerci dagli adulti e ben più molesti colleghi, il souk ci ha svelato il suo aspetto più amichevole e rassicurante, con i negozianti che ci salutavano sorridendo: “Oh avez vouz un nouvel enfant, madame? Mais alors, s’il vous plait, on vous en supplie, faites-nous une faveur, améne-le avec vous en Italie”.

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(Fès, il suk                                 foto di Gianni Viviani)

Comunque non si può dire che la medina di Fès odori di buono.

Primo perché è enorme, antica e intensamente popolata, secondo perché il sistema fognario risente dell’età e terzo per il suddetto numero di animali, muli, asini, gatti, cani randagi, che hanno le loro necessità, e infine per l’impressionante quantità di macellerie, ristorantini, banchi di frutta e verdura, tutti poco inclini alla raccolta differenziata… Fès, senza tanti giri di parole, puzza.

Nelle altre medine, inclusa la caotica Marrakech, questo dettaglio mi era sfuggito, ma qui l’odore diventa persino colore locale, alla fine ti ci abitui. Passato il primo impatto, dopo due giorni, complici le dritte del piccolo Omar, che nel frattempo doveva aver trovato altri allocchi, la medina non aveva più segreti. Per chi fosse interessato: ci sono due grandi arterie principali che portano a e partono da la Porte Blue; quella più turistica che s’inerpica fino alla suddetta e che richiede polpacci vigorosi, e quella che potrei definire nazional popolare, un bazaar di merce ad uso e consumo locale, perfetta a mio avviso, per la discesa. Per la cronaca, possiedo un ben sviluppato senso d’orientamento di cui vado fiera. Mi si perdoni la prima persona singolare, ma il tributo mi spetta. Gianni, tra le tante qualità, nel suo hard disk non ha in dotazione la bussola. Con l’occhio perennemente incollato alla fotocamera, distratto dagli eventi, ha una visione del mondo full frame e affatto topografica o cardinale. Chiedetegli da dove siamo venuti e v’indicherà la direzione opposta, anche se al bisogno a casa ci torna. Però come body guard è una garanzia.

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(Le bobines      foto di Gianni Viviani)

In tempi recenti, sebbene dubiti che ci sia qualcuno disposto a offrire un cammello per la sottoscritta, o a rapirmi per nascondermi dietro un tendone, come pare sia capitato a tante bellezze nordiche, sparite in qualche harem con la tratta delle bianche, ciò nonostante Gianni cavallerescamente si attiva. Una trentina di anni fa, viaggiatrice single e solitaria, mi capitava di essere braccata e palpata, ma me la cavavo distribuendo gomitate e ceffoni. Oggi, nonostante le insidie non si ripetano, Gianni s’impegna: a proteggere in primis la sua preziosa compagna di viaggio, parlo della Canon, ovviamente, sia la sua più ingombrante compagna di vita, e lo fa con sguardi feroci e qualche spintone ben assestato. Una di queste volte finisce che ci menano.

(2 - FINE)

Leggi la prima puntata


*MANUELA CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda, scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le sue impressioni e ricordi agli amici e sui social. Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità  anche sul resto) 

*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi still life i prodotti di molte griffe del Made in Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di Repubblica. La sua passione più recente sono le foto di viaggio)


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