Marocco fusion, fra la Katoubia e Che Guevara / 1
di MANUELA CASSARA' e GIANNI VIVIANI*
Il Marocco ci fa lo stesso effetto dell’India.
Dopo un po’ entriamo in astinenza, e dobbiamo ritornarci. Sentiamo il bisogno
di riscoprirlo, prima che sia troppo tardi. Perché il Marocco sta cambiando. Il
Marocco è già cambiato. I segnali ci sono, ovunque.
I puristi dicono che Marrakech ha perso il suo smalto. Colpa di un turismo che vuole il Riad in stile Boutique hotel, il localino fusion con tapas e sushi, il negozio dal design cosmopolita. Ma la contaminazione, per quel che mi riguarda, può essere persino affascinante.
(Marrakesh foto di Gianni Viviani)
Un esempio: momento mojito, al tramonto, su una terrazza accanto alla Moschea. Affondati sui cuscini, cullati dal richiamo del muezzin in sottofondo, mixato alle voci di Adele e Amy Winehouse. Fin qui tutto molto pop e prevedibile. Ma poi arrivano le note di ”Hasta Siempre”… e visto che non siamo alla Bodeguita del Medio, all’Havana, ma nel cuore della Medina, la domanda è: ci può essere qualcosa più fuori contesto di “de tu querida presencia, comandante Che Guevara” e al tempo stesso qualcosa di altrettanto inaspettato ed emozionante? Non tutti saranno d’accordo. Molti penseranno, vuoi mettere una bella nenia berbera, accompagnata dal qanun? Anche. Ovvio. Ma io trovo che l’incontro tra culture contrapposte, nella giusta misura, possa arricchire entrambe. Non sono un’integralista della tradizione.
Marrakech comunque è cambiata, ma non i fondamentali: Jemaa el Fna, è la stessa piazza che ogni sera prende vita, che si popola con i suoi falò, gli odori, le luci e i sapori, da sempre intensa e misteriosa come un quadro di Bruegel. E’ solo più pulita, più sicura, gruppi di poliziotti la pattugliano per scoraggiare i ladruncoli e tranquillizzare i turisti. I Giardini della Katoubia col fresco continuano ad accogliere gli innamorati, che mi sono sembrati più disinvolti, meno guardinghi, che ora si tengono per mano senza timore. Immutato anche il Jardin Majorelle. Splendido come l’ha voluto Yves Saint Laurent, un’oasi di eleganza, una meraviglia di colori: l’indigo dei muri, il giallo dei dettagli, il verde delle piante, quel fantastico fuchsia delle bouganville. E la sorpresa del piccolo museo berbero… Barbari, i berberi? Un’occhiata a quei gioielli opulenti, a quei raffinatissimi tessuti, a quegli abiti indossati dai poveri pecorai dell'alto Atlante e dai nomadi del deserto, e ogni cosa in Marocco acquista un senso: la ricerca sensuale della bellezza in ogni oggetto, la complessità dei sapori nel cibo, la preziosa artigianalità degli accessori, la teatrale scenografia delle abitazioni.
(Marrakesh, contaminazioni foto di Gianni Viviani)
Nei souk marocchini io ci sguazzo. Lasciatemi
in un bazaar, passate pure a riprendermi dopo una settimana e mi troverete
paciosa, sdraiata sui tappeti, a spiluccare datteri e a bere tè alla menta,
mentre chiacchiero del più e del meno. In ogni viaggio non resisto ad accollarmi
carabattole improbabili, meglio se scovate per caso, tra pile di cianfrusaglie
impolverate. Più sono povere, più sono senza valore, più mi sembra di aver trovato
un tesoro.
E qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma passato l’iniziale entusiasmo, vengo sopraffatta dall’overdose di paccottiglia kitsch, arrivo al punto di saturazione e mi scopro ad evitare quei negozietti stipati con troppa roba, tanta e tutta uguale.
Sarà l'avanzare dell'età che mi ha reso più vulnerabile, ma ultimamente, a riguardo, mi si è sviluppata un’empatia dolorosa per questi artigiani, siano marocchini, indiani, balinesi, cinesi, vietnamiti, non importa. Che facciano cose squisite o pacchiane. Non m’importa.
Incrociando lo sguardo con quegli sconosciuti, sottopagati, sfruttati a cottimo, chini, ad applicare passamanerie con la destrezza di couturier, a produrre l'ennesima pantofolina ricamata o il milionesimo caftano, o una collana cesellata, o una lampada sbalzata, o una mattonella intarsiata, so che meritano il mio rispetto. Dietro ogni oggetto ci sono ore, giorni, di lavoro, c’è una maestria tramandata, che non si può dare per scontata. Aggiungeteci la deformazione professionale (mi preoccupano pure lo stock di merce invenduta e la competizione feroce) e capirete perché spesso torno sui miei passi, contenta di pagare ogni cosa cinque, dieci volte di più del suo valore, nemmeno contratto più se non il minimo per salvare la faccia e gli altri turisti, con la speranza di dare il mio contributo a quello che per me non ha prezzo: la fatica di vivere.
(Dal Dades a Erfoud foto di Gianni Viviani)
Per di più stanno diventando una specie in estinzione, questi artigiani. Sono senza eredi. I giovani? Hanno altre mire, loro.
Basta guardarli. Tutti vestiti uguali, stessi jeans calati bassi sul sedere, stesse sneakers colorate e t-shirts modaiole, tutti scotennati con lo stesso taglio cortissimo ai lati, a spazzola sul cucuzzolo. Tutti col cellulare, tutti che si muovono in branco, tenendosi per mano, con l'aria strafottente, ma anche smarrita, di chi non sa bene chi è. E le ragazze, senza il pudico foulard, con i capelli al vento, vanno in giro spesso da sole, alcune in minigonna, altre con leggins aderenti e magliette sbracciate, a loro agio, seducenti. Cosa faranno, domani, questi giovani marocchini? Se indosseranno la djellaba dei loro padri sarà per intrattenere noi turisti, come ci è successo durante questo viaggio. Una mascherata, una messa in scena.
Hanno altre speranze, i giovani. Come i loro coetanei in tutto il mondo, nutriti a social e reality show. Diventare imprenditori, calciatori, uomini d’affari, aprire un’attività, sfruttare il turismo, fare soldi. E le ragazze? Con loro l’evoluzione non mi pare si sia spinta fino all’ambizione. Spero di sbagliarmi, ma sembra che si sia fermata all’aspetto fisico. Anche se liberarsi da veli e palandrane, reclamare una certa libertà di movimento, in una cultura Musulmana, è comunque una conquista.
(Erfoud di Gianni Viviani)
Il nostro è un giro canonico. Nulla di estremo. Si parte da Marrakech, direzione sud. Prima tappa le Gole del Dades, a soli 120 chilometri da Ourzazate. Massimo novanta minuti di strada diritta, almeno per quegli iniziali 100 km, prima degli impervi tornanti che porteranno ad apprezzare le Gorges in tutto il loro glabro, impervio, splendore. E invece no, il tempo di percorrenza non è garantito, è l’imprevisto a determinarlo, magari per via della polizia. Se nei souk è una garanzia, nei trasferimenti può essere una seccatura. Occhio ai posti di blocco e ai controlli a sorpresa. Difatti ci fermano per eccesso di velocità, il che, per chi conosce Gianni, è una barzelletta. L’uomo non solo va piano di natura, ma in viaggio, alla guida, è insopportabile. Rallenta, si ferma all’improvviso, perché qualcosa, qualcuno, ha colto la sua attenzione e vuole scattare una foto, a nostro rischio e pericolo. Chi c’è dietro, chi c’è davanti, per lui è irrilevante, diciamo che è molto più probabile essere insultati per eccesso di lentezza, che fermati perché andiamo troppo forte.
Ma per questi due flic, aria fintamente amichevole, pericolosamente sorridenti, la realtà non conta: “Alors, non avete visto il cartello limite di 60? Mais voi, mes amies, voi andavate a 80. Ma che peccato, se la vostra velocità fosse stata sotto i 79 km la multa sarebbe stata di soli 300 dirham; invece, per quel chilometro in più, sono 800". Carogne. E’ chiaramente arrivata l'ora del pizzo. Ora dello sfoderare le munizioni. Con un mio altrettanto finto sorriso, con la "erre" retaggio dell'infanzia monegasca, per fare capire che noi non siamo gli ultimi sprovveduti ma abbiamo dalla nostra il Quarto Potere, butto lì che sono una giornalista, che mio marito è un photographe, che siamo in Marocco per fare un libro. Il che non è una bugia. E’ una mezza verità, perché sarà un libro autoprodotto, per nostro piacere e personale ricordo. Ma dove sta scritto che bisogna specificare? Così, mentre io cerco la saggia via della diplomazia, con un innuendo ricattatorio, Gianni, bofonchia incarognito: “200! non un dirham più di 200! “ Quelli, maschi e marocchini, m’ignorano immediatamente per intascarsi i 200 dirham, per i quali non ci fanno una ricevuta manco per finta. Infine si accomiatano con un premuroso “Bon voyage. Mi raccomando, mes amis, fate attenzione all'entrata di Boulmane , guardate che c'è un altro radar”.
Come dire: non siate così fessi da farvi beccare due volte!
(Erfoud di Gianni Viviani)
Proseguiamo diretti a Merzuga, desertico avamposto, quattro casupole o poco più, ai piedi delle dune di Erg Chebbi, descritte come le più belle di questa parte del Marocco. Ci si arriva su quella che era la vecchia pista della Parigi-Dakar. Partiamo da Erfoud, in piena tempesta di sabbia, guidando con visibilità di appena tre metri. Quando ci andrà bene i metri saranno anche cinque, a volte dieci, quando benissimo, trenta. Possiedo un talento naturale per trovare sistemazioni via dalla pazza folla, e la Kasbah Azalay era una di quelle. Stando alle indicazioni, che la fanno sempre facile, bastava uscire dalla strada asfaltata, dove già non si vedeva nulla, inoltrarsi per una stradina sterrata, di per sé non segnata e quindi invisibile, per seguire sporadici cartelli. Raggiungerla sarebbe stato difficile con la piena visibilità. Ma la fortuna aiuta gli audaci, come si dice, nella persona di un benzinaio anima buona, disposto a farci da apripista con il suo traballante motorino e che ci lascia davanti a quello che sembra il fortino del Deserto dei Tartari, per scomparire in una folata di ghibli.
Siamo arrivati. La nostra camera, su Booking, era elegantemente etnica, con quel giusto di spartano, che fa traveller navigato. Peccato che, nel frattempo, nella medesima. la sabbia sia entrata da ogni fessura e abbia ricoperto ogni cosa: pavimento, lenzuola, asciugamani, persino le ciabattine in dotazione. Un perplesso dromedario ci osserva ruminando, mentre ci buttiamo famelici su poulet et frites preparati dal nostro ospite berbero, che nel frattempo si è affrettato a indossare una non proprio immacolata djellaba sui jeans, forse per affermare il suo ruolo di abitante del deserto. Non siamo soli come pensavamo. La sala da pranzo è affollata di ragazzi, assorbiti dai loro portatili, perché la connessione wifi è sorprendentemente eccellente. Meglio che a casa, sulle colline dell’Oltrepò. Verso sera, calato il vento, scopriamo il perché: la Kasbah è sovrastata dal traliccio di Maroc Telecom, una struttura taglia Tour Eiffel, che la tempesta aveva nascosto.
(Merzuga, le dune di Erg Chedi di Gianni Viviani)
La mattina alzataccia alla ricerca della duna. Gianni, detto anche il “bulimico fotografo”, vuole scattare la madre di tutte le albe nel deserto. Il nostro beduino, in-djaballato di blu, doverosamente inturbantato, occhi bistrati di khol, (forse per sembrare sveglio, data l’ora) si destreggia tra cumuli di pietre e insidie nascoste, mentre le nostre budella vibrano in sincrono con il motore della sua Mitsubishi, nuova di pacca. Grande errore fare colazione prima! Io, che amo le montagne russe, persino le più adrenaliniche, lo ripago con orgasmici gridolini di piacere a ogni sobbalzo; viceversa Gianni, sempre più frustrato, ricorre ad elementari grafici sulla sabbia per spiegare all'ottuso berbero (valutazione sulla persona, non sulla categoria) il concetto di sole alle spalle e non in controluce! Ce la farà il nostro eroe? No che non ce la farà.
(Tra Erfoud e Merzuga di Gianni Viviani)
Scaduto il tempo pattuito, porremo fine alla sterile, e pure costosa, escursione. In fondo ci attendono solo sette ore di macchina verso Ouarzazade, sulla quale glisserò, perché come Marrakech è una tappa d’obbligo e si sa già tutto. Persino che è la Hollywood del Marocco. Ma scordatevi Beverly Hills e Rodeo Drive, anche se tutto sembra costruito da Universal Studios.
(1 - continua)
*MANUELA
CASSARA’ (Roma 1949, giornalista, ha lavorato unicamente nella moda,
scrivendo per settimanali di settore e mensili femminili, per poi dedicarsi al marketing, alla comunicazione e all’ immagine per alcuni importanti marchi. Giramondo fin da ragazza, ama raccontare le
sue impressioni e ricordi agli amici e sui social.
Sposata con Giovanni Viviani, sui viaggi si sono trovati. Ma in verità
anche sul resto)
*GIANNI VIVIANI (Milano 1948, fotografo, nato e cresciuto professionalmente con le testate del Gruppo Condè Nast ha documentato con i suoi
still life i prodotti di molte griffe del Made in
Italy. Negli ultimi anni ha curato l’immagine per il marchio Fiorucci. Ha
anche lavorato, come ritrattista, per l’Europeo, Vanity Fair e il Venerdì di
Repubblica. La
sua passione più recente sono le foto di viaggio)
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